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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-09132015-233511


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MATARAZZO, MARIA GABRIELLA
Indirizzo email
mariagabriella.matarazzo@sns.it
URN
etd-09132015-233511
Titolo
Cornelis Bloemaert interprete del Barocco romano (1603-1692)
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA
Relatori
relatore Prof.ssa Sicca, Cinzia Maria
Parole chiave
  • Alessandro VII
  • antiquaria
  • Atanasius Kircher
  • Barocco
  • Ciro Ferri
  • Cornelis Bloemaert
  • Filippo Baldinucci
  • incisione
  • Innocenzo X
  • Joachim von Sandrart
  • Pietro da Cortona
  • Urbano VIII
  • Vincenzo Giustiniani
Data inizio appello
28/09/2015
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
28/09/2027
Riassunto
La tesi magistrale costituisce il primo tentativo di catalogo ragionato dell’opera incisoria di Cornelis Bloemaert, colmando un ritardo negli studi particolarmente gravoso in relazione all’importanza dell’incisore nelle dinamiche figurative e culturali della Roma seicentesca. Le ragioni di simile disattenzione da parte della critica moderna sono molteplici. Da un lato l’estensione europea della geografia biografica ed artistica dell’incisore ne ha reso un profilo di scarso interesse strettamente nazionale, provocandone l’esclusione da importanti progetti editoriali che sin dalla metà del Novecento hanno inteso affrontare sistematicamente il corpus dell’incisione nordeuropea. Se, infatti, in merito ai molti francesi attivi a Roma nei decenni centrali del Seicento sono state promosse importanti iniziative monografiche da parte della Commission des travaux historiques de la Ville de Paris , l’esclusione dalla serie del The new Hollstein Dutch and Flemish Etching, engraving and woodcuts appare particolarmente eloquente . In più di mezzo secolo di intensa produzione ben radicata nel mercato artistico di Roma, dove Bloemaert si stabilisce nel 1633 e dove morirà nel 1692 , la sua partecipazione ai fatti della cultura artistica della città pontificia sarà così estesa da farne evidentemente, da una prospettiva oltremontana, più un esponente del barocco romano che dell’incisione olandese. D’altro canto, la critica nostrana non ha in alcun modo colmato tale lacuna, specie in forza di una svalutazione invalsa negli studi nei confronti dell’incisione di traduzione, attività che lo vide impegnato quasi esclusivamente durante la sua lunga carriera. Lo stesso statuto della stampa traduttiva è stato oggetto di definizione solo recentemente, grazie, in particolare, al ventennio di studi di Evelina Borea, confluiti nella grande impresa de «Lo specchio dell’arte italiana» . La diffidenza perpetrata verso l’incisione d’après che la studiosa condanna nelle pagine introduttive al volume, mostra come nulla sia cambiato rispetto a quando, in occasione della grande esposizione «Annibale Carracci e i suoi incisori» del 1986, ella denunciava i ritardi nell’appropriazione critica di questo fenomeno cruciale, parallelo ma non secondario rispetto agli svolgimenti della pittura e, in maniera più problematica, della scultura: «Altri interessi in questo secolo – la ricerca delle carte d’archivio e soprattutto dei disegni preparatori (questi rivali delle stampe, sempre vincenti nei musei cartacei del nostro tempo), finalizzata alla ricostruzione dei fatti che presiedono la genesi dell’opera d’arte, e l’incremento dell’indagine anche sociologica sui fenomeni della committenza e del collezionismo - hanno sinora prevalso, temporaneamente dilazionando la riacquisizione della stampa d’après agli studi storico-artistici, integrata in una metodologia che ne riconosca la complementarietà con la letteratura e ogni altra fonte sinora apparsa utile per le ricostruzioni storiche, e ne rivaluti il ruolo non secondario da esse avuto nel complesso processo di riflessione sui fatti artistici avviato sin dal Cinquecento da Giorgio Vasari, in coincidenza appunto con l’affermarsi del fenomeno della stampa di traduzione» .
La tesi magistrale su Cornelis Bloemaert ha preso le mosse da queste considerazioni, rispetto alle quali la scelta di affrontare monograficamente la produzione di uno dei protagonisti della stagione seicentesca dell’incisione traduttiva è apparsa come il metodo più fecondo di spunti d’analisi e prospettive di ricerca. Dal giovanile discepolato presso l’Honthorst , esercitato in ambito pittorico prima che incisorio, l’intenso triennio parigino, fino alle sontuose imprese editoriali patrocinate dai Barberini e dai Chigi, l’incisore di Utrecht, interprete di alcune delle esperienze fondanti della Roma barocca, è stato oggetto di uno studio sistematico, volto ad inquadrarne la vicenda biografica ed il profilo artistico, operando al contempo un tentativo analitico (spesso non semplice) di distribuzione cronologica della sua copiosa produzione. Nonostante opere incisorie che ne videro il coinvolgimento, come la Galleria Giustiniana o le Aedes Barberinae, abbiano conosciuto un’attenzione costante negli studi recenti , sempre vivaci nell’analisi di problematiche inerenti al patronage o all’antiquaria, la figura professionale di Bloemaert, le circostanze del suo rapido assorbimento all’interno della frenetica industria artistica romana ed il ruolo di mediatore figurativo da lui esercitato, per il tramite del suo bulino, in un’estensione territoriale di dimensioni europee sono emersi come aspetti ancora meritevoli di approfondimento. La prassi, ancora oggi prevalente negli studi, di concentrarsi sulle singole opere e mai sulla valutazione critica della produzione complessiva di un incisore ha spesso relegato tali figure a pure essenze nominali, prive di consistenza biografica, generando, nel caso specifico di Bloemaert, una discrasia tra l’abbondanza delle citazioni in appendice a pubblicazioni moderne, concernenti i più svariati aspetti della cultura artistica del XVII secolo (stilistici, sociali, economici, ecc), e l’assenza di contributi monografici su questo artista, rispetto al quale anche i più basilari dettagli biografici hanno tardato ad essere accolti. Ne sia una prova significativa l’errore perpetrato, senza scrupoli di verifica, sulla data di morte, avvenuta il 28 settembre 1692, che, benché sia comprovata da un riscontro documentario inoppugnabile , è spesso segnalata al 1680 , o la confusione talvolta operata con il padre Abraham, col quale il nome di battesimo sembra pacificamente interscambiabile . Anche al di là del dato biografico, la scelta di ricomporre la produzione di Bloemaert ha permesso di verificare in più di un cinquantennio lo sviluppo di tipologie illustrative peculiari, quali conclusioni di tesi , frontespizi, libelli di divulgazione religiosa, che nel Seicento divennero vere e proprie scuole di aggiornamento stilistico, così come veicoli di diffusione oltremontana di lessici nuovi (si pensi agli esercizi a sanguigna di Sandrart sulle stampe di Bloemaert, per appropriarsi delle novità cortonesche, di cui de visu egli aveva potuto scorgere solo gli esordi ), a vantaggio di una cultura figurativa sempre più espressamente europea e sovranazionale.
