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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-08272025-163523


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
MARCU SANDU, SANDRA ANA
URN
etd-08272025-163523
Titolo
La disciplina europea delle crisi bancarie: evoluzione e limiti della regolazione
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof.ssa Favaro, Tamara
Parole chiave
  • banche di piccole e medie dimensioni
  • crisi bancarie
  • Meccanismo Unico di Risoluzione
  • Meccanismo Unico di Vigilanza
  • mercato unico
  • preservazione delle risorse erariali
  • rischio
  • salvaguardia della stabilità finanziaria
  • Sistema Europeo di Garanzia dei Depositi.
  • too big to fail
  • tutela del risparmio
  • tutela della concorrenza
  • Unione bancaria
Data inizio appello
15/09/2025
Consultabilità
Completa
Riassunto
L’Unione bancaria rappresenta l’ultima tappa di un lungo processo evolutivo. Essa costituisce la risposta necessaria alle lacune del sistema regolamentare, emerse in maniera drammatica in occasione della crisi finanziaria del 2007 e della successiva crisi dei debiti sovrani. Pur senza voler sminuire i significativi progressi finora compiuti, l’ipotesi sostenuta nel presente elaborato porta a ritenere che il percorso verso il pieno completamento dell’Unione bancaria sia ancora lontano dall’essere concluso.
In particolare, la gestione delle crisi delle banche di piccole e medie dimensioni costituisce un terreno poco esplorato nell’ambito dell’Unione bancaria. La persistente assenza di un approccio armonizzato a livello europeo evidenzia una significativa lacuna nel disegno complessivo dell’architettura di gestione delle crisi bancarie. È proprio questa carenza ad aver reso necessario un approfondimento critico e mirato, quale quello condotto nel presente lavoro.
Comprendere le origini e l’evoluzione del sistema è, tuttavia, un passaggio imprescindibile per poter analizzare in modo consapevole le criticità attuali. In tale prospettiva, il primo capitolo si concentra sullo storico abbandono della vigilanza strutturale, ritenuta ormai incompatibile con l’emergente mercato unico, orientato ad accrescere la concorrenza.
In tale contesto, la legge bancaria del 1936 assoggettava l’attività bancaria a un regime di matrice pubblicistica, che la distingueva nettamente dalle altre attività commerciali, in particolare con riguardo alla disciplina dell’allocazione del rischio. All’indomani della crisi degli anni Trenta, le autorità creditizie esercitavano un’influenza diretta sulle scelte allocative degli enti creditizi, limitandone la concorrenza, nella convinzione che il mercato e la libertà imprenditoriale, pur essendo strumenti essenziali per assicurare l’efficienza dell’attività bancaria, non fossero in grado, da soli, di garantire un’adeguata tutela del risparmio e della stabilità del sistema. Si intendeva, in sostanza, prevenire il rischio che un’eccessiva propensione all’assunzione di rischi, favorita dall’autonomia decisionale delle banche, potesse condurre alla loro crisi, con conseguente pregiudizio all’interesse pubblico alla tutela del risparmio, come sancito dall’art. 47 della Costituzione. La crisi di un intermediario, infatti, può avere effetti rilevanti sui depositanti e compromettere la funzione sociale del risparmio, intesa come interesse di natura oggettivo-pubblicistica, e non meramente soggettivo-privatistica. Il risparmio, infatti, consente di sostenere le attività produttive del Paese grazie alla capacità delle banche di erogare credito. È proprio per tale ragione che l’art. 47 Cost. si spinge a richiedere non solo la protezione, ma anche l’«incoraggiamento» del risparmio. L’obiettivo è quello di consentire che la ricchezza privata confluisca nel sistema produttivo, contribuendo alla crescita delle imprese non bancarie, all’aumento dei livelli di occupazione e del reddito nazionale, alla promozione dell’uguaglianza sostanziale tra i cittadini e alla concreta attuazione della libertà d’impresa. Questa circostanza, sull’onda degli effetti della grande depressione, rese necessaria l’introduzione di una disciplina speciale per il settore bancario, finalizzata a tutelare il risparmio e la stabilità del sistema creditizio, talvolta anche a scapito della libertà d’iniziativa economica e della concorrenza.
