Tesi etd-03042025-160703 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
LISI, DALILA FLAVIANA
URN
etd-03042025-160703
Titolo
L'obiezione di coscienza tra personalismo e pluralismo: analisi dell'istituto e applicazione nel caso dell'interruzione volontaria della gravidanza
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Stradella, Elettra
Parole chiave
- aborto
- coscienza
- disobbedienza civile
- interruzione volontaria della gravidanza
- laicità
- obiezione di coscienza
- personalismo
- pluralismo
- resistenza
Data inizio appello
14/04/2025
Consultabilità
Completa
Riassunto
Affrontare il tema dell’obiezione di coscienza ha significato, per molto tempo, confrontarsi soprattutto, se non esclusivamente, sulla questione del rifiuto opposto, per ragioni religiose e, più in generale, morali alla prestazione del servizio militare obbligatorio. Nel corso di alcuni decenni, tuttavia, le ipotesi di obiezione di coscienza si sono venute moltiplicando. Se, da un lato, infatti, la sospensione della leva obbligatoria e la contestuale istituzione del servizio militare professionale su base volontaria (l. n. 331/2000) hanno ridimensionato la portata dell’istituto in parola in questo ambito, dall’altro si assiste ad un rinnovato interesse per il tema nelle materie c.d. eticamente sensibili. Dall’interruzione volontaria della gravidanza alla procreazione medicalmente assistita, dalla regolamentazione delle scelte riguardanti il fine vita al riconoscimento giuridico delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, le richieste di riconoscimento dell’obiezione di coscienza affiorano in tutti i campi in cui si confrontano visioni della persona umana e della sua dignità antitetiche e non facilmente conciliabili. Più in generale, l’obiezione di coscienza è un istituto che presenta, al contempo, carattere conciliativo- poiché mira alla convivenza tra le ragioni della legge e quelle della coscienza- e un elemento di forte conflittualità- se riconosciuto in modo generalizzato o lasciato all’abuso degli aventi diritto, conducendo ad una paralisi dell’ordinamento. Il lavoro di ricerca svolto aspira ad essere un modesto contributo allo studio dell’obiezione di coscienza dalle origini ai nostri giorni. Lo studio si articola in quattro punti fondamentali, ognuno dei quali corrispondenti ad uno dei quattro capitoli.
Il primo capitolo prende avvio dalla delimitazione della nozione di “coscienza” rilevante per lo studio dell’istituto. In particolare, l’analisi è condotta a partire da una rigorosa ricognizione sui significati del termine, a partire da quelli assunti nel pensiero classico e, poi, in quello cristiano. Questa indagine mostra il progressivo affermarsi di un’accezione rilevante del termine ai fini della ricostruzione proposta, vale a dire la coscienza morale. Si passa, poi, ad esaminare la genesi del gesto di obiezione per motivi di coscienza alle leggi positive, connessa al manifestarsi di un concetto soggettivizzato di giustizia e all’affermarsi dell’esistenza di un diritto meta-positivo, qual è il diritto naturale.
Questo excursus culmina nel processo di giuridicizzazione della coscienza. L’emergere di un concetto giuridico di coscienza, nelle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo della fine del Settecento, pone le basi per l’inquadramento della coscienza come bene costituzionalmente rilevante, che si avrà solo nella seconda metà del XX secolo. In tal modo, l’obiezione di coscienza transita da una dimensione metagiuridica e fattuale ad una squisitamente giuridica.
