Tesi etd-08282025-125106 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
BOSELLI, LEONARDO
URN
etd-08282025-125106
Titolo
Conoscere per attuare: analisi della graduale erosione del principio di separazione tra cognizione ed esecuzione
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Menchini, Sergio
Parole chiave
- delibazioni
- effettività della tutela
- erosione
- inidoneità al giudicato
- irretrattabilità
- procedibilità dell’azione
- regole operazionali
- separazione tra tutele
Data inizio appello
15/09/2025
Consultabilità
Completa
Riassunto
La presente analisi si propone di indagare, in chiave diacronica, l’evoluzione del rapporto tra accertamento ed esecuzione forzata. Durante il corso del Basso Medioevo e dell’Età moderna, e ancora fino alla codificazione del 1865, il procedimento esecutivo non era concepito come un processo autonomo, bensì come fisiologica (seppur eventuale) prosecuzione del giudizio di cognizione, diretta dal medesimo giudice che aveva pronunciato la sentenza di condanna.
L’autonomia della tutela esecutiva dal giudizio ordinario di cognizione deve essere osservata in congiunzione con l’evoluzione dell’istituto del titolo esecutivo.
Ciò in quanto la previsione di titoli esecutivi di formazione stragiudiziale legittima il creditore a promuovere l’azione esecutiva anche in assenza di un previo accertamento giudiziale con autorità di giudicato. Eventuali contestazioni sull’an o sul quantum del credito o sull’efficacia del titolo non possono essere decise nell’ambito del processo esecutivo.
Tuttavia, tale impostazione non trovava piena attuazione nel Codice del 1865: lo svolgimento dell’azione esecutiva era ancora permeata da parentesi cognitive e interferenze decisorie del giudice della cognizione, in un modello procedurale ibrido in cui l’autonomia dell’esecuzione e l’efficacia astratta del titolo risultavano solo parzialmente riconosciute.
Pertanto, nel redigere il Libro III dell’attuale Codice di procedura civile, il legislatore ha fatto propri gli orientamenti dottrinali che rigettavano la commistione tra tutela cognitiva ed esecutiva. La riforma del Codice ha "forgiato" una chiara distinzione funzionale tra i due modelli di tutela, distinguendo tra il giudizio di cognizione, orientato all’accertamento autoritativo della situazione sostanziale controversa, e il processo esecutivo, volto alla realizzazione coattiva della prestazione dovuta dal debitore inadempiente, senza che residui alcuno spazio per la verifica del merito del diritto azionato in executivis.
La distinzione funzionale tra le tutele trovava conforto nelle differenze strutturali dei relativi processi.
Ne seguiva che il giudice dell’esecuzione non avesse poteri decisori, ma di direzione delle operazioni attuative del diritto consacrato nel titolo. Dunque, nel processo esecutivo non doveva ritenersi applicabile il principio del contraddittorio – né tra le parti, né tra le stesse e il giudice – essendo lo scopo dell’espropriazione forzata il soddisfacimento delle ragioni creditorie, conseguito attraverso la liquidazione forzata dei beni dell’esecutato e la distribuzione del ricavato agli aventi diritto intervenuti nella procedura.
Per questo, le esigenze cognitive sorte nel corso del processo esecutivo dovevano essere confinate nelle opposizioni esecutive, ove l’esecutato poteva richiedere l’esame del diritto dell’istante di agire in executivis e/o della sussistenza del credito, e tutte le parti interessate potevano contestare la regolarità del titolo, del precetto o degli atti esecutivi.
Dopo quasi un secolo di vigenza del Codice, deve dirsi che tale rigidità strutturale è stata parzialmente erosa dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive, portando alla nascita di nuove regole operazionali circa il ruolo (lato sensu) cognitivo del G.E.
Invero, tale interpretazione è informata ai canoni costituzionali del diritto di difesa e dell’effettività della tutela giurisdizionale, per cui l’attuazione coattiva del diritto costituisce tappa (eventuale ma) indefettibile per una tutela piena ed effettiva. Perciò, la spendita di attività processuale non deve essere né utile – alla stregua del principio di economia processuale –, né pregiudizievole per i diritti dell’esecutato che, pur residuali, siano minacciati da un’espropriazione promossa in virtù di un titolo esecutivo inesistente o caducato. Dunque, ormai consolidata giurisprudenza sostiene che il G.E. ha il potere-dovere di rilevare, anche d’ufficio, vizi inerenti alle condizioni dell’azione esecutiva e ai presupposti processuali.
Ciò in quanto la tutela esecutiva rappresenta una modalità di esercizio della funzione giurisdizionale, per cui i poteri delibativi del G.E. devono essere esercitati nel contraddittorio tra le parti, benché non possano tradursi nell’emanazione di provvedimenti idonei al giudicato.
L’erosione del dogma della “netta” separazione non implica uno scardinamento dei pilastri del sistema, poiché il G.E. era – e rimane tuttora – istituzionalmente privo di funzioni decisorie, e quindi i poteri cognitivi riconosciuti dal diritto pretorio devono essere limitati a quelli esclusivamente strumentali allo scopo del processo.
L’esercizio di tali poteri incide sulla definizione del modo di essere delle situazioni sostanziali e processuali coinvolte nell’espropriazione forzata, senza, tuttavia, configurare un’effettiva attività di accertamento.
In parziale controtendenza allo spirito del tempo, il formante giurisprudenziale ha ribadito che il principio della separazione tra tutele costituisce principio di diritto pubblico processuale: non può esserci ibridazione tra le funzioni del G.E. e di quelle del giudice della cognizione, poiché le attività cognitive svolte dal primo devono essere finalizzate al soddisfacimento del credito, nel rispetto delle forme e dei rimedi propri del processo esecutivo.
Gli accertamenti eventualmente compiuti dal G.E. hanno natura sommaria e non assumono rilievo autonomo al di fuori del processo in cui sono svolti. La stabilità dei relativi effetti deriva esclusivamente dalla mancata opposizione del provvedimento esecutivo, nel termine perentorio previsto dall’art. 617, comma 2, e non già dall’attitudine intrinseca delle ordinanze a consolidarsi con il passaggio in giudicato formale.
Proprio qui emerge la differenza ontologica nelle funzioni dei due organi: mentre l’azione del giudice della cognizione è diretta a risolvere la controversia mediante la formulazione di una regula iuris potenzialmente definitiva, il G.E. si limita a garantire l’ordinato sviluppo del procedimento in vista dell’attuazione coattiva del diritto consacrato nel titolo.
Pare corretto favorire, a coronamento dell’analisi, un’interpretazione rigorosamente funzionale dell’attribuzione di poteri cognitivi in capo all’ufficio esecutivo, capaci di incidere sensibilmente – e talvolta definitivamente – sulla procedibilità dell’azione esecutiva.
Ai fini che qui rilevano, occorre analizzare l’ambito oggettivo dei rilievi esperibili dal giudice dell’esecuzione nella fase sommaria delle opposizioni, non solo con riguardo alle eventuali richieste cautelari di parte, ma anche all’esercizio dei poteri di direzione del procedimento e dei poteri officiosi di verifica e controllo sulla regolarità dello svolgimento dell’azione.
Se l’ufficio esecutivo, mediante la cognizione dei fatti (non contestati) allegati nel fascicolo dell’esecuzione, si convince dell’inesistenza del titolo o dell’estinzione del credito azionato, ha il potere-dovere di disporre con ordinanza la chiusura anticipata del processo esecutivo, sebbene non possa in alcun caso "accertare" l’estinzione del diritto sostanziale. Ancora, la cd. Riforma Cartabia ha dato nuovo impulso all’ “erosione in atto” in relazione all’applicazione delle misure coercitive indirette di cui all’art. 614-bis c.p.c. Nonostante sul punto manchi ancora un orientamento giurisprudenziale consolidato, ci si deve interrogare sulla qualificazione del provvedimento in esame come atto esecutivo, dovendo il provvedimento con cui il G.E. decide l’istanza di applicazione della misura esecutiva indiretta deve essere ricompreso tra i poteri cognitivi che risultano eccentrici rispetto al perimetro delle funzioni esercitate. Allora, diventa fondamentale determinare i limiti della discrezionalità dell’ufficio esecutivo per quanto attiene alla cognizone dei presupposti di tali misure e alla quantificazione della pena pecuniaria.
Da ultimo, non deve stupire che il rimedio esperibile contro il provvedimento del G.E., sebbene non espressamente menzionato, sia l’opposizione agli atti esecutivi – giudizio sperimentato per controllare la legittimità sostanziale di atti che incidono sulle situazioni soggettive degli interessati, a partire dalla trasformazione delle controversie distributive e di quelle relative all’obbligo del terzo pignorato da motivi di opposizione all’esecuzione a incidenti endoesecutivi. Da ultimo, in merito all’erosione della distinzione tra cognizione ed esecuzione, ci si deve interrogare su alcune fattispecie particolari che, prive di ancoraggio normativo, sono state oggetto di interpretazioni disomogenee da parte della giurisprudenza e della dottrina.
