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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-08082017-105619


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
LEONI, IACOPO
URN
etd-08082017-105619
Titolo
Orfanità e sterilità nel romanzo francese degli anni Trenta
Settore scientifico disciplinare
L-LIN/03
Corso di studi
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Relatori
tutor Prof. Iotti, Gianni
Parole chiave
  • sradicamento
  • orfanità
  • mediocrità
  • fascismo
  • avventura
  • stagnazione
  • sterilità
Data inizio appello
17/08/2017
Consultabilità
Completa
Riassunto
Nel romanzo francese degli anni Trenta, il naufragio del senso cui sembra andare incontro la realtà orienta la rappresentazione del personaggio romanzesco secondo due bisettrici opposte e complementari. Da una parte, l’opacizzazione dell’istanza paterna, quando non la sua assenza, dà luogo ad una vera e propria condizione di orfanità; dall’altra, l’eclissi delle radici individuali è implementata da una difficoltà di paternità che sfocia su un vertiginoso complesso di sterilità. Evidenziando l’inconsistenza individuale e storica dei personaggi, la ricorrenza obsédante di queste figure descrive la condizione - insieme inquietante ed euforica - di una generazione scopertasi priva di giustificazioni biologiche, sociali o culturali. In questa prospettiva, l’infittirsi di figure legate al tema dello sradicamento sembra essere surdeterminata da una definitiva esplosione dei paradigmi tradizionali, acuito dai traumi tutti novecentesche della prima guerra mondiale e della rapida osmosi dei codici sociali. Da qui, una letteratura che ben al di là delle convinzioni politiche del singolo autore esprime una visione del mondo oramai piccolo-borghese: una condizione priva dei punti di riferimento tradizionali, come il patrimonio o la proprietà, ma che non riesce ad edificare nuovi valori cui ancorare il proprio status vacillante. Proprio la coscienza di una marginalità individuale e storica costituisce la premessa più evidente di un paradigma della mediocrità, per utilizzare l’espressione con cui Jacques Dubois identifica la generazione letteraria degli anni Trenta. Beninteso, lungi dal definire una problematica sociale o materiale, negli autori più rappresentativi di questa generazione la mediocrità rinvia ad una più complessa esperienza esistenziale che sfocia sull’assoluta vacuità di una traiettoria priva di giustificazioni.
L’ambivalenza di ogni costante letteraria permette tuttavia di rovesciare il polo negativo in polo positivo: se la crisi delle tradizionali forme di consistenza polverizza la consistenza dell’individuo, essa si afferma al tempo stesso come un mezzo privilegiato per assegnare un significato nuovo alla parabola individuale. Con gli anni Trenta, questa inversione reattiva si connette all’allestimento di un paradigma romanzesco alternativo: uscendo dalle secche della littérature d’analyse, l’inquietudine si orienta adesso verso problematiche di più ampio respiro, volte a stabilire i fondamenti di una letteratura nuova. La nuova prassi letteraria, rifiutando i connotati estetici e psicologici della generazione precedente, implica la presenza di un’interrogazione sul senso stesso della scrittura, volta a giustificare eticamente e politicamente la propria attività. Va da sé che un tale progetto conoscitivo comporti una nuova idea di soggetto romanzesco, adesso concepito come un’istanza autonoma rispetto ai vincoli tradizionali, e perciò capace di propugnare la condizione di orfanità e sterilità come garanzia di reazione. Alla sterilità del tessuto sociale e intellettuale la generazione degli anni Trenta oppone infatti una concezione autonoma del soggetto, chiamato ad individuare nuclei di senso alternativi rispetto a quelli dominanti: in quest’ottica, l’azione del singolo si carica di significati esplicitamente morali ed esistenziali, volti a veicolare una riflessione sul significato stesso dell’essere al mondo. Proprio la valorizzazione del piano riflessivo alimenta una particolare tipologia di personaggio che, prendendo a prestito la fortunata definizione di Brombert, può essere definito eroe intellettuale, orgogliosamente sganciato dalle tradizionali forme di consistenza.