Il secondo capitolo sottopone l’espressione «obiezione di coscienza» ad una progressiva chiarificazione semantica, a causa delle molte indeterminatezze insite nel concetto stesso di obiezione di coscienza. In generale, l’obiezione di coscienza può essere definita come «la pretesa di chi rifiuta in nome della propria coscienza di obbedire ad un precetto giuridico, alla cui osservanza è tenuto in quanto destinatario delle norme di un ordinamento giuridico». «L’ordinamento comanda e la coscienza obietta, dice un suo non possum» . Ciò che viene in rilievo è il concetto di obbligo politico, ovvero il dovere di obbedire alle leggi, proprio di ogni individuo in quanto appartenente ad un ordinamento giuridico. A questo punto, l’analisi procede a tracciare una distinzione concettuale tra l’obiezione di coscienza e due concetti apparentemente limitrofi: la disobbedienza civile e il diritto di resistenza. In particolare, a Passerin d’Entrèves deve essere attribuito il merito di avere decostruito la categoria generale del diritto di resistenza, indagando otto possibili atteggiamenti del cittadino di fronte alla richiesta di ottemperare alla legge; tra questi vi sono, appunto l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile. La difficoltà maggiore consiste proprio nel tracciare una distinzione netta tra queste due figure. Una teoria della disobbedienza civile si deve alla letteratura anglo-americana, che si è preoccupata di individuarne le caratteristiche strutturali al fine di distinguerla da altre forme di disobbedienza. Il contesto europeo è, tuttavia, diverso da quello americano. D’altra parte, l’obiezione di coscienza ha subito una profonda metamorfosi, che ha determinato la sua estensione nelle materie più disparate e la progressiva assunzione dei caratteri propri della disobbedienza civile. Gli elementi tradizionalmente indicati come discretivi tra le due figure sono i seguenti: l’individualità della condotta, tipica dell’obiezione di coscienza, ma che oggi conosce anche forme collettive; il carattere politico della condotta che caratterizza la disobbedienza civile, sebbene non sia escluso che anche l’obiezione sia retta da principi politici laddove si manifesti come contestazione ad una norma in nome di valori che appartengono anche all’ordinamento ; la pubblicità, tipica della disobbedienza civile, ma che appartiene anche all’obiezione; infine, caratteristica comune ad entrambe le figure è la loro natura non violenta. Com’è evidente, queste due forme di disobbedienza sono fortemente imparentate. Un atto di obiezione di coscienza, a seconda di come viene realizzato, diventa indistinguibile da una condotta di disobbedienza civile. Sul piano concettuale, la differenza principale tra le due figure consiste nel carattere eminentemente politico della disobbedienza civile, mentre l’obiezione di coscienza può avere finalità politiche ma non necessariamente. Il disobbediente civile, infatti, rivendica dei principi che appartengono alla comunità politica, l’obiettore, invece, si fa testimone di principi che non sono ancora condivisi; in questo senso, egli assume il ruolo di testimone della Verità.
La trattazione prosegue con la ricostruzione storica del diritto di resistenza, che attiene al problema del rapporto libertà-autorità. Nella ricostruzione della genesi dello scontro tra obbligo giuridico e dovere morale, l’analisi muove dall’emblematico gesto di disobbedienza di Antigone e l’opposto gesto di obbedienza di Socrate. In particolare, l’Antigone di Sofocle, sebbene sia stata spesso interpretata come antesignana dell’obiezione di coscienza, riguarda il diritto di resistenza. Al di là delle varie interpretazioni che sono state date alla tragedia sofoclea, è indubbio che il conflitto tra l’editto di Creonte-legittimo secondo il diritto positivo- e la resistenza di Antigone vada ricondotto al più ampio contrasto tra legislazione scritta e legislazione orale. Al contrario, Socrate, sottoponendosi ad una decisione da lui ritenuta ingiusta, opta per l’azione esattamente opposta a quella di Antigone. Cionondimeno, da un’analisi più approfondita risulta che, come Socrate non riterrà ammissibile trasgredire le leggi della città nel proprio interesse, allo stesso modo Antigone, disobbedendo al bando in nome delle leggi non scritte degli dèi e non per un proprio tornaconto, non si sottrae alla conseguente sanzione; il che equivarrebbe ad uscire dalla polis, ovvero a disconoscere la valenza vincolante del suo ordinamento. Com’è evidente, nell’orizzonte culturale greco non è pensabile un conflitto tra legge e coscienza come lo intendiamo noi oggi, ma solo tra legge e legge.
L’excursus storico prosegue attraverso una breve analisi dello stoicismo, che costituì uno dei filoni principali attraverso i quali il mondo greco e il mondo romano entrarono in contatto. La novità più importante apportata dallo stoicismo consiste nell’elaborazione del diritto di natura contrapposto al diritto positivo degli uomini. Sarà, però, il Cristianesimo a porre il quesito dei limiti dell’obbedienza dovuta dal singolo allo Stato. Siamo di fronte ad una sorte di riconoscimento con “riserva” della legge: alla legge si deve obbedienza ma si deve tenere conto del rapporto con Dio. In caso di contrasto tra questi due doveri, il cristiano ha il dovere di resistere.
In San Tommaso troviamo delineata una compiuta dottrina della resistenza. Egli riprende la duplice figura aristotelica del tiranno a titulo o ab exercitio, consentendo però che l’illegittimità originaria del primo possa sanarsi a seguito di un esercizio del potere conforme a giustizia.
Si ha una progressiva definizione del diritto di resistenza nel contesto degli istituti propri del diritto feudale. Tuttavia, solo nelle teorie dei monarcomachi la dottrina della resistenza trova la sua più completa espressione. In particolare, i monarcomachi recuperano la teoria contrattuale dello Stato e le loro teorie sono ispirate dall’esigenza di tolleranza in un periodo storico attraversato da sanguinose guerre di religione.
Proprio l’idea del contratto che lega il principe al popolo è alla base del pensiero di Locke. Attraverso il contratto sociale, gli individui cedono la propria sovranità, ma senza alienarla completamente; gli uomini, infatti, possono appellarsi al Cielo («appeal to Heaven)», qualora il sovrano non rispetti il contenuto del contratto sociale. Il pensiero di Locke ha influenzato la rivoluzione americana. Il diritto di resistenza compare anche nel contesto rivoluzionario francese. In particolare, nella Dichiarazione del 1793 viene configurandosi un nuovo diritto di resistenza, in quanto viene qualificato non solo come diritto ma anche come dovere quando il governo violi i diritti dell’uomo. Il diritto di resistenza viene, dunque, assorbito nelle forme del diritto costituzionale maturato a seguito delle rivoluzioni di fine Settecento.
L’indagine storica prosegue con il tramonto del diritto di resistenza riconducibile all’affermarsi del formalismo giuridico; viene elaborata, a partire da Kant, una teoria della sovranità che si traduce nella piena adesione ad un modello monolitico e assoluto di sovranità, negando rilievo legittimante ai contenuti della legge e trasferendo la fonte della sua imperatività nella forma. Segue, poi, il trasferimento del diritto di resistenza nelle prassi comunicative dell’opinione pubblica borghese, prima, e nelle prassi oppositive della società civile, dopo.
Con l’ondata costituzionale che si diffonde in Europa a seguito del secondo conflitto mondiale, riaffiora con urgenza il problema di tutelare i diritti e le libertà individuali inseriti nelle Costituzioni, a fronte dell’esercizio arbitrario del potere politico. Gli strumenti di tutela si perfezionano sino a giungere alla forma più sofisticata, costituita dal sindacato di legittimità delle leggi. La nostra Costituzione opta per il mancato riconoscimento espresso del diritto di resistenza, a differenza di altre Costituzioni.
Infine, si giunge ad una riemersione del diritto di resistenza attraverso la valorizzazione del principio di opposizione inteso come vincolo al rispetto delle condizioni del dissenso e alla capacità del conflitto sociale di incidere sui processi di produzione normativa. È evidente, infatti, che nelle attuali democrazie pluralistiche, caratterizzate da un elevato tasso di disomogeneità, riemerge il conflitto tra ragioni del singolo e deliberazione della maggioranza. Il principio di opposizione, unitamente al metodo democratico, può dare luogo a forme costruttive e ragionevoli di resistenza.
Il terzo capitolo segna il passaggio dalla prospettiva filosofico-politica dell’obiezione di coscienza alla sua ricostruzione giuridica. L’obiettivo è quello di individuare gli elementi strutturali dell’istituto, a prescindere dai suoi specifici ambiti di applicazione. In particolare, l’obiezione di coscienza viene ricondotta alla libertà di coscienza attraverso un rapporto di strumentalità, volta a garantire la dimensione positiva della libertà di coscienza come libertà operante in foro externo. In quest’accezione, la libertà di coscienza diviene il diritto a non essere costretti a tenere comportamenti contrari ai dettami della coscienza e il diritto all’obiezione di coscienza ne è efficace strumento di tutela. Viene, dunque, ricostruito il contenuto della libertà di coscienza e i suoi limiti attraverso la giurisprudenza costituzionale. Si passa, poi, ad esaminare la questione circa la possibilità di configurare o meno un diritto generale all’obiezione di coscienza (a seconda di come venga risolta tale questione, assume diverso significato la distinzione tra obiezione secundum legem e obiezione contra legem). La mancata previsione di un diritto all’obiezione di coscienza nella Costituzione ha, infatti dato luogo a diverse posizioni dottrinali: si passa da quella negazionista a quella che configura l’obiezione come un diritto generale direttamente azionabile. Se, da un lato, si avverte la necessità di ricostruire un diritto generale unitario all’obiezione di coscienza, prescindendo dalla discrezionalità legislativa, dall’altro è necessario l’intervento di un soggetto (sia esso legislatore o Corte costituzionale) che operi un bilanciamento, con efficacia erga omnes, tra il diritto a comportarsi secondo coscienza e i contrastanti beni costituzionali. La ricerca prosegue analizzando il bene giuridico tutelato; le modalità della condotta oggetto di obiezione (distinguendo tra obiezione di coscienza positiva e negativa); la distinzione tra obiezione di coscienza ostativa e distributiva (a seconda che si tratti di obiezione che incide sui diritti di soggetti terzi oppure no); la distinzione tra obiezione di coscienza e opzione di coscienza; la gravosità della scelta obiettoria. Dopo avere delineato la logica e la struttura dell’istituto, viene affrontata la delicata questione dei limiti opponibili all’obiezione di coscienza. In particolare, vengono esaminati i limiti costitutivi, i limiti derivanti dai diritti inviolabili e dai doveri inderogabili, i limiti derivanti dallo status professionale; si passa, poi ad esaminare il limite dell’apporto materiale, che consente di individuare le caratteristiche del nesso causale tra la condotta richiesta all’obiettore e l’atto intollerabile alla sua coscienza. Tale nesso deve essere certo, diretto, necessario specifico. Si passa, infine, ad un’analisi puntuale della disciplina normativa italiana prevista per le ipotesi tipiche di obiezione (l'obiezione di coscienza al servizio militare; l'obiezione di coscienza al giuramento; l'obiezione di coscienza alla sperimentazione animale; l'obiezione di coscienza alle tecniche di procreazione medicalmente assistita) e di quelle rivendicate (l'obiezione di coscienza ai trattamenti sanitari).
Il quarto capitolo, da ultimo, è dedicato ad un’analisi approfondita dell’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza. L’aborto è intimamente connesso ad una questione senza risposta definitiva: la determinazione dell’inizio della vita umana e se si è persona umana sin dal concepimento. Il tema non è solo religioso, perché anche la comunità scientifica presenta posizioni diversificate: se è biologicamente certo che una nuova vita individuale inizia potenzialmente nel momento in cui il gamete maschile si fonde con quello femminile dando luogo ad uno zigote, non tutti concordano sul momento in cui questa individualità è compiutamente una persona umana. A chi sostiene che l’embrione è già qualificabile come persona, si contrappone chi ritiene che, per affermarlo, bisogna attendere la formazione di un sistema nervoso, intorno al terzo mese di gestazione. In assenza di una risposta certa ed univoca, inevitabilmente la questione investe scelte di coscienza personale, che la legge n. 194 assume come convinzioni ugualmente degne di tutela. Per questo motivo, quando la legge renda lecita, a certe condizioni, l’interruzione volontaria di gravidanza, provvede altresì a rendere legittima l’astensione del personale sanitario coinvolto che opponga motivi di coscienza alla partecipazione alle tecniche abortive. L’art. 9 della legge n. 194, peraltro, è stato oggetto di molte perplessità interpretative in ordine ai soggetti ai quali dovrebbe essere applicata e alle attività in essa ricompresa. Un dibattito mai sopito e che si è riproposto con l’introduzione, anche nell’ordinamento italiano, di procedure di interruzione chimica (Ru-486). La Cassazione ha specificato l’ambito di applicazione dell’art. 9 rispetto all’aborto farmacologico. Viene, poi, affrontata la questione relativa alle richieste di obiezione rivendicate dai farmacisti al momento della vendita dei contraccettivi d’emergenza (segnatamente, la c.d. «pillola del giorno dopo» e la c.d. «pillola dei cinque giorni dopo»). Inoltre, vengono esaminate le maggiori ragioni ostative all’applicazione della legge n. 194: l’elevato numero di obiettori in questo ambito, l’impossibilità di indagare la sincerità dei convincimenti di coscienza e l’impossibilità di garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale la continuità del servizio. Ci si interroga, infine, sulla fisionomia che assume la soggettività giuridica delle donne sul proprio corpo. La libertà di coscienza non dovrebbe mai pregiudicare il diritto all’autodeterminazione della donna.
