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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-05202015-125134


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
COLOMBO, CAMILLA FRANCESCA
URN
etd-05202015-125134
Titolo
Scientific Advisory e Gestione del Rischio: Probabilita, Utilita e Giudizi di Valore
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE
Relatori
relatore Prof. Barrotta, Pierluigi
Parole chiave
  • cost-benefit analysis
  • principio di precauzione
  • risk managing
  • scientific advisory
  • teoria della probabilità
Data inizio appello
29/06/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il dibattito pubblico riguardante molte decisioni cruciali dell'agenda politica contemporanea, dal problema dell'allocazione delle risorse sanitarie, alle previsioni di mercato e alle valutazioni di impatto ambientale o di sicurezza, è permeato dall'appello sempre più sistematico al parere dei tecnici e degli "scienziati". Mentre un peso e un'autorità crescenti sono attribuiti alla scientific advisory, non mancano episodi e vere e proprie esplosioni di scetticismo e polemica, che investono sia questioni interne alla consulenza scientifica‚ cioè di affidabilità, accuratezza e in generale di correttezza metodologica, sia esterne, che mettono cioè in discussione il ruolo stesso della scientific advisory nelle questioni di scelta sociale. Per citare solo alcuni tra i casi pi√π noti e recenti, basti il riferimento al "processo degli scienziati" per le presunte previsioni inadeguate sul terremoto dell'Aquila, al "caso Stamina" o alla querelle sulla correlazione tra autismo e vaccino MMR , ma anche al dibattito più di vecchia data circa l'utilizzo di evidenze genetiche nei processi criminali.
Il nodo problematico sollevato da questi episodi esemplari è da rintracciarsi, a mio avviso, nella legittima distinzione dei ruoli tra lo scienziato e il "policy maker" e, più in generale, sul peso da attribuire all'evidenza e al parere scientifico nell'ambito della scelta pubblica, che coinvolge inevitabilmente considerazioni morali e "di valore". Può il parere "esperto" esaurire tutti i requisiti necessari a determinare univocamente la scelta sociale? Oppure altri "valori" esterni devono necessariamente contribuire al processo decisionale? E se sì, in che modo? Da dove provengono tali valori? Come può l'intromissione dei valori nel piano della ricerca scientifica non minarne la legittimità e adeguatezza metodologica? Queste sono alcune delle domande che intendo analizzare nel presente lavoro di tesi. In particolare, mi concentrerò sull'ambito più ristretto della valutazione e gestione del rischio, in cui le "informazioni scientifiche", in termini di distribuzioni di probabilità, giocano un ruolo cruciale. Rispetto a questa specifica tematica, mi chiederò quindi se le contemporanee e diffusissime tecniche del risk assessment, risk management e cost-benefit analysis incorporino tutte le istanze legittimamente presenti in una decisione in condizioni di rischio e se siano adeguate a tale scopo; quali altre componenti "morali'', escluse dal modello standard, siano eventualmente da soppesare e in che modo.
Come primo approccio alla questione, illustrerò un esempio storico particolarmente illuminante, la querelle sul vaccino contro il vaiolo tra Daniel Bernoulli e Jean-Baptiste Le Ronde D'Alembert, che ebbe luogo nella seconda met√† del XVIII secolo. Questo caso rappresenta a mio parere uno dei primi tentativi di analisi del rischio, attraverso il calcolo della probabilità, applicato a una decisione di forte portata ‚"morale" e rilevanza pubblica. Esponendo nei suoi dettagli tecnici il modello matematico costruito da Bernoulli per dimostrare l'opportunità sociale dell'inoculazione stato inscindibilmente legato agli esiti dell'applicazione di questa disciplina a questioni di scelta pubblica. Questo punto si rivelerà di importanza cruciale più avanti, nella discussione sull'intrinseca presenza di valori in ogni parere scientifico che si limiti anche solo a fornire una distribuzione di probabilità. Le posizioni antitetiche di Bernoulli e D'Alembert, inoltre, costituiscono una prima esplicita polarizzazione, riscontrabile anche nel dibattito attuale, sull'adeguatezza del "calcolo matematico" nel fornire una guida legittima alle decisioni pratiche. Se Bernoulli conclude infatti la sua analisi formulando la famosa massima, che impone di tenere in considerazione e farsi guidare da tutte le informazioni "scientifiche" disponibili, anche quando siano lacunose, imprecise e manchevoli, D'Alembert non abbandona invece una visione critica e scettica sulla possibilità dell'analisi tecnica di catturare l'esperienza morale e profondamente individuale del "correre un rischio". Sebbene queste posizioni siano state riformulate in seguito al "raffinamento'' teorico del "calcolo matematico'', le istanze promosse dai due philosophes contengono già in nuce molti elementi del dibattito novecentesco e contemporaneo.

