Tesi etd-09192019-162215 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
DEI, VALERIA
URN
etd-09192019-162215
Titolo
L’identité juive inassimilable: récits singuliers d’ascension sociale au XXe siècle. Irène Némirovsky, Albert Cohen et Joseph Roth
Settore scientifico disciplinare
L-FIL-LET/14
Corso di studi
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Relatori
tutor Prof. Brugnolo, Stefano
tutor Prof.ssa Matheron, Carole
tutor Prof.ssa Matheron, Carole
Parole chiave
- Albert Cohen
- assimilazione ebraica
- borghesia
- Irène Némirovsky
- Joseph Roth
- paria
- parvenu
- romanzo francese di ascesa sociale
Data inizio appello
04/10/2019
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
04/10/2022
Riassunto
Questa tesi si propone di analizzare la rappresentazione della condizione ebraica nell’opera di tre scrittori ebrei del XX secolo. I due autori cardine sono Irène Némirovsky (1903-1942) e Albert Cohen (1895-1981), che operano in ambito francese, entrambi a partire dagli anni Trenta del Novecento, ma il mio interesse si rivolge, seppure in misura minore, anche a Joseph Roth (1894-1939). Pienamente consapevole del ruolo fondamentale giocato dall’identità degli scrittori, non mi focalizzo sull’aspetto biografico e storico, ma piuttosto su quello tematico, esplorando il tema di quella che ho definito come una diversità non del tutto assimilata che aspira a integrarsi, o meglio di una diversità non del tutto assimilata che aspira a integrarsi onorevolmente e dignitosamente ma anche dispera che ciò sia possibile, di cui l’ebreo nel Novecento può essere considerato il rappresentante più emblematico. Il corpus di testi prescelto, infatti, vede quasi sempre come protagonisti figure di ebrei che hanno abbandonato il loro mondo di origine e hanno tentato di integrarsi nella società borghese, senza mai davvero riuscirci e restando così perennemente in bilico tra assimilazione e non-assimilazione. Ora, nonostante la diversità e l’assimilazione ebraica siano tematiche molto specifiche e ci facciano anche entrare in contatto con un mondo e una cultura particolari, le opere prese in esame, a mio avviso, non si presentano come la mera reificazione di tale specifica e determinata realtà. La mia ipotesi è dunque che gli scrittori di cui mi occupo, abbiano trattato la materia ebraica, scegliendo di valorizzare certi tratti piuttosto che altri, in modo da trasformarla nel paradigma di situazioni di interesse universale, più generalmente umano.
Punto di partenza del mio discorso sono i due concetti di paria e parvenu, elaborati da Hannah Arendt in una prospettiva storico-sociologica, ma che traspongo su un piano letterario. Intendendo con ebreo parvenu colui che si è distaccato dalla sua condizione di paria per compiere un percorso di ascesa sociale, possiamo stabilire un'interessante analogia tra le dinamiche dell'assimilazione ebraica e i meccanismi di assimilazione, integrazione e parvenir, che contraddistinguono le società democratiche moderne (potenzialmente aperte a tutti). In questo senso, il parvenir degli ebrei diventa una delle tante possibilità del parvenir sociale che ha caratterizzato l’ascesa della borghesia. Questo accostamento tra condizione ebraica e condizione borghese porta a individuare nel romanzo francese di ascesa sociale del XIX secolo un possibile modello per i romanzi del mio corpus, permettendo peraltro di inserire il tema della diversità non del tutto assimilata all’interno di un discorso più ampio di genere testuale. Attraverso il confronto con i testi della tradizione, su una linea che va da Balzac fino a Proust, l’intento è quindi quello di mostrare come le opere degli autori oggetto di questa ricerca siano un’originale declinazione del romanzo di derivazione ottocentesca, e ci svelino le aporie dell’integrazione e le illusioni di uguaglianza sociale su cui si fonda l’intera società borghese moderna.
Sia nelle rappresentazioni del parvenir ebraico dei miei scrittori che in quelle del parvenir borghese degli scrittori del XIX secolo entra in gioco una dialettica guadagno/perdita: il tentativo di assimilazione/ascesa sociale che dovrebbe rappresentare un progresso, appunto un possibile guadagno, si compie sempre al prezzo di una rinuncia, rinuncia al proprio passato, alla propria umanità, moralità e autenticità (« Vero Sé », D. Winnicott 1974). Nel caso dei parvenus ebrei, però, il momento della rinuncia si carica di un pathos maggiore, poiché, diversamente da quanto avviene nei romanzi ottocenteschi, essi non possono e non vogliono dimenticarsi del proprio passato, delle loro origini. Ragione per cui se il parvenu balzachiano è tutto proteso in avanti verso il gran mondo parigino, con i personaggi ebrei del mio corpus lo slancio in avanti si accompagna sempre a uno sguardo nostalgico verso quel passato che sono stati costretti ad abbandonare, rifiutare e tradire per assimilarsi. Per comprendere meglio questo sguardo all’indietro ho scelto di fare riferimento ad altri testi di alcuni scrittori ebrei, tra cui risalta il nome dello scrittore yiddish Israel Joshua Singer. Questo gruppo ristretto di romanzi, che vanno a formare una sorta di sottocorpus, nonostante mettano in scena dei tentativi fallimentari di assimilazione, ci mostrano dei parvenus che si sono distaccati dal proprio universo di origine, ma continuano a restare vincolati a esso. I parvenus descritti dai miei autori, invece, pur non potendo mai dimenticarsi dell’universo da cui provengono, ne sono comunque fuori.