Proponendo un’indagine esistenziale estranea d ogni reificazione sociale o culturale, i moduli romanzeschi degli anni Trenta si orientano dunque, ognuno secondo modulazioni tematico-stilistiche peculiari, verso la rappresentazione di esseri umani privi di un senso aprioristicamente dato. Certo, questa indagine può sfociare nella constatazione inquietante di un horror vacui davanti ad un mondo privo di riferimenti stabili; ma la vertigine di uno scollamento tra l’io e il contesto, lungi dal tradursi in una visione deterministica dell’esistenza, evidenzia la libertà del singolo. Se la rappresentazione della mediocrità pervade la letteratura degli anni Trenta, nei rappresentanti più autorevoli di questa generazione tale tematica viene postulata e trascesa allo stesso tempo: la riduzione ai minimi termini del soggetto costituisce la premessa per l’elaborazione di un nucleo di senso alternativo. Da questo punto di vista, la letteratura degli anni Trenta costituisce l’ulteriore tappa di un processo che, a partire dall’Illuminismo, non si basa tanto sull’adesione ad un senso preesistente quanto sull’elaborazione di significati sostitutivi. In tal senso, il discorso letterario di questa stagione marca una rottura e insieme prova ad aprire nuovi percorsi di senso: a partire da uno scenario generazionale, è dunque interessante analizzare come tale impulso si manifesti nell'opera dei singoli autori, originando un articolato impianto di varianti.
Un primo polo è costituito dalla tentazione fascista, fondata su un ripiegamento luttuoso e ideologicamente reazionario: in tal senso, la constatazione di una crisi individuale e generazionale individua nei postulati di razza e virilità l’occasione più feconda di risarcimento. Sia per Drieu La Rochelle che per Brasillach, la celebrazione letteraria del fascismo data 1939, rappresentando l’esito più coerente di una riflessione sul rapporto tra io e mondo che impegna i due autori fin dall’inizio delle loro carriere: a tal proposito, è emblematico che fin dalle primissime opere la rappresentazione del soggetto romanzesco ruoti attorno ad una pronunciata condizione di orfanità e sterilità. In entrambi i casi occorre pertanto rifarsi ad un arco narrativo più esteso, così da mettere in risalto l’evoluzione in senso politico-reazionario di queste problematiche. Nella narrativa di Drieu, la riflessione sulla decadenza francese, investendo i paradigmi borghesi, comporta un’opacizzazione dell’istanza paterna che apre, almeno potenzialmente, ad un processo di emancipazione dal modello generazionale. Tuttavia, l’operazione di autodeterminazione non riesce felicemente: in romanzi come Le Feu follet e Rêveuse Bourgeoisie, la critica ad una borghesia inefficace ed inconcludente si accompagna alla rappresentazione di un soggetto fallimentare, la cui mancanza di aderenza alla realtà impedisce di trasformare costruttivamente la diagnosi in reazione incisiva. Questa insufficienza costitutiva trova un canale privilegiato nella dimensione erotico-sessuale: il palliativo dell’erotismo riporta infatti l’individuo alla propria solitudine, rovesciando la frenesia in stasi. Connotata in tal senso, la quête identitaria dei personaggi larochelliani è costitutivamente condannata alla sterilità: proprio il complesso d’impotenza e sterilità cui sono destinati i personaggi, certifica la posizione marginale del soggetto nel tessuto sociale, dando corpo ai fantasmi di una classe improduttiva che, se non ha più niente da ereditare, non può fondare un ordine autonomo.
Vera e propria summa di un itinerario narrativo quasi ventennale, Gilles presenta in maniera più complessa e relata tutte le componenti principali attive nell’opera di Drieu. I temi caratteristici tornano tutti e contemporaneamente, fino a formare un fitto reticolato tematico in cui la condizione di orfanità e sterilità è addirittura esasperata per mettere in risalto la nascita del nuovo soggetto fascista. Ancorando in maniera esplicita orizzonte individuale e orizzonte storico-politico, Gilles porta alle estreme conseguenze quel parallelismo tra crisi del soggetto e decadenza della società che è esplicito e insistito in tutta la sua opera: gli elementi tipici del romanzo individuale si sommano all’affresco ideologico della decadenza francese, con lo scopo di introdurre la professione di fede fascista con cui termina la vicenda. Squalificati i legami verticali in favore del concetto di razza, la condizione di orfanità può adesso essere esibita come un azzeramento euforico su cui elaborare significati autonomi. Ma il progetto di autodeterminazione è ostacolato dalla compromissione con una società malata e disordinata. Ancora una volta, è la dimensione erotico-sessuale ad assumere un ruolo primario per comprendere l’infiltrazione della decadenza nel soggetto: la dispersione erotica, lungi dal favorire un incremento identitario, sfocia su un complesso d’impotenza e sterilità che rischia di appiattire il soggetto sulle coordinate di un’esistenza piccolo-borghese. Sarà proprio l’identificazione con un tessuto sociale sterile e femminizzato a innescare una reazione, culminante con l’adesione al fascismo.