Nel delineare i limiti del sindacato del giudice dell’esecuzione sul titolo esecutivo giudiziale, si evidenzia che questo non dispone di poteri cognitivi tali da integrare o modificare il contenuto precettivo del titolo giudiziale, neppure con riferimento alla determinazione del tasso di interesse applicabile ai sensi dell’art. 1284 c.c., comma 4. Da ultimo, le Sezioni unite hanno confermato che il creditore non possa conseguire in sede esecutiva gli interessi c.d. superlegali se non ha formulato una puntuale domanda in sede di cognizione e se il giudice non ha provveduto espressamente in tal senso, non potendo il G.E. integrare il contenuto del titolo.
Tuttavia, pare preferibile un secondo orientamento che valorizza il potere di interpretazione del G.E., il quale non introdurrebbe un quid novi, ma si limiterebbe a precisare il contenuto precettivo già desumibile dal titolo, in un’attività di interpretazione tecnica finalizzata all’attuazione del comando giudiziale.
Infine, nel 2022 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto in capo al G.E. un potere di sindacato officioso sulla validità delle clausole contrattuali contenute nel titolo esecutivo, nei casi in cui questo derivi da un decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti di un consumatore. Secondo la Corte, il passaggio in giudicato del decreto non preclude al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di verificare la presenza di clausole abusive nel contratto sottostante, pur in assenza di contestazioni da parte del consumatore. Tale principio, tuttavia, deve essere contestualizzato alla luce delle preclusioni prodotte dal giudicato sostanziale sul deducibile, non potendo essere esteso alle sentenze di condanna pronunciate all’esito di un ordinario giudizio di cognizione.
Se la peculiare natura del decreto ingiuntivo può giustificare un’eccezione limitata, tale prospettiva non risulta applicabile a titoli giudiziali formatisi all’esito di un giudizio a cognizione piena ed esauriente.
La metodologia adottata in questa tesi si struttura su un duplice livello: da un lato, si propone di comprendere le ragioni storiche e i principi dogmatici sui quali è stata costruita l’impalcatura dei rapporti tra tutela esecutiva e tutela cognitiva; dall’altro, intende attualizzare i termini di tale distinzione, superando l’assunto secondo cui il giudice dell’esecuzione non possa in alcun caso svolgere rilievi cognitivi, benché di natura sommaria e limitati alla verifica delle condizioni necessarie per la proponibilità e la prosecuzione dell’azione esecutiva.
Tale approccio consente anche di evitare un’ibridazione tra il giudice dell’esecuzione e quello della cognizione, la cui alterità rimane garantita dal fatto che solo le decisioni del secondo – e non le delibazioni del primo – possono tradursi in provvedimenti idonei ad acquisire autorità di giudicato.
L’autonomia della tutela esecutiva dal giudizio ordinario di cognizione deve essere osservata in congiunzione con l’evoluzione dell’istituto del titolo esecutivo.
Ciò in quanto la previsione di titoli esecutivi di formazione stragiudiziale legittima il creditore a promuovere l’azione esecutiva anche in assenza di un previo accertamento giudiziale con autorità di giudicato. Eventuali contestazioni sull’an o sul quantum del credito o sull’efficacia del titolo non possono essere decise nell’ambito del processo esecutivo.
Tuttavia, tale impostazione non trovava piena attuazione nel Codice del 1865: lo svolgimento dell’azione esecutiva era ancora permeata da parentesi cognitive e interferenze decisorie del giudice della cognizione, in un modello procedurale ibrido in cui l’autonomia dell’esecuzione e l’efficacia astratta del titolo risultavano solo parzialmente riconosciute.
Pertanto, nel redigere il Libro III dell’attuale Codice di procedura civile, il legislatore ha fatto propri gli orientamenti dottrinali che rigettavano la commistione tra tutela cognitiva ed esecutiva. La riforma del Codice ha "forgiato" una chiara distinzione funzionale tra i due modelli di tutela, distinguendo tra il giudizio di cognizione, orientato all’accertamento autoritativo della situazione sostanziale controversa, e il processo esecutivo, volto alla realizzazione coattiva della prestazione dovuta dal debitore inadempiente, senza che residui alcuno spazio per la verifica del merito del diritto azionato in executivis.
La distinzione funzionale tra le tutele trovava conforto nelle differenze strutturali dei relativi processi.