Fuori dal mondo delle origini, ma anche fuori dal mondo in cui hanno tentato di assimilarsi, in cui hanno tentato di essere inclusi. Le storie di Némirovsky, Cohen e Roth ci mostrano che nel momento in cui finalmente si è riusciti – o meglio : si è creduto di essere riusciti - a integrarsi, all’improvviso ci si rende conto che in questo processo di assimilazione c’è qualcosa che non funziona, che la promessa di uguaglianza universale offerta dalla modernità, in cui si è creduto e per la quale si è rinunciato, è in realtà una promessa mancata.
Concentrandomi dunque sulla dialettica guadagno/perdita più che mai intrinseca al « parvenir » ebraico, anche se caratteristica di tante altre dinamiche di assimilazione tipiche delle società moderne, si arriva a mostrare come la grande promessa di uguaglianza universale alla base del progetto illuminista e democratico sia andata incontro a insuccessi e fallimenti (cf. H. Mayer, I diversi, 1977). In molti casi, infatti, questa società teoricamente aperta a tutti ha mostrato fastidio e anche repulsione verso l’identità e si direbbe la natura immodificabile di alcuni. É come se a un certo punto fossero scattati dei meccanismi che hanno portato a fare di questi outsiders - di cui il popolo ebraico è appunto il rappresentante più emblematico -, i capri espiatori delle contraddizioni che sempre agitano le società cosiddette democratiche. I grandi processi di uguaglianza hanno cambiato natura e sono diventati processi di omologazione e conformismo. In questa società di uguali, in realtà attraversata da crescenti conflitti, competizioni, insoddisfazioni c’è sempre in agguato il bisogno di incolpare qualcun altro per queste insoddisfazioni, c’è insomma sempre bisogno di un diverso di cui sospettare. Per una serie di motivi storici l’ebreo ha incarnato questa figura: a lui viene continuamente richiesto di rinunciare alla sua diversità, di abiurare la sua identità, di rinnegare la sua appartenenza, quella presunta differenza radicale di cui sempre e comunque si diffida, anche, se non soprattutto, quando quello ha dichiarato la sua (sospetta) volontà di integrarsi.
L’assimilazione, ovvero il «diventare come gli altri» (e gli altri sarebbero non solo i gentili, bensì i “normali”, e cioè tutti coloro da cui vogliamo essere approvati, accettati), corrisponde dunque a una falsa o mancata assimilazione sia perché i gentili/gli altri in realtà diffidano di te e possono sempre respingerti, sia perché essa comporta una perdita di qualcosa, appunto una rinuncia alla propria integrità, a una propria «vera natura». Se nel primo caso l’accusa di questo fallimento viene rivolta direttamente ai gentili, la seconda contraddizione è in realtà il risultato di una reazione interna da parte dell’ebreo stesso che rivendica la sua appartenenza originaria, o comunque prova nostalgia per essa, appartenenza originaria, da intendersi, però, non tanto e solo come ebraica con il suo portato di valori, ma piuttosto come la propria irriducibile umanità. Detto altrimenti, si tratta di una «sostanza originaria» che chiunque voglia cambiare ambiente o classe sociale, nel bene e nel male, si vede spesso costretto a perdere. L’ebreo che ci raccontano questi scrittori, nel suo tentativo spesso frustrato di assimilazione, ma anche nella sua resistenza a tale assimilazione, è quindi più che mai il prototipo di una condizione più generale: Irène Némirovsky, Albert Cohen e Joseph Roth non sono scrittori ebrei che parlano di ebrei rivolgendosi a ebrei, bensì si rivolgono a tutti perché nei destini dei loro personaggi esplorano fondamentali dinamiche dell’umanità moderna.
Punto di partenza del mio discorso sono i due concetti di paria e parvenu, elaborati da Hannah Arendt in una prospettiva storico-sociologica, ma che traspongo su un piano letterario. Intendendo con ebreo parvenu colui che si è distaccato dalla sua condizione di paria per compiere un percorso di ascesa sociale, possiamo stabilire un'interessante analogia tra le dinamiche dell'assimilazione ebraica e i meccanismi di assimilazione, integrazione e parvenir, che contraddistinguono le società democratiche moderne (potenzialmente aperte a tutti). In questo senso, il parvenir degli ebrei diventa una delle tante possibilità del parvenir sociale che ha caratterizzato l’ascesa della borghesia. Questo accostamento tra condizione ebraica e condizione borghese porta a individuare nel romanzo francese di ascesa sociale del XIX secolo un possibile modello per i romanzi del mio corpus, permettendo peraltro di inserire il tema della diversità non del tutto assimilata all’interno di un discorso più ampio di genere testuale. Attraverso il confronto con i testi della tradizione, su una linea che va da Balzac fino a Proust, l’intento è quindi quello di mostrare come le opere degli autori oggetto di questa ricerca siano un’originale declinazione del romanzo di derivazione ottocentesