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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-09232024-155706


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
VALENTE, FEDERICA
URN
etd-09232024-155706
Titolo
Infertilità e impotenza sociale in Grecia tra il V e il IV sec. a.C.
Settore scientifico disciplinare
L-FIL-LET/02
Corso di studi
SCIENZE DELL'ANTICHITA' E ARCHEOLOGIA
Relatori
tutor Prof. Taddei, Andrea
Parole chiave
  • apaidia
  • donna
  • Infertilità
  • sterilità
Data inizio appello
09/10/2024
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
09/10/2064
Riassunto
L’oggetto della presente ricerca riguarda la percezione dell’infertilità nella Grecia di età classica. Attraverso una prospettiva storico-antropologica si cerca di comprendere come veniva sentita l’infertilità dall’uomo e dalla donna tra il V e il IV sec. a.C., quali erano le soluzioni proposte e le conseguenze per una coppia priva di figli.
Per attuare un simile progetto si è scelto di prendere in esame sia fonti materiali che letterarie. Nello specifico, si fa interagire il mito con il corpus degli oratori attici, con le tavolette rinvenute nel sito oracolare di Dodona e con gli iamata di Epidauro. Per maggiore completezza, si effettuano paralleli e confronti con i testi filosofici, di Aristotele e Platone, e con il Corpus Hippocraticum.
Quando si fa riferimento all’infertilità, oggi, si connette tale nozione all’ambito medico; tuttavia, nel presente studio non si tiene conto soltanto dell’assenza di figli per cause biologiche. Dal momento che l’assenza di un erede rappresenta un serio problema sociale, poiché comporta conseguenze nefaste sia all’interno dell’oikos sia nella dimensione pubblica, sono presi in esame anche i casi in cui gli individui hanno perso un figlio o non ne hanno perché non ancora sposati. Difatti, la mancanza di un erede, per cause biologiche, per celibato/nubilato o per la prematura morte dei propri figli, viene percepita, nei secoli di nostro interesse, come una forma di infertilità sociale: prescindendo dalle motivazioni di fondo, l’assenza di prole costituisce, dunque, un serio problema cui la comunità deve porre rimedio.
Dal momento che l’apaidia rappresenta un elemento di forte instabilità all’interno della comunità, la polis mette in atto diverse strategie per porre rimedio a tale problema e considera l’infertilità una complicazione sociale risolvibile; difatti, le molteplici soluzioni offerte dalla comunità, emerse dall’analisi del corpus oratorio, del mito e delle fonti materiali, e la varietà delle cure presenti nei testi medici testimoniano come la polis consideri l’infertilità una situazione temporanea da sanare. Anche nell’uso della lingua si può cogliere tale considerazione, dal momento che un valore temporaneo connota i termini con i quali si indica l’assenza di prole.
Dall’analisi del Corpus Hippocraticum emerge che l’infertilità non è da considerarsi una malattia, ma è una condizione fisica curabile, una disfunzione derivata da una malattia cui si può porre rimedio. Per tale ragione i rimedi forniti in campo medico sono molteplici. Anche la polis cerca di porre rimedio all’infertilità, come attestato nel mito, nelle orazioni e nella documentazione epigrafica; difatti, l’uomo senza figli avrebbe potuto divorziare e contrarre un nuovo matrimonio, o avrebbe potuto adottare. Oltre alle suddette soluzioni, l’uomo senza figli avrebbe potuto interpellare un medico o avrebbe potuto far ricorso alla divinità.
Le richieste formulate nelle tavolette di Dodona danno prova dell’esistenza di più divinità che sopraintendono al concepimento. L’individuo aveva più referenti divini cui rivolgersi per ottenere prole: poteva pregare le dee curotrofiche Artemide, Afrodite ed Era, poteva recarsi presso il santuario di Asclepio a Epidauro, poteva consultare l’oracolo di Dodona o di Delfi, oppure poteva immergersi in alcuni fiumi le cui acque sarebbero state una cura per l’infertilità. La scelta di rivolgersi a una potenza divina piuttosto che a un’altra poteva dipendere da diversi fattori: il tipo o lo stato dell’infertilità, la distanza da un santuario rispetto a un altro, le condizioni economiche e il livello di alfabetizzazione degli individui coinvolti.
Dal presente studio emerge che l’assenza di prole è generalmente invalidante per l’individuo e che la condizione di un uomo infertile è differente da quella di una donna senza figli. L’uomo percepisce l’assenza di prole come una condizione sfortunata dipendente da altri; egli non si sente responsabile di un destino che lo vuole privo di figli, ma vive la mancanza di un erede come un problema sociale cui può porre rimedio e, difatti, la comunità assicura sempre all’uomo una paternità sociale. Nonostante all’uomo senza figli siano preclusi alcuni incarichi all’interno della polis, l’assenza di prole non porta all’esclusione dalla vita all’interno della comunità, poiché l’infertilità costituisce un elemento rilevante in ambito religioso.
Rispetto all’uomo, per la donna non sono previste soluzioni per ovviare al problema dell’infertilità e non è possibile compensare tale mancanza, perché l’unica maternità concepibile è quella biologica. Nonostante gli individui fossero consapevoli dell’esistenza di un’infertilità maschile, femminile e inspiegata, come ben attestato nelle fonti prese in esame, è nella donna che insorge un profondo senso di colpa per la mancata procreazione ed è lei a sentirne, e a portarne, tutto il peso. La donna senza figli, dunque, vive una condizione di parthenia involontaria esiziale, senza identità ella oscilla tra una virilizzazione mancata e una femminilità incompiuta. Ella vive una condizione di morte emotiva, né viva né morta conduce la propria esistenza nell’infelicità.

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