L’inconsistenza individuale e storica che orfanità e sterilità trasmettono trova una sublimazione nel fascismo, percepito come unico medium per favorire la rigenerazione di un mondo privo di statura eroica: in una civiltà materialista e massificante, il fascismo non si afferma, più banalmente, solo come una forza di distruzione ma propone una condizione umana più alta ed orgogliosa, fondata su una restaurazione totale dell’uomo e, con esso, di un intero popolo. In questa chiave, il fascismo permette di ritrovare quei valori di forza e virilità frustrati dal contatto con una società civile agonizzante e passiva: la morale dell’azione, restituendo all’individuo la sua dimensione guerriera, consente infatti una dilatazione dell’io che riattiva quella fecondità negata dal piano fisico-biologico. Date le valenze spirituali di cui è caricato, il fascismo celebrato da Drieu assume una valenza meno politico-sociale che mistico-religiosa, capace di restaurare l’animo individuale e la coscienza collettiva. In questo senso, solo il ricorso ad un’istanza politica fortemente liricizzata consente di superare le insufficienze di un’attività intellettuale lontana dal mondo. Nella trasfigurazione estetica del gesto fascista sembra così potersi realizzare il sogno romantico tanto a lungo coltivato da Drieu: armonizzare azione e sogno, attività contemplativa e intervento concreto nella storia.
Nell’itinerario narrativo di Brasillach il problema delle radici individuali è posto fin da Le Voleur d’étincelles: per sconfiggere lo sradicamento patito nella dimensione urbana, Lazare Mir deve emanciparsi da una dimensione individualistica e tornare alle regioni incantate dell’infanzia, dove potrà riconnettersi con gli spiriti della famiglia. Attraversando più o meno evidentemente tutta la produzione del decennio, la condizione di orfanità e sterilità raggiungerà il suo culmine ne Les Sept couleurs (1939). Normalmente si tende a mettere in risalto l’elaborazione formale del romanzo, basata sulla compresenza di codici narrativi eterogenei; in realtà, la ricerca di originalità formale è surdeterminata dall’illustrazione di un altro rinnovamento, rappresentata dalla nascita dell’uomo fascista. Attivo fin dal primo romanzo, il meccanismo di opacizzazione delle radici deflagra completamente ne Les Sept couleurs, dove il problema è oramai trattato solo in absentia: le origini che i personaggi precedenti avevano faticosamente cercato di riconquistare sono completamente eliminate. Implementata dalla difficoltà di interpretare costruttivamente un rapporto sentimentale, la condizione di orfanità è infatti sublimata – e nel caso di entrambi i protagonisti maschili - con il ricorso al fascismo. In tal senso, il processo di eradicazione di ogni legame sottintende una critica alla dimensione borghese, principale responsabile della mediocrità sociale e culturale in cui è precipitata la società: l’orfanità e la sterilità cui sono sottoposti i due protagonisti li colloca in una dimensione apertamente anti-borghese, l’unica suscettibile di essere fecondamente rovesciata in fascismo.
Alla definitiva mozione di sfiducia verso la generazione dei padri segue l’esaltazione di una giovinezza eroica finalmente chiamata alla responsabilità dell’azione. Il problema della giovinezza, che nella generazione precedente era legato ad istanze erotico-oniriche, si fa dunque collettivo; d’altronde, la contingenza del momento storico impone di rimotivare l’ossessione per la fugacità del tempo in una chiave storico-sociale. Ma il gesto fascista non presuppone un superamento dalla giovinezza in favore della maturità; piuttosto, ne armonizza le istanze più caratteristiche in un ordine superiore che le conferisce una collocazione storica feconda. Enfatizzando il tono vitale e istintivo a discapito del piano razionale-logico, la valutazione estetico-sentimentale del fascismo ha la meglio su ogni disamina teorica: in tal senso, l’analisi del fascismo resa da Brasillach è estranea a qualsiasi approfondimento storico-sociale ma resta ancorata ad una visione lirica che mal si emancipa da un giudizio puramente estetico. Questa pulsione estetizzante comporta un movimento doppio, e solo apparentemente contraddittorio. Da una parte, l’esprit de jeunesse origina un impulso individualista atto a sorpassare il proprio statuto mediocre attraverso dilatazione euforica dell’io; dall’altra, il desiderio di fusione con una collettività più vasta attraverso il recupero dei morti e dello spirito della nazione testimonia la necessità di un ordine superiore che trascenda le esistenze singole e ne assicuri la coesione. Declinando verso gli stilemi dell’epopea, l’esistenza del singolo è garantita proprio dalla partecipazione ad una collettività che, riscattandone l’assenza di legami, lo completa come individuo. Celebrando la possibilità di armonizzare l’io in una pluralità più vasta, Brasillach propone una visione meno pessimistica rispetto a quella del tempo: la rappresentazione di un soggetto senza legami, passivo ai limiti dell’impotenza, trova nel fascismo le ragioni della gioia e della totalità.