Il primo capitolo prende avvio dalla delimitazione della nozione di “coscienza” rilevante per lo studio dell’istituto. In particolare, l’analisi è condotta a partire da una rigorosa ricognizione sui significati del termine, a partire da quelli assunti nel pensiero classico e, poi, in quello cristiano. Questa indagine mostra il progressivo affermarsi di un’accezione rilevante del termine ai fini della ricostruzione proposta, vale a dire la coscienza morale. Si passa, poi, ad esaminare la genesi del gesto di obiezione per motivi di coscienza alle leggi positive, connessa al manifestarsi di un concetto soggettivizzato di giustizia e all’affermarsi dell’esistenza di un diritto meta-positivo, qual è il diritto naturale.
Questo excursus culmina nel processo di giuridicizzazione della coscienza. L’emergere di un concetto giuridico di coscienza, nelle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo della fine del Settecento, pone le basi per l’inquadramento della coscienza come bene costituzionalmente rilevante, che si avrà solo nella seconda metà del XX secolo. In tal modo, l’obiezione di coscienza transita da una dimensione metagiuridica e fattuale ad una squisitamente giuridica.
Il secondo capitolo sottopone l’espressione «obiezione di coscienza» ad una progressiva chiarificazione semantica, a causa delle molte indeterminatezze insite nel concetto stesso di obiezione di coscienza. In generale, l’obiezione di coscienza può essere definita come «la pretesa di chi rifiuta in nome della propria coscienza di obbedire ad un precetto giuridico, alla cui osservanza è tenuto in quanto destinatario delle norme di un ordinamento giuridico». «L’ordinamento comanda e la coscienza obietta, dice un suo non possum» . Ciò che viene in rilievo è il concetto di obbligo politico, ovvero il dovere di obbedire alle leggi, proprio di ogni individuo in quanto appartenente ad un ordinamento giuridico. A questo punto, l’analisi procede a tracciare una distinzione concettuale tra l’obiezione di coscienza e due concetti apparentemente limitrofi: la disobbedienza civile e il diritto di resistenza. In particolare, a Passerin d’Entrèves deve essere attribuito il merito di avere decostruito la categoria generale del diritto di resistenza, indagando otto possibili atteggiamenti del cittadino di fronte alla richiesta di ottemperare alla legge; tra questi vi sono, appunto l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile. La difficoltà maggiore consiste proprio nel tracciare una distinzione netta tra queste due figure. Una teoria della disobbedienza civile si deve alla letteratura anglo-americana, che si è preoccupata di individuarne le caratteristiche strutturali al fine di distinguerla da altre forme di disobbedienza. Il contesto europeo è, tuttavia, diverso da quello americano. D’altra parte, l’obiezione di coscienza ha subito una profonda metamorfosi, che ha determinato la sua estensione nelle materie più disparate e la progressiva assunzione dei caratteri propri della disobbedienza civile. Gli elementi tradizionalmente indicati come discretivi tra le due figure sono i seguenti: l’individualità della condotta, tipica dell’obiezione di coscienza, ma che oggi conosce anche forme collettive; il carattere politico della condotta che caratterizza la disobbedienza civile, sebbene non sia escluso che anche l’obiezione sia retta da principi politici laddove si manifesti come contestazione ad una norma in nome di valori che appartengono anche all’ordinamento ; la pubblicità, tipica della disobbedienza civile, ma che appartiene anche all’obiezione; infine, caratteristica comune ad entrambe le figure è la loro natura non violenta. Com’è evidente, queste due forme di disobbedienza sono fortemente imparentate. Un atto di obiezione di coscienza, a seconda di come viene realizzato, diventa indistinguibile da una condotta di disobbedienza civile. Sul piano concettuale, la differenza principale tra le due figure consiste nel carattere eminentemente politico della disobbedienza civile, mentre l’obiezione di coscienza può avere finalità politiche ma non necessariamente. Il disobbediente civile, infatti, rivendica dei principi che appartengono alla comunità politica, l’obiettore, invece, si fa testimone di principi che non sono ancora condivisi; in questo senso, egli assume il ruolo di testimone della Verità.