Nel capitolo successivo, analizzerò, a partire da una breve parentesi storica, l'apparente "trionfo" della massima di Bernoulli, mostrando come in molti ambiti, a partire quello dell'allocazione delle risorse sanitarie, procedure meramente tecniche come il risk managing vengano spesso impiegate in modo esclusivo e conclusivo. La gestione del rischio, in questo senso, sembrerebbe poter essere legittimamente esaurita dal puro calcolo di quale alternativa abbia una maggiore utilità attesa, o dalla cost-benefit analysis, senza chiamare in causa ulteriori "valutazioni morali". Discipline come il risk management, infatti, mirano a fornire una risposta puramente procedurale a tutti i problemi di gestione e allocazione del rischio. Nella conclusione del Capitolo 2, illustrerò due esempi contemporanei e controversi di applicazione delle tecniche di risk assessment, riguardanti rispettivamente il problema dell'allocazione delle risorse sanitarie e la selezione di siti idonei per lo stoccaggio di scorie radioattive. Parallelamente all'esposizione di questi casi, comincerò ad illustrare alcuni dei principali problemi legati tanto alla cost-benefit analysis in quanto tale, come la questione teorica dell'incommensurabilità degli esiti, quanto all'applicazione della cost-benefit analysis a questioni di scelta pubblica. In particolare, rispetto a quest'ultimo tema, rifletterò sulle implicazioni dell'utilizzo delle procedure di risk managing per il mito della scienza come priva di valori (il "value free ideal'').

Le posizioni che presento come dominanti nel Capitolo 2, tuttavia, non sono state immuni da critiche, che hanno evidenziato come considerazioni valoriali vengano implicitamente riproposte nel calcolo dell'utilità attesa, mettendo in luce quindi l'inadeguatezza delle pretese di "oggettività" di queste tecniche di gestione del rischio. In particolare, svilupperò questo problema teorico nel terzo capitolo illustrando il cosiddetto "Paradosso di Rudner", secondo cui lo scienziato in quanto tale non può esimersi dal formulare giudizi morali nel fornire un parere o una consulenza scientifica. In questo senso, obietta Rudner, il "peso" della componente valoriale verrebbe semplicemente inglobato nella consulenza scientifica, tutt'altro dunque che neutrale, con uno "sconfinamento" o invasione di campo, altamente problematico. In questa sede, proporrò anche una discussione più esaustiva sul problema del rischio induttivo e le sue implicazioni per il value free ideal, a partire dalle trattazioni classiche di Churchman, Frank e Rudner stesso fino alla sintesi di Douglas e alla proposta di Betz, passando per autori come McMullin e Laudan. In particolare, chiuderò questa riflessione con il problema provvisorio di discriminare tra componenti valoriali che possono legittimamente interessare il lavoro scientifico e i valori che invece devono essere necessariamente esclusi da un modello adeguato di indagine scientifica, divisione spesso riproposta come la dicotomia tra valori epistemici e non epistemici. L'argomento del rischio induttivo, d'altra parte, costituisce a mio avviso la sfida più ardua per i sostenitori del value-free ideal, e diverse versioni e i rispettivi possibili contro argomenti, rispetto al tema specifico della scientific advisory, verranno vagliati nel corso di questo lavoro.