Ne seguiva che il giudice dell’esecuzione non avesse poteri decisori, ma di direzione delle operazioni attuative del diritto consacrato nel titolo. Dunque, nel processo esecutivo non doveva ritenersi applicabile il principio del contraddittorio – né tra le parti, né tra le stesse e il giudice – essendo lo scopo dell’espropriazione forzata il soddisfacimento delle ragioni creditorie, conseguito attraverso la liquidazione forzata dei beni dell’esecutato e la distribuzione del ricavato agli aventi diritto intervenuti nella procedura.
Per questo, le esigenze cognitive sorte nel corso del processo esecutivo dovevano essere confinate nelle opposizioni esecutive, ove l’esecutato poteva richiedere l’esame del diritto dell’istante di agire in executivis e/o della sussistenza del credito, e tutte le parti interessate potevano contestare la regolarità del titolo, del precetto o degli atti esecutivi.
Dopo quasi un secolo di vigenza del Codice, deve dirsi che tale rigidità strutturale è stata parzialmente erosa dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive, portando alla nascita di nuove regole operazionali circa il ruolo (lato sensu) cognitivo del G.E.
Invero, tale interpretazione è informata ai canoni costituzionali del diritto di difesa e dell’effettività della tutela giurisdizionale, per cui l’attuazione coattiva del diritto costituisce tappa (eventuale ma) indefettibile per una tutela piena ed effettiva. Perciò, la spendita di attività processuale non deve essere né utile – alla stregua del principio di economia processuale –, né pregiudizievole per i diritti dell’esecutato che, pur residuali, siano minacciati da un’espropriazione promossa in virtù di un titolo esecutivo inesistente o caducato. Dunque, ormai consolidata giurisprudenza sostiene che il G.E. ha il potere-dovere di rilevare, anche d’ufficio, vizi inerenti alle condizioni dell’azione esecutiva e ai presupposti processuali.
Ciò in quanto la tutela esecutiva rappresenta una modalità di esercizio della funzione giurisdizionale, per cui i poteri delibativi del G.E. devono essere esercitati nel contraddittorio tra le parti, benché non possano tradursi nell’emanazione di provvedimenti idonei al giudicato.
L’erosione del dogma della “netta” separazione non implica uno scardinamento dei pilastri del sistema, poiché il G.E. era – e rimane tuttora – istituzionalmente privo di funzioni decisorie, e quindi i poteri cognitivi riconosciuti dal diritto pretorio devono essere limitati a quelli esclusivamente strumentali allo scopo del processo.
L’esercizio di tali poteri incide sulla definizione del modo di essere delle situazioni sostanziali e processuali coinvolte nell’espropriazione forzata, senza, tuttavia, configurare un’effettiva attività di accertamento.
In parziale controtendenza allo spirito del tempo, il formante giurisprudenziale ha ribadito che il principio della separazione tra tutele costituisce principio di diritto pubblico processuale: non può esserci ibridazione tra le funzioni del G.E. e di quelle del giudice della cognizione, poiché le attività cognitive svolte dal primo devono essere finalizzate al soddisfacimento del credito, nel rispetto delle forme e dei rimedi propri del processo esecutivo.
Gli accertamenti eventualmente compiuti dal G.E. hanno natura sommaria e non assumono rilievo autonomo al di fuori del processo in cui sono svolti. La stabilità dei relativi effetti deriva esclusivamente dalla mancata opposizione del provvedimento esecutivo, nel termine perentorio previsto dall’art. 617, comma 2, e non già dall’attitudine intrinseca delle ordinanze a consolidarsi con il passaggio in giudicato formale.
Proprio qui emerge la differenza ontologica nelle funzioni dei due organi: mentre l’azione del giudice della cognizione è diretta a risolvere la controversia mediante la formulazione di una regula iuris potenzialmente definitiva, il G.E. si limita a garantire l’ordinato sviluppo del procedimento in vista dell’attuazione coattiva del diritto consacrato nel titolo.
Pare corretto favorire, a coronamento dell’analisi, un’interpretazione rigorosamente funzionale dell’attribuzione di poteri cognitivi in capo all’ufficio esecutivo, capaci di incidere sensibilmente – e talvolta definitivamente – sulla procedibilità dell’azione esecutiva.
Ai fini che qui rilevano, occorre analizzare l’ambito oggettivo dei rilievi esperibili dal giudice dell’esecuzione nella fase sommaria delle opposizioni, non solo con riguardo alle eventuali richieste cautelari di parte, ma anche all’esercizio dei poteri di direzione del procedimento e dei poteri officiosi di verifica e controllo sulla regolarità dello svolgimento dell’azione.