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, il sistema normativo dei singoli Stati membri subisce un cambiamento di paradigma, segnato dal passaggio dal controllo amministrativo sulle banche alla valorizzazione dell’imprenditorialità bancaria e della logica di mercato. In tale prospettiva, si afferma progressivamente la convinzione che le regole della concorrenza costituiscano un importante fattore di progresso economico. Si decide pertanto di avviare un processo di allentamento dei vincoli e dei controlli amministrativi, accompagnato dall’introduzione di regole più oggettive e meno intrusive nelle scelte imprenditoriali. È proprio in quest’ottica che deve essere interpretato l’emergere di una nuova forma di intervento pubblico, nota come vigilanza prudenziale. Quest’ultima si configura come una vigilanza di tipo risk-based, finalizzata a incentivare le banche ad evitare l’assunzione di rischi eccessivi, senza tuttavia sostituirsi ad esse nelle scelte imprenditoriali. Il fine perseguito non è soltanto la stabilità del sistema bancario, ma anche la tutela di ulteriori interessi pubblici, quali la concorrenza e l’efficienza del mercato. Uno dei pilastri della vigilanza prudenziale è rappresentato dal cosiddetto «monitoraggio del mercato». Tale approccio si basa sull’assunto che sia il mercato, guidato dal principio di concorrenza, a selezionare le imprese più efficienti: quelle in grado di valutare correttamente i rischi e di realizzare operazioni profittevoli. Al contrario, le imprese incapaci di una gestione adeguata del rischio saranno inevitabilmente espulse dal mercato. È dunque il mercato stesso a svolgere la funzione di monitoraggio, rendendo superfluo un intervento diretto da parte dell’autorità di vigilanza nelle decisioni relative all’assunzione del rischio.
Il mercato, tuttavia, contrariamente alle aspettative, non si è dimostrato in grado di esercitare un controllo efficace sui rischi assunti dagli operatori finanziari, rivelandosi incapace di prevenire comportamenti eccessivamente rischiosi e contribuendo anzi all’amplificazione della crisi. In tale contesto, il secondo capitolo si propone di analizzare come il grande crollo finanziario del 2007 abbia messo in luce le criticità del modello di vigilanza prudenziale previsto dagli Accordi di Basilea, evidenziandone le principali lacune nella valutazione e nel monitoraggio dei rischi.
La crisi finanziaria globale e la successiva crisi dei debiti sovrani hanno ulteriormente evidenziato l’inadeguatezza del sistema esistente, sottolineando l’esigenza di presentare le banche europee, agli occhi degli investitori internazionali, come componenti di un sistema unitario di vigilanza e risoluzione. In particolare, l’assenza di un quadro europeo centralizzato per la gestione delle crisi comportava il rischio che gli Stati membri, operando in modo isolato, potessero generare distorsioni nel mercato interno dei servizi bancari, frammentandolo irrimediabilmente.
L’azione dell’Unione in ambito bancario costituisce l’emblema dell’approccio europeo alla costruzione del mercato interno. In questo contesto, per mercato bancario interno si intende uno spazio economico privo di frontiere interne, in cui sia garantita la libera circolazione transfrontaliera delle banche, dei loro servizi, prodotti e clienti, e in cui gli operatori bancari possano competere liberamente e su un piano di parità. Come si vedrà nel prosieguo dell’analisi, tuttavia, la realizzazione concreta di tale progetto, pur nella sua apparente semplicità concettuale, si è rivelata estremamente complessa.
Alla luce di quanto esposto, nel 2012 la Commissione Europea avviò un cambiamento radicale nella regolamentazione bancaria europea con la presentazione della Road Map verso la Banking Union. Tale documento evidenziò la mancata realizzazione di un vero mercato interno e, alla luce del pericoloso legame esistente tra il rischio del debito sovrano e le vulnerabilità del sistema finanziario, sottolineò l’esigenza di ridurre la frammentazione e di promuovere la creazione di un sistema bancario unitario a livello europeo.