La tesi, che si articola in una sezione saggistica ed in una catalogica, intende tracciare un profilo storico-critico dell’olandese attraverso una duplicità di approcci. In primo luogo si è intrapresa una valorizzazione dell’intaglio come documento primario, latore di informazioni biografiche quanto tecniche. La relazione che nell’incisione traduttiva si intreccia tra il nome dell’inventor o del delineator e quello dello sculptor costituisce già in sé un supporto dialogico in grado di illuminare problemi di interpretazione figurativa, di ricezione artistica e di contesto di committenza e di mercato. Quando, poi, alla dinamica binaria tra il pittore ed il suo traduttore si associa la presenza della dedica, posta, spesso, in calce al foglio, ne emerge una rete relazionale in grado di inquadrare frequentazioni, protezioni e rapporti clientelari dell’incisore quanto del pittore, scandendone rispettivamente le vicende biografiche ed il percorso di maturazione stilistica. La ricerca si è svolta principalmente a Roma, città d’adozione di Bloemaert, dipanandosi tra la catalogazione dell’intero corpus degli intagli e la ricerca d’archivio, volta ad ampliare le informazioni ricavate dalle fonti biografiche e dalle incisioni stesse e, al contempo, a sottoporre a verifica il materiale documentario già pubblicato . La frequentazione assidua dell’Istituto Nazionale della Grafica, della Biblioteca Casanatense e del fondo Lanciani presso la Biblioteca di Storia dell’Arte e Archeologia è stata integrata da frequenti soggiorni a Firenze, dove il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, la Biblioteca Marucelliana e la Biblioteca Nazionale Centrale hanno offerto raccolte particolarmente ricche di materiale di studio . Ne è emerso un catalogo assai denso e diversificato, tale da profilare Bloemaert come un protagonista indiscusso dell’incisione traduttiva del Seicento, in grado di restituire con insuperata perspicuità stilistica testi figurativi assai differenziati nel tono espressivo: dall’eccitazione pittorica di Rubens al naturalismo caravaggesco di declinazione honthostriana, fino al florilegio della pittura di età barberiniana che si dà nelle illustrazioni delle Hesperides , in cui il bulino di Bloemaert venne a confrontarsi con le diverse declinazioni della pittura classicista, traducendo da Nicolas Poussin a Domenichino, da Andrea Sacchi a Guido Reni. L’esercizio sulle variazioni stilistiche in un unico contesto librario non tarderà a riproporsi, durante il pontificato Chigi: dal 1662 egli, infatti, diresse la squadra degli incisori chiamati a decorare il Messale di Alessandro VII, dove, traducendo da Giovanni Francesco Romanelli, Ciro Ferri, Carlo Maratta e Pier Francesco Mola, Bloemaert licenziò una galleria, cartacea e trasportabile, figurativamente parallela agli affreschi con cui, tra il 1655 e il 1656, quei medesimi artisti decorarono la Galleria di Alessandro VII, nel palazzo del Quirinale, sotto la direzione di Pietro da Cortona . È, d’altra parte, in tale intelligenza dei mezzi dell’espressione pittorica, mirabilmente ridotta al linguaggio calcografico, che la letteratura artistica coeva appuntò il proprio apprezzamento. Si pensi al Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame , primo testo storico-teorico interamente dedicato ai protagonisti dell’arte dell’incisione, in cui Filippo Baldinucci, tracciando la biografia di Bloemaert, ne encomiava la «dolcezza ed egualità della taglia da non trovarsenee pari», ma anche il «sapere a meraviglia imitare ed esprimere la maniera di quel pittore di cui egli ha intagliate l’opere e i disegni» .