La trattazione prosegue con la ricostruzione storica del diritto di resistenza, che attiene al problema del rapporto libertà-autorità. Nella ricostruzione della genesi dello scontro tra obbligo giuridico e dovere morale, l’analisi muove dall’emblematico gesto di disobbedienza di Antigone e l’opposto gesto di obbedienza di Socrate. In particolare, l’Antigone di Sofocle, sebbene sia stata spesso interpretata come antesignana dell’obiezione di coscienza, riguarda il diritto di resistenza. Al di là delle varie interpretazioni che sono state date alla tragedia sofoclea, è indubbio che il conflitto tra l’editto di Creonte-legittimo secondo il diritto positivo- e la resistenza di Antigone vada ricondotto al più ampio contrasto tra legislazione scritta e legislazione orale. Al contrario, Socrate, sottoponendosi ad una decisione da lui ritenuta ingiusta, opta per l’azione esattamente opposta a quella di Antigone. Cionondimeno, da un’analisi più approfondita risulta che, come Socrate non riterrà ammissibile trasgredire le leggi della città nel proprio interesse, allo stesso modo Antigone, disobbedendo al bando in nome delle leggi non scritte degli dèi e non per un proprio tornaconto, non si sottrae alla conseguente sanzione; il che equivarrebbe ad uscire dalla polis, ovvero a disconoscere la valenza vincolante del suo ordinamento. Com’è evidente, nell’orizzonte culturale greco non è pensabile un conflitto tra legge e coscienza come lo intendiamo noi oggi, ma solo tra legge e legge.
L’excursus storico prosegue attraverso una breve analisi dello stoicismo, che costituì uno dei filoni principali attraverso i quali il mondo greco e il mondo romano entrarono in contatto. La novità più importante apportata dallo stoicismo consiste nell’elaborazione del diritto di natura contrapposto al diritto positivo degli uomini. Sarà, però, il Cristianesimo a porre il quesito dei limiti dell’obbedienza dovuta dal singolo allo Stato. Siamo di fronte ad una sorte di riconoscimento con “riserva” della legge: alla legge si deve obbedienza ma si deve tenere conto del rapporto con Dio. In caso di contrasto tra questi due doveri, il cristiano ha il dovere di resistere.
In San Tommaso troviamo delineata una compiuta dottrina della resistenza. Egli riprende la duplice figura aristotelica del tiranno a titulo o ab exercitio, consentendo però che l’illegittimità originaria del primo possa sanarsi a seguito di un esercizio del potere conforme a giustizia.
Si ha una progressiva definizione del diritto di resistenza nel contesto degli istituti propri del diritto feudale. Tuttavia, solo nelle teorie dei monarcomachi la dottrina della resistenza trova la sua più completa espressione. In particolare, i monarcomachi recuperano la teoria contrattuale dello Stato e le loro teorie sono ispirate dall’esigenza di tolleranza in un periodo storico attraversato da sanguinose guerre di religione.