Al ripiegamento romantico-reazionario, fondato sul culto dei morti e su un’ipervalutazione mitica dell’identità nazionale, si oppone un polo etico, intento a trasfigurare nel valore della libertà e dell’autodeterminazione la condizione di orfanità e sterilità. Nelle opere di Malraux, Nizan e Sartre la crisi del rapporto tra io e mondo è sublimata euforicamente mediante la valorizzazione dell’autonomia individuale: i sottintesi etici che orientano questa tendenza demandano ogni risposta alle potenzialità concrete del singolo, teso a reperire nella dimensione tangibile della propria esperienza i mezzi della propria sostanziazione. In Malraux questa necessità si connette a quella proiezione eroico-avventurosa che è al centro de La Voie royale, dove l’azione si dà come l’unico modo per ribadire il valore autonomo dell’io. Momento di estremo confronto con il proprio essere, l’avventura ha come conditio sine qua non l’estraneità ai codici ritualizzati della società, fondati sulla mitologia borghese della continuità generazionale. Se la crisi dei legami verticali testimonia lo statuto deficitario del soggetto, il malessere resta qui motivo solo implicito, poiché la statura eroica rovescia la condizione di orfanità e sterilità in garanzia di autodeterminazione. Certo, l’eclissi dei valori fondativi espone l’individuo ad una vertigine d’inconsistenza ma, lungi dal risolversi in nichilismo o paralisi, esalta la lotta del singolo contro le forme del destino. Tuttavia, la morte su cui si chiude la parabola di Perken, rivelando l’assurdità dell’esistenza, non farà che consegnare il processo di autocostruzione del sé ad una impasse tanto storica quanto metafisica. Se l’emancipazione dai vincoli tradizionali innesca uno scatto conoscitivo, la dilatazione solitaria dell’io attraverso la proiezione avventurosa resta legata ad una concezione romantico-nichilista che non prevede esiti fecondi.
Con La Condition humaine, il gesto eroico evolve da una tensione individualista verso significati etico-politici di valore collettivo. Se il dato di fondo è il racconto delle vicende rivoluzionarie, il testo apre ad una prospettiva più profonda, in cui la dimensione politica è proposta come ancoraggio ai turbamenti di una generazione di déracinés. Ecco perché, nel reticolato tematico del romanzo, la questione del rapporto con il modello paterno continua ad occupare un problema centrale. Tutti i personaggi del romanzo sembrano privi di radici, ma questa problematica concerne da vicino il rapporto tra Gisors e Kyo. Benché i due rappresentino istanze per certi aspetti complementari, ad emergere è un’opposizione inconciliabile: se Gisors incarna una dimensione contemplativa pronta ad alienarsi dalla realtà, Kyo si fonda come individuo grazie all’azione rivoluzionaria. Rifiutando ogni determinismo in funzione di un’esaltazione della scelta, il progetto di autodeterminazione politico-rivoluzionario illustrato da Malraux implica dunque una totale valorizzazione del presente: una volta cadute le tradizionali forme di consistenza, la dedizione ad una causa comune diventa l’unica forma di giustificazione. Proprio l’adesione dell’io ad una comunità più vasta ridisegna l’impianto metaforico cui ubbidisce la rappresentazione della sessualità: la fecondità dell’azione rivoluzionaria può ormai prescindere dalla sete di dominazione erotica cui cedeva la proiezione avventurosa-individualista. Beninteso, non manca la tematizzazione di una sessualità sterile, legata allo scatenamento del desiderio erotico; tuttavia, essa non è legata ai valori rivoluzionari ma a personaggi dediti ad un’impostazione esistenziale dedita all’individualismo. A differenza dei romanzi precedenti, con La Condition Humaine l’energia si espande in un movimento fraterno basato sulla condivisione costruttiva della solidarietà rivoluzionaria: solo in questo caso la sublimazione della propria inconsistenza individuale, cui orfanità e sterilità rimandano, sembra risultare veramente perseguibile.