La citazione baldinucciana introduce, altresì, il problema delle fonti biografiche, che assume un ruolo nodale nella parte saggistica della tesi e che costituisce il secondo, ineludibile strumento metodologico con cui si è condotta la ricerca. L’inquadramento storico e critico della produzione bloemartiana si è, infatti, giovato della lettura e dell’analisi di due testi biografici di estremo interesse: il succitato intervento a lui dedicato da Baldinucci, nel volume del 1686, e la precedente vita che Joachim von Sandrart gli aveva intitolato nell’ambito della sua Teutsche Academie . Si tratta di testimonianze estremamente significative, trattandosi di due osservatori geograficamente e culturalmente distanti, ma che, nelle rispettive riflessioni maturate sulle possibilità dell’incisione e sul ruolo che Bloemaert rivestì negli sviluppi contemporanei delle tecniche calcografiche, restituiscono in tutta la sua complessità la fisionomia sfaccettata dell’olandese, artefice, attraverso le sue stampe, di un’inedita mediazione culturale che si serviva di strumenti tecnici estremamente sofisticati nella significazione della materia pittorica e dei valori tonali dei referenti oggetto di traduzione. L’analisi condotta in sede saggistica ha rilevato, in particolare, un atteggiamento antitetico in relazione al problema centrale dell’uso traduttivo dell’incisione. Sandrart ne fa, infatti, oggetto di un apprezzamento appassionato, lodando, in particolare, la capacità penetrativa di Bloemaert, che «incarnò tutti i doni di questa scienza meglio di chiunque altro prima di lui» ; il pittore di Francoforte mostra, così, una grande sensibilità al dato tecnico, fattuale del procedimento incisorio , del tutto scevra dal pregiudizio, vasariano in ultima analisi, verso la scarsa inclinazione nutrita da Bloemaert per l’incisione d’invenzione. Pregiudizio, al contrario, nutrito manifestamente da Baldinucci, e che trova espressione nelle pagine proemiali del suo Cominciamento: benché la maniera bloemaertiana sia definita «la più dolce che forse siasi veduta mai fino al suo tempo» , sarà l’«acceso desiderio di inventare» a valere a François Spierre il ruolo di assoluta preminenza nell’evoluzione teleologica dell’incisione tratteggiata dal fiorentino nel suo trattato.
Eppure, è proprio tale intelligenza delle possibilità pittoriche del bulino che serba il motivo di interesse che presiede le ragioni della tesi magistrale, dove, nel tentativo di sistematizzare il nutrito catalogo dell’incisore, si è cercato di dimostrare come l’ingegno traduttivo celebrato dalle fonti e testimoniato dall’ampio collezionismo di cui le sue stampe furono ben presto oggetto, trovi origine nel percorso parallelo da lui maturato rispetto al corso della coeva pittura romana, della quale egli ha penetrato alcuni snodi stilistici, pur nella prospettiva della traduzione incisoria. Un aspetto che emerge limpidamente dal complesso rapporto che intercorse tra Cornelis Bloemaert e Pietro da Cortona : alla vigilia della traduzione di alcune scene del roboante Trionfo della Divina Provvidenza, contenute nell’apparato illustrativo delle Aedes Barberinae, si può affermare che certamente Bloemaert non ignorasse le istanze dell’arte contemporanea. Il suo bulino aveva già perspicuamente reso in incisione il naturalismo caravaggesco, la pittura rubensiana, la scultura antica, fruita attraverso il canone pigmalionico mediato dalla Galleria Giustiniana , Tiziano, il classicismo raffaellesco, i Carracci e la scuola bolognese da lui capeggiata. Ovverosia, le componenti della pittura moderna, che vedevano in Pietro da Cortona una nuova, dirompente sintesi. Le matrici stilistiche dell’arte del Cortona, dunque, costituivano già un bagaglio formale esercitato dall’olandese, saggi di pittura di cui aveva dato prova di profondo intendimento: non stupisce, allora, leggere tra le pagine biografiche di Baldinucci che il Cortona espressamente «desiderava Bloemaert per lo intagliare dell’opere sue» , a testimonianza di un sodalizio di perdurante fortuna che avrebbe costituito un capitolo nodale della cultura artistica romana del Seicento. D’altra parte, non poteva essere altrimenti: l’incisione seicentesca, strumento di autopromozione ed oggetto di collezionismo da parte di amatori d’arte e connoisseurs ante litteram, non poteva più attestarsi alla mera trasmissione di idee iconografiche, ma doveva accogliere la sfida della resa dei valori formali, stilistici, compositivi. Un problema ben compreso da Bloeamert, che con un dominio calibratissimo degli strumenti espressivi propri dell’incisione sondò con inedita capacità di lettura dei dati formali il rapporto tra pittura ed intaglio in rame, ponendosi come indiscusso iniziatore di una stagione nuova e moderna dell’arte dell’incisione ed un campione della «bella gara fra il bulino e il pennello» .
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