Proprio l’idea del contratto che lega il principe al popolo è alla base del pensiero di Locke. Attraverso il contratto sociale, gli individui cedono la propria sovranità, ma senza alienarla completamente; gli uomini, infatti, possono appellarsi al Cielo («appeal to Heaven)», qualora il sovrano non rispetti il contenuto del contratto sociale. Il pensiero di Locke ha influenzato la rivoluzione americana. Il diritto di resistenza compare anche nel contesto rivoluzionario francese. In particolare, nella Dichiarazione del 1793 viene configurandosi un nuovo diritto di resistenza, in quanto viene qualificato non solo come diritto ma anche come dovere quando il governo violi i diritti dell’uomo. Il diritto di resistenza viene, dunque, assorbito nelle forme del diritto costituzionale maturato a seguito delle rivoluzioni di fine Settecento.
L’indagine storica prosegue con il tramonto del diritto di resistenza riconducibile all’affermarsi del formalismo giuridico; viene elaborata, a partire da Kant, una teoria della sovranità che si traduce nella piena adesione ad un modello monolitico e assoluto di sovranità, negando rilievo legittimante ai contenuti della legge e trasferendo la fonte della sua imperatività nella forma. Segue, poi, il trasferimento del diritto di resistenza nelle prassi comunicative dell’opinione pubblica borghese, prima, e nelle prassi oppositive della società civile, dopo.
Con l’ondata costituzionale che si diffonde in Europa a seguito del secondo conflitto mondiale, riaffiora con urgenza il problema di tutelare i diritti e le libertà individuali inseriti nelle Costituzioni, a fronte dell’esercizio arbitrario del potere politico. Gli strumenti di tutela si perfezionano sino a giungere alla forma più sofisticata, costituita dal sindacato di legittimità delle leggi. La nostra Costituzione opta per il mancato riconoscimento espresso del diritto di resistenza, a differenza di altre Costituzioni.
Infine, si giunge ad una riemersione del diritto di resistenza attraverso la valorizzazione del principio di opposizione inteso come vincolo al rispetto delle condizioni del dissenso e alla capacità del conflitto sociale di incidere sui processi di produzione normativa. È evidente, infatti, che nelle attuali democrazie pluralistiche, caratterizzate da un elevato tasso di disomogeneità, riemerge il conflitto tra ragioni del singolo e deliberazione della maggioranza. Il principio di opposizione, unitamente al metodo democratico, può dare luogo a forme costruttive e ragionevoli di resistenza.
Il terzo capitolo segna il passaggio dalla prospettiva filosofico-politica dell’obiezione di coscienza alla sua ricostruzione giuridica. L’obiettivo è quello di individuare gli elementi strutturali dell’istituto, a prescindere dai suoi specifici ambiti di applicazione. In particolare, l’obiezione di coscienza viene ricondotta alla libertà di coscienza attraverso un rapporto di strumentalità, volta a garantire la dimensione positiva della libertà di coscienza come libertà operante in foro externo. In quest’accezione, la libertà di coscienza diviene il diritto a non essere costretti a tenere comportamenti contrari ai dettami della coscienza e il diritto all’obiezione di coscienza ne è efficace strumento di tutela. Viene, dunque, ricostruito il contenuto della libertà di coscienza e i suoi limiti attraverso la giurisprudenza costituzionale. Si passa, poi, ad esaminare la questione circa la possibilità di configurare o meno un diritto generale all’obiezione di coscienza (a seconda di come venga risolta tale questione, assume diverso significato la distinzione tra obiezione secundum legem e obiezione contra legem). La mancata previsione di un diritto all’obiezione di coscienza nella Costituzione ha, infatti dato luogo a diverse posizioni dottrinali: si passa da quella negazionista a quella che configura l’obiezione come un diritto generale direttamente azionabile. Se, da un lato, si avverte la necessità di ricostruire un diritto generale unitario all’obiezione di coscienza, prescindendo dalla discrezionalità legislativa, dall’altro è necessario l’intervento di un soggetto (sia esso legislatore o Corte costituzionale) che