Ad un medesimo indirizzo risponde la parabola romanzesca di Paul Nizan, all’interno della quale la questione dell’orfanità e della sterilità si lega in maniera ancor più esplicita a problematiche politiche e sociali di sinistra. Coerentemente con i postulati che orientano la letteratura degli anni Trenta, i significati etico-politici diventano valori in grado di rimotivare la condizione di un soggetto fluido, privo delle giustificazioni tradizionali: in quest’ottica, la rivoluzione appare non soltanto una possibilità storica e sociale, ma l’unico modo con cui risarcire l’individuo dalla perdita delle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale. Niente di strano che una simile riflessione sul nesso tra uomo e sfera politica si leghi ad una messa in questione dei legami verticali in quanto la tensione generazionale costituisce un elemento decisivo nel percorso di autodeterminazione politica del soggetto. Antoine Bloyé, romanzo d’esordio di Nizan, costituisce appunto una riflessione sui rischi di ogni percorso slegato da un orizzonte collettivo: attraverso l’ascesa professionale di Antoine, il romanzo restituisce la sterilità individuale e storica di un individuo che sceglie di tradire le proprie origini contadine per conformarsi ad un ideale di vita piccolo-borghese. Con Le Cheval de Troie, il ritratto individuale lascia spazio ad un quadro più ampio che trascende la singolarità in un ritratto collettivo dalle tinte epicizzanti. Pur nell’espansione delle implicazioni tematiche, il problema dei vincoli verticali resta un elemento determinante: in filigrana al nucleo narrativo principale emerge un tema portante, che vede i personaggi separarsi dalle tradizionali forme di consistenza per legare il proprio tragitto ad un impegno etico-politico totalizzante.
In questa prospettiva, il processo di emancipazione dai vincoli generazionali costituisce un momento essenziale del processo conoscitivo, ma ancora insufficiente. La coscienza di un’ipoteca tragica gravante sul destino individuale deve costituire solo il primo tassello di un progetto edificante in cui la sterile fascinazione per il nichilismo sia superata attraverso l’adesione ad una causa collettiva. Si tratta di un’aspirazione che si realizza concretamente nei momenti di aggregazione plurale: la fusione nella causa comune sublima la solitudine dei singoli, rifecondando una condizione umana sterilizzata dalla sofferenza. Lo stemperamento delle istanze individuali dentro un quadro collettivo suggerisce la volontà di restituire una nuova epica, per eccellenza integrazione armonica del singolo all’interno di un insieme che lo giustifica e lo trascende: in questo desiderio, è evidente l’aspirazione a una fusione collettiva quasi pre-moderna ma mondata delle implicazioni religiose e rifunzionalizzata in un’ottica esistenziale e politica. Ben presto, la contingenza storico-sociale imporrà a Nizan di ripensare criticamente la possibilità di un collegamento fecondo tra l’io e la storia. Con La Conspiration, il tema della dialettica generazionale viene infatti convogliato all’interno di un’interrogazione autocritica sul malessere di una generazione fluida, priva di solidi punti di riferimento. Il nucleo del romanzo porta la perturbazione nella fluidità del modello familiare ad assumere ancora una volta il ruolo di linea guida all’interno dell’economia narrativa. Ma la sostanziazione dell’individuo, prima garantita dall’aggancio a significati politici costruttivi, è qui rovesciata nella condizione stagnante di una gioventù che non riesce ad agganciare il rifiuto dei valori borghesi a significati collettivi realmente concreti e incisivi.