Se l’ufficio esecutivo, mediante la cognizione dei fatti (non contestati) allegati nel fascicolo dell’esecuzione, si convince dell’inesistenza del titolo o dell’estinzione del credito azionato, ha il potere-dovere di disporre con ordinanza la chiusura anticipata del processo esecutivo, sebbene non possa in alcun caso "accertare" l’estinzione del diritto sostanziale. Ancora, la cd. Riforma Cartabia ha dato nuovo impulso all’ “erosione in atto” in relazione all’applicazione delle misure coercitive indirette di cui all’art. 614-bis c.p.c. Nonostante sul punto manchi ancora un orientamento giurisprudenziale consolidato, ci si deve interrogare sulla qualificazione del provvedimento in esame come atto esecutivo, dovendo il provvedimento con cui il G.E. decide l’istanza di applicazione della misura esecutiva indiretta deve essere ricompreso tra i poteri cognitivi che risultano eccentrici rispetto al perimetro delle funzioni esercitate. Allora, diventa fondamentale determinare i limiti della discrezionalità dell’ufficio esecutivo per quanto attiene alla cognizone dei presupposti di tali misure e alla quantificazione della pena pecuniaria.
Da ultimo, non deve stupire che il rimedio esperibile contro il provvedimento del G.E., sebbene non espressamente menzionato, sia l’opposizione agli atti esecutivi – giudizio sperimentato per controllare la legittimità sostanziale di atti che incidono sulle situazioni soggettive degli interessati, a partire dalla trasformazione delle controversie distributive e di quelle relative all’obbligo del terzo pignorato da motivi di opposizione all’esecuzione a incidenti endoesecutivi. Da ultimo, in merito all’erosione della distinzione tra cognizione ed esecuzione, ci si deve interrogare su alcune fattispecie particolari che, prive di ancoraggio normativo, sono state oggetto di interpretazioni disomogenee da parte della giurisprudenza e della dottrina.
Nel delineare i limiti del sindacato del giudice dell’esecuzione sul titolo esecutivo giudiziale, si evidenzia che questo non dispone di poteri cognitivi tali da integrare o modificare il contenuto precettivo del titolo giudiziale, neppure con riferimento alla determinazione del tasso di interesse applicabile ai sensi dell’art. 1284 c.c., comma 4. Da ultimo, le Sezioni unite hanno confermato che il creditore non possa conseguire in sede esecutiva gli interessi c.d. superlegali se non ha formulato una puntuale domanda in sede di cognizione e se il giudice non ha provveduto espressamente in tal senso, non potendo il G.E. integrare il contenuto del titolo.
Tuttavia, pare preferibile un secondo orientamento che valorizza il potere di interpretazione del G.E., il quale non introdurrebbe un quid novi, ma si limiterebbe a precisare il contenuto precettivo già desumibile dal titolo, in un’attività di interpretazione tecnica finalizzata all’attuazione del comando giudiziale.
Infine, nel 2022 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto in capo al G.E. un potere di sindacato officioso sulla validità delle clausole contrattuali contenute nel titolo esecutivo, nei casi in cui questo derivi da un decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti di un consumatore. Secondo la Corte, il passaggio in giudicato del decreto non preclude al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di verificare la presenza di clausole abusive nel contratto sottostante, pur in assenza di contestazioni da parte del consumatore. Tale principio, tuttavia, deve essere contestualizzato alla luce delle preclusioni prodotte dal giudicato sostanziale sul deducibile, non potendo essere esteso alle sentenze di condanna pronunciate all’esito di un ordinario giudizio di cognizione.
Se la peculiare natura del decreto ingiuntivo può giustificare un’eccezione limitata, tale prospettiva non risulta applicabile a titoli giudiziali formatisi all’esito di un giudizio a cognizione piena ed esauriente.
La metodologia adottata in questa tesi si struttura su un duplice livello: da un lato, si propone di comprendere le ragioni storiche e i principi dogmatici sui quali è stata costruita l’impalcatura dei rapporti tra tutela esecutiva e tutela cognitiva; dall’altro, intende attualizzare i termini di tale distinzione, superando l’assunto secondo cui il giudice dell’esecuzione non possa in alcun caso svolgere rilievi cognitivi, benché di natura sommaria e limitati alla verifica delle condizioni necessarie per la proponibilità e la prosecuzione dell’azione esecutiva.
Tale approccio consente anche di evitare un’ibridazione tra il giudice dell’esecuzione e quello della cognizione, la cui alterità rimane garantita dal fatto che solo le decisioni del secondo – e non le delibazioni del primo – possono tradursi in provvedimenti idonei ad acquisire autorità di giudicato.
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