Conoscere le origini dell’Unione bancaria è senza dubbio utile e istruttivo; tuttavia, è ancor più essenziale acquisire consapevolezza della situazione attuale e delle direttrici verso cui intendiamo orientarci. In tale prospettiva, il terzo capitolo si focalizza proprio su questo aspetto.
L’architettura istituzionale dell’Unione bancaria europea può essere raffigurata come un tempio articolato in tre pilastri fondamentali: il Meccanismo Unico di Vigilanza, il Meccanismo Unico di Risoluzione e il Sistema Europeo di Garanzia dei Depositi.
In relazione al primo pilastro, sono già stati raggiunti importanti e significativi traguardi. Con il Meccanismo Unico di Vigilanza si supera il modello della vigilanza nazionale armonizzata, che aveva ispirato la normativa europea fin dalla fine degli anni Settanta, sostituendolo con un sistema di vigilanza pienamente integrato a livello sovranazionale. Attualmente, il Meccanismo Unico di Vigilanza, con la Banca Centrale Europea al centro, rappresenta il più grande successo nel processo di integrazione europea del diritto bancario.
La vigilanza europea, da sola, tuttavia, non poteva risultare sufficiente a risolvere le criticità legate alla frammentazione del mercato e al rischio di contagio sistemico emerse con lo scoppio della crisi. Si rendeva pertanto necessario istituire un sistema nel quale non solo la vigilanza, ma anche la risoluzione delle banche in crisi costituisse un «affare comune».
È stato così istituito il Meccanismo di Risoluzione Unico, che costituisce il secondo pilastro dell’Unione bancaria europea. Esso introduce una procedura di risoluzione ad hoc per la gestione delle crisi bancarie, il cui ambito di applicazione coincide con quello del Meccanismo Unico di Vigilanza.
L’introduzione del Meccanismo Unico di Risoluzione ha perseguito l’obiettivo di fornire una risposta efficace al problema delle banche too big to fail, emerso in modo evidente durante la grande crisi finanziaria, al fine di eliminare la necessità di ricorrere a interventi pubblici per il salvataggio di tali istituti. La riforma è stata concepita, in particolare, per le banche di rilevanza sistemica, ossia quegli enti il cui eventuale fallimento potrebbe costituire una minaccia per la stabilità finanziaria, con potenziali ripercussioni significative sull’economia reale, sia a livello nazionale che europeo.
Nel corso della crisi finanziaria internazionale, il salvataggio degli istituti di rilevanza sistemica si è dimostrato estremamente oneroso per i governi nazionali e, in ultima istanza, per i contribuenti. La soluzione individuata a livello europeo è consistita nell’internalizzazione delle perdite, attuata mediante l’applicazione del meccanismo del bail-in, che ha determinato il trasferimento dell’onere finanziario della crisi dai contribuenti agli investitori e ai creditori degli enti in dissesto.
Nel tentativo di trovare una soluzione al problema degli enti «troppo grandi per fallire» si è prestata minore attenzione alla gestione delle crisi delle banche di piccole e medie dimensioni, che rappresentano la stragrande maggioranza del panorama bancario europeo. Si partiva dal convincimento che, nella maggior parte dei casi, tali istituti non avrebbero posto rischi per la stabilità finanziaria e che le relative crisi potessero essere gestite mediante le ordinarie procedure di liquidazione previste dai singoli ordinamenti nazionali. Sebbene tale impostazione possa apparire ragionevole, in considerazione del fatto che il fallimento di un grande istituto bancario comporta, in linea generale, effetti sistemici ben più gravi rispetto a quello di un intermediario di dimensioni minori, non può tuttavia trascurarsi che la storia delle crisi finanziarie è costellata di episodi in cui il dissesto diffuso di banche di piccole e medie dimensioni ha generato rilevanti tensioni sul sistema finanziario, contribuendo ad alimentare fenomeni di instabilità.
Ne consegue che l’attuale quadro normativo, risultante dalla compresenza della disciplina sovranazionale in materia di risoluzione e delle procedure nazionali di insolvenza, presenta evidenti criticità nell’offrire soluzioni efficaci e coerenti, in particolare per quanto riguarda la gestione delle crisi degli intermediari di piccole e medie dimensioni.