Ultima ed estrema tappa di questo polo, La Nausée di Jean-Paul Sartre descrive un’azione ormai ridotta alla sola dimensione intellettuale. La condizione di orfanità e sterilità è tematizzata fin dall’inizio come un tratto costitutivo di Roquentin, estraneo ad ogni collocazione sociale e collettiva. Da qui, uno statuto solitario su cui si innesta una doppia emarginazione: la prima ha una matrice filosofica e deriva dalla constatazione di una crisi nel rapporto con il mondo fisico; la seconda ha implicazioni sociali, e con odio misto a invidia separa Roquentin dalla classe borghese. Secondo un meccanismo di contaminazione tra assi tematici paralleli frequente nel romanzo, la rivendicazione dell’hic et nunc cui le figure di orfanità e sterilità rimandano assume un significato ideologico-sociale che porta a una contestazione dell’ordine borghese dominante. Se i salauds individuano nella dimensione familiare e nelle tradizioni una giustificazione esistenziale, il progetto di Roquentin mira ad assumere l’esistenza pura attraverso una radicale liberazione dai ruoli. Vincolata alla dimensione soggettiva, l'antropologia di Sartre origina infatti da un processo conoscitivo autonomo, che per definizione non può modellarsi su forme di giustificazioni imposte dai codici tradizionali. Demistificato ogni rapporto di necessità tra l’io e il mondo, l’indagine identitaria di Roquentin assume la contingenza a principio costitutivo dell’essere: sfociando sull’engluement nella coscienza pura, l’esistenza cola nel soggetto liberato dalla sua ipoteca alienante, fino ad invaderlo con la sua fluidità informe. L’indagine cognitiva proposta del romanzo arriva a formulare nell’esistenza l’unica qualità del soggetto, in opposizione alle tradizionali forme di consistenza legate alla famiglia e allo status sociale
La celebrazione dell’esistenza come predicato ultimo del soggetto sottintende una libertà che, nella sua radicalità, non conduce tuttavia una euforica sostanziazione del sé ma all’assenza radicale di riferimenti: il momento della nausea apre alla tabula rasa di tutti i valori tradizionali per approdare alla certezza che l’esistenza non corrisponde ad alcune necessità ma solo alla contingenza. La questione della contingenza pone dunque il problema dell’essere umano nel mondo: l’angoscia esistenziale si lega alla constatazione d’una gratuità dell’essere, e quindi all’interrogazione senza risposta sulla propria identità. Ma la scoperta della contingenza non deve essere ridotta alle sue coordinate soggettive: nell’immagine di una Bouville sepolta dalla vegetazione, la gratuità del soggetto si lega all'esistenza gratuita della civiltà occidentale, assumendo un carattere storico e collettivo, oltre che ontologico e soggettivo. Beninteso, nella prassi sartriana la condizione di orfanità e sterilità ha un implicito risvolto etico-positivo: solo attraverso la vertiginosa esperienza del nulla, l’essere umano può mettersi in questione. Solo da questo processo di autonegazione può nascere una volontà di autocostruzione che testimonia d'una reale "libertà" del soggetto. L’analitica fenomenologica sfocia implicitamente su un’etica del soggetto che si fa nella misura in cui accetta di negarsi, riconoscendosi in una concezione dell’essere come perpetuo progetto. Ancora lontano dal legarsi a significati pienamente politici, il progetto su cui si chiude La Nausée si limita alla possibilità di un’opera d’arte che, risarcendo la virilità di Roquentin, possa fustigare la collettività borghese detestata e invidiata.
Nella quarta parte si è preso in considerazione un terzo polo, particolarmente diffuso in questa stagione: una letteratura dello smarrimento, in cui la condizione di orfanità e sterilità restituisce un movimento cortocircuitale incapace di elaborare costruttivamente la percezione di un malessere tanto individuale quanto storico. Di questa tendenza, il furor liquidatorio di un Céline non rappresenta che la versione meno rassegnata e più anarchica, e perciò meritevole di essere considerata indipendentemente. Se l’opera di Céline si fa interprete di un’inquietudine generazionale, l’assenza di ogni elaborazione sostitutiva consente infatti di rilevarne lo statuto peculiare: alla possibilità di riscattare la condizione di orfanità e sterilità tramite una progressione identitaria, Céline oppone la visione di una condizione umana immodificabile. Si tratta di un dato che emerge con evidenza nel Voyage au bout de la nuit: muovendosi in un contesto socio-culturale in preda al disordine, Bardamu interpreta una condizione priva di ogni punto di riferimento e dunque condannato ad esperire una precarietà costitutiva. In questo senso, l’opacizzazione delle radici familiari riflette un più generale perturbazione delle istanze sociali o religiose tradizionalmente fondative per l’individuo. Se l’assenza di parametri stabili incrina il rapporto di conoscibilità tra l’io e il mondo, la bulimia esperienziale del personaggio risulta anzi accentuata: tuttavia, il movimento nel mondo, lungi dal suggerire un’acquisizione conoscitiva feconda, non fa che restituire l’ossessiva presenza di una morte che condanna il soggetto alla deflagrazione. Posto sotto l’ombra di un immobilismo metafisico, il romanzo esplicita una doppia tendenza all’anonimato cui è destinato l’individuo: il dominio della morte, lungi dal produrre uno scatto reattivo, è solo l’esito più coerente di quell’azzeramento già garantito dalla latenza di ogni giustificazione.
Con Mort à crédit (1936), la crisi dell’istituzione familiare e dello status sociale, che nel Voyage è motivo solo implicito del discorso, viene affrontata alle sue radici: dopo aver illustrato una vasta fenomenologia del negativo, l’intento del romanzo è quello di un’immersione nella storia infantile e adolescenziale del personaggio, volto a recuperare le cause di una visione del mondo così radicalmente improntata al negativo. In effetti, l’accento sulla degradazione del microcosmo familiare è inestricabilmente connesso ad una compromissione con la morte e dunque sintomo di una visione radicalmente disperata. In questo senso, il focus sulla dimensione piccolo-borghese della famiglia resta solo un primo, elementare, livello attraverso cui Céline può veicolare rovelli ontologici di portata più ampia, operando, in maniera ancor più marcata, quello slittamento dal piano sociale a quello metafisico-esistenziale che già era stato l’architrave del Voyage. La riduzione ai minimi termini sociali e ontologici, lungi dal comportare una reazione, si risolve in un blocco che ostacola alla base ogni proposito di apprendistato: di fronte all’aggressività dell’esterno, l’unico progetto è un ripiegamento passivo che, abdicando ad ogni autonomia, si limita ad organizzare un labile calcolo difensivo. Si tratta di una chiusura replicata anche dal microcosmo sessuale, il quale, perduta ogni funzione euforica, obbedisce all’immobilismo che regola l’universo céliniano, tradendo in sé la crisi e non la fondazione dell’identità. Il binomio di orfanità e sterilità rimanda così ad una passiva chiusura al mondo, legata all’assenza di una felice progressione identitaria: lo schema del romanzo di formazione, cui lo scheletro del testo sembra alludere, si è oramai ridotto ad un accumulo disordinato e fallimentare di esperienze cui non soggiace più alcun paradigma interpretativo.
In questo polo romanzesco rientra però una seconda linea, all’interno della quale le figure di orfanità e sterilità si legano ad un senso di stagnazione esistenziale caratterizzata dalla chiusura di qualsiasi orizzonte - sia esso intimo, sociale o esistenziale. Da qui, uno scenario particolarmente negativo, in cui lo statuto problematico dell’individuo resta alieno non solo da quella tensione reattiva che, pur nella polarità degli esiti, contrassegna il ripiegamento reazionario e la sublimazione etico-costruttiva, ma anche dall’inesausto moto conoscitivo di un Céline. Sulla base di questi tratti è dunque possibile astrarre un modello romanzesco comune, al quale possono essere ascritte le esistenze dimesse e rinunciatarie tratteggiate da Bove e da Montherlant, così come i pallidi calcoli difensivi che contrassegnano i romanzi di Guilloux, Thérive e Simenon. In questo senso, il crollo delle tradizionali forme di consistenza, lungi dal costituire un momento di fondazione dell’io, rimanda ad una paralisi aliena dal minimo progetto di reazione: se la riduzione dell’individuo alle sue forme minimali sfocia sulla constatazione di un divorzio con il mondo, esso non comporta l’elaborazione di significati sostitutivi ma solo un’involuzione solipsistica. Attraverso differenti modulazioni tematiche e stilistiche, questi romanzi illustrano dunque una ricerca di sostanziazione minata alla base da una duplice perturbazione: da una parte, la svalutazione preventiva dell’azione individuale squalifica ogni possibilità di conoscenza; dall’altra, l’opacizzazione di uno spazio fisico fattosi definitivamente illeggibile invalida il concetto stesso di esperienza. Si tratta di un binomio che, riflettendo una morale del fatalismo, preclude ormai ogni conquista identitaria: se molta letteratura degli anni Trenta ha insistito sulla libertà del soggetto, quest’orizzonte romanzesco sembra riaffermare una morale della predestinazione aliena da ogni spessore storico come da ogni contatto con l’hic et nunc.
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