operi un bilanciamento, con efficacia erga omnes, tra il diritto a comportarsi secondo coscienza e i contrastanti beni costituzionali. La ricerca prosegue analizzando il bene giuridico tutelato; le modalità della condotta oggetto di obiezione (distinguendo tra obiezione di coscienza positiva e negativa); la distinzione tra obiezione di coscienza ostativa e distributiva (a seconda che si tratti di obiezione che incide sui diritti di soggetti terzi oppure no); la distinzione tra obiezione di coscienza e opzione di coscienza; la gravosità della scelta obiettoria. Dopo avere delineato la logica e la struttura dell’istituto, viene affrontata la delicata questione dei limiti opponibili all’obiezione di coscienza. In particolare, vengono esaminati i limiti costitutivi, i limiti derivanti dai diritti inviolabili e dai doveri inderogabili, i limiti derivanti dallo status professionale; si passa, poi ad esaminare il limite dell’apporto materiale, che consente di individuare le caratteristiche del nesso causale tra la condotta richiesta all’obiettore e l’atto intollerabile alla sua coscienza. Tale nesso deve essere certo, diretto, necessario specifico. Si passa, infine, ad un’analisi puntuale della disciplina normativa italiana prevista per le ipotesi tipiche di obiezione (l'obiezione di coscienza al servizio militare; l'obiezione di coscienza al giuramento; l'obiezione di coscienza alla sperimentazione animale; l'obiezione di coscienza alle tecniche di procreazione medicalmente assistita) e di quelle rivendicate (l'obiezione di coscienza ai trattamenti sanitari).
Il quarto capitolo, da ultimo, è dedicato ad un’analisi approfondita dell’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza. L’aborto è intimamente connesso ad una questione senza risposta definitiva: la determinazione dell’inizio della vita umana e se si è persona umana sin dal concepimento. Il tema non è solo religioso, perché anche la comunità scientifica presenta posizioni diversificate: se è biologicamente certo che una nuova vita individuale inizia potenzialmente nel momento in cui il gamete maschile si fonde con quello femminile dando luogo ad uno zigote, non tutti concordano sul momento in cui questa individualità è compiutamente una persona umana. A chi sostiene che l’embrione è già qualificabile come persona, si contrappone chi ritiene che, per affermarlo, bisogna attendere la formazione di un sistema nervoso, intorno al terzo mese di gestazione. In assenza di una risposta certa ed univoca, inevitabilmente la questione investe scelte di coscienza personale, che la legge n. 194 assume come convinzioni ugualmente degne di tutela. Per questo motivo, quando la legge renda lecita, a certe condizioni, l’interruzione volontaria di gravidanza, provvede altresì a rendere legittima l’astensione del personale sanitario coinvolto che opponga motivi di coscienza alla partecipazione alle tecniche abortive. L’art. 9 della legge n. 194, peraltro, è stato oggetto di molte perplessità interpretative in ordine ai soggetti ai quali dovrebbe essere applicata e alle attività in essa ricompresa. Un dibattito mai sopito e che si è riproposto con l’introduzione, anche nell’ordinamento italiano, di procedure di interruzione chimica (Ru-486). La Cassazione ha specificato l’ambito di applicazione dell’art. 9 rispetto all’aborto farmacologico. Viene, poi, affrontata la questione relativa alle richieste di obiezione rivendicate dai farmacisti al momento della vendita dei contraccettivi d’emergenza (segnatamente, la c.d. «pillola del giorno dopo» e la c.d. «pillola dei cinque giorni dopo»). Inoltre, vengono esaminate le maggiori ragioni ostative all’applicazione della legge n. 194: l’elevato numero di obiettori in questo ambito, l’impossibilità di indagare la sincerità dei convincimenti di coscienza e l’impossibilità di garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale la continuità del servizio. Ci si interroga, infine, sulla fisionomia che assume la soggettività giuridica delle donne sul proprio corpo. La libertà di coscienza non dovrebbe mai pregiudicare il diritto all’autodeterminazione della donna.
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