Nel capitolo seguente, in risposta a questa legittima preoccupazione e alle problematiche sollevate da Churchman e Rudner, prenderò in considerazione un tentativo di soluzione formulato da Jeffrey, che propone un modello per una coerente "divisione del lavoro" tra scienziato e "policy maker". Tale proposta, come nota efficacemente Douglas, mira a riproporre il value free ideal, cioè il mito di una scienza isolata dal resto della comunità e indipendente da considerazioni etiche, cercando però di fare i conti con l'argomento del rischio induttivo. Questa via d'uscita, a mio parere, non risulta certamente conclusiva per quanto riguarda la riaffermazione del value-free ideal, sebbene sia stata riproposta anche recentemente da Betz come risposta adeguata al problema di Rudner. Nonostante questo fallimento, l'argomento di Jeffrey costituisce a mio avviso un buon punto di partenza da cui analizzare il rapporto tra scientific advisory e scelta pubblica, proponendone per la prima volta un modello teorico positivo. In questo senso, la proposta di Jeffrey si fa carico e riconosce la cosiddetta massima di Bernoulli, per cui le informazioni scientifiche non possono essere ignorate nel processo di deliberazione. Tale principio esprime infatti, a mio parere, un intuitivo appello al "buonsenso" e non può essere travolto dallo scetticismo sull'inadeguatezza e sull'intrinseca "connivenza" tra giudizi di valore e parere tecnico, come una completa resa alle considerazioni di Rudner sembrerebbe paventare. D'altro canto, la consapevolezza che le considerazioni valoriali non possono essere eliminate dalle decisioni di carattere pubblico impone inevitabilmente una maggiore attenzione nel valutare, comunicare e soppesare la consulenza scientifica. Il modello di Jeffrey, pur ingenuo e problematico, rappresenta sicuramente un primo tentativo di soddisfare entrambe le motivazioni e componenti che concorrono a formulare il problema della scientific advisory. Solo una volta scardinato completamente il mito di una comunità scientifica isolata dal suo ruolo sociale, infatti, il tema del rapporto con la cittadinanza e gli organi decisionali può essere analizzato con l'attenzione e la precisione che la sua rilevanza pubblica ed etica impone.

Nell'ultima parte di questo lavoro illustrerò l'evoluzione e le implementazioni della posizione espressa da Jeffrey attraverso l'esempio del Principio di Precauzione, che costituisce a mio avviso un tentativo di bilanciare le procedure standard di gestione del rischio con considerazioni esterne, mediante un opportuno criterio di decisione alternativo alla massimizzazione dell'utilità attesa. In particolare, cercherò di caratterizzare, nell'esposizione di questo Principio, come un'analisi "tecnica" del rischio possa consentire anche a considerazioni di tipo morale di svolgere un ruolo effettivo nel processo decisionale. In questo senso, nonostante i molti problemi teorici e una formulazione ancora inadeguata, tale Principio rimane un candidato promettente come modello di gestione del rischio collettivo. In particolare, dopo aver illustrato la fortuna e il dibattito intorno al Principio di Precauzione, ne propongo una sua caratterizzazione nei termini del criterio di decisione del Maximin, seguendo le riflessioni di Hansson, Gardiner e Ackermann. Esploro in seguito anche una formulazione procedurale o epistemica del Principio di Precauzione, mostrando come una sua interpretazione nella forma di meta-principio possa tenere conto dell'argomento del rischio induttivo elaborato da Rudner, prendendolo come punto di partenza per un modello propositivo e positivo di scienza coinvolta con il piano dei valori. In quest'ultimo capitolo, più che formulare una proposta conclusiva ed esaustiva, suggerisco alcuni spunti ed esempi di applicazione del Principio di Precauzione, come il caso della tossicologia illustrato da Steel, per mostrare come un lavoro di ricerca a partire da questo criterio possa effettivamente fornire una guida pratica per il rapporto tra pannelli scientifici e organi decisionali.


La "via di Bernoulli'', una volta imboccata, resta a mio parere impossibile da abbandonare, senza palesi e inaccettabili violazioni di un principio basilare di razionalità a cui non siamo disposti a rinunciare da un punto di vista normativo. D'altra parte, il primato indiscusso e di default attribuito al parere scientifico nelle decisioni di scelta pubblica deve essere adeguatamente bilanciato da un'opportuna riabilitazione della componente valoriale, ormai resa evidente dal crollo del value-free ideal. Il fallimento del mito di una scienza priva di valori, ormai evidente nella gestione di problemi complessi, di cui il cambiamento climatico e solo l'esempio più lampante, non può però risolversi con una conclusione pessimistica sul ruolo e sui compiti dell'indagine scientifica. Al contrario, se giudizi morali e soggettivi non possono, per ragioni intrinseche alla pratica della scientific advisory, essere eliminati dal processo decisionale, una sistematica e trasparente esposizione dei valori che si vogliono tenere in considerazione diventa tanto cruciale quanto le questioni di correttezza metodologica interne alla comunità scientifica. Solo riconoscendo che entrambe le componenti sono essenziali e inscindibili nella prassi della scientific advisory può portare a formulare criteri di decisione e divisione del lavoro coerenti e legittimamente difendibili.

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