L’esperienza applicativa evidenzia che la valutazione della sussistenza dell’interesse pubblico nell’ambito dell’Unione Bancaria ha sinora seguito il principio secondo cui «resolution is for the few, not the many», con la conseguenza che le banche less significant risultano tendenzialmente escluse dall’ambito di intervento degli strumenti di risoluzione. Tale prassi si fonda sull’assunto che, con riferimento a tali enti, il test dell’interesse pubblico non risulti soddisfatto.
Sebbene i meccanismi attualmente in vigore assicurino che non si verifichi nuovamente una liquidazione disordinata sul modello di Lehman Brothers nel caso di una grande banca di rilevanza sistemica, per gli istituti di minori dimensioni l’unica opzione praticabile resta spesso la liquidazione secondo le normative nazionali, le quali risultano tuttora eterogenee tra i diversi Stati membri dell’Unione europea.
Oltre a sollevare evidenti criticità in termini di parità delle condizioni concorrenziali, tale frammentazione normativa rappresenta un ostacolo significativo al completamento di un mercato bancario pienamente integrato e si pone in contrasto con gli obiettivi fondamentali dell’Unione bancaria.
Per tali ragioni, appare imprescindibile l’introduzione di meccanismi di gestione delle crisi adeguati anche per le banche di minori dimensioni, possibilmente armonizzati a livello europeo. In caso di dissesto, tali istituti dovrebbero poter uscire dal mercato attraverso procedure ordinate e coordinate, in grado di contenere l’impatto sull’economia reale e di salvaguardare, nei limiti del possibile, la continuità aziendale e le relazioni instaurate con la clientela.
La soluzione ideale consisterebbe nell’introduzione di un quadro normativo armonizzato a livello europeo. Il raggiungimento di un simile risultato contribuirebbe in modo significativo a rafforzare l’efficienza complessiva delle procedure di crisi per tali istituti, riducendone la potenziale rischiosità sistemica e attenuando le ricadute negative sull’economia reale.
Alla luce di tali considerazioni, anche le istituzioni europee hanno iniziato a interrogarsi sulla coerenza e sull’efficacia dell’attuale quadro normativo. Non a caso, nel 2023 la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione significativa della disciplina vigente, alla quale sarà dedicata la parte finale del presente elaborato. L’analisi condotta porta, tuttavia, alla conclusione che si tratti di una riforma incompleta.
L’assenza di un quadro normativo chiaro e uniforme per la gestione delle crisi degli istituti di minori dimensioni non costituisce l’unica debolezza del sistema attuale. In tale prospettiva, si rende quanto mai urgente il completamento e il rafforzamento dell’architettura dell’Unione bancaria, che, allo stato attuale, risulta ancora priva del suo terzo pilastro. L’intero impianto si fonda, infatti, esclusivamente sui due meccanismi unici, di vigilanza e di risoluzione, la cui efficacia, pur significativa, non è sufficiente a garantire un’effettiva tenuta del sistema in assenza di una piena mutualizzazione del rischio a livello europeo.
Un sistema europeo di assicurazione dei depositi, quale naturale complemento della responsabilità condivisa in materia di vigilanza e risoluzione bancaria secondo il progetto originario dell’Unione bancaria, permetterebbe di svincolare la protezione dei depositanti dal luogo di insediamento degli intermediari. Ciò contribuirebbe a rafforzare la tutela in caso di crisi locali, che pur se circoscritte, possono avere rilevanti ripercussioni sulla stabilità sistemica complessiva. Inoltre, un sistema di questo tipo garantirebbe parità di condizioni con riferimento al trattamento degli intermediari in difficoltà, contribuendo a mantenere la fiducia dei depositanti su scala europea.
In questo contesto, non si può ritenere raggiunto l’obiettivo principale dell’Unione Bancaria, ossia la realizzazione di un vero mercato bancario europeo, indipendente dal legame tra Stato e sistema bancario nazionale. Rimaniamo allora in attesa dei prossimi passi del legislatore europeo, con l’auspicio che non sia necessaria una nuova crisi per dare impulso alle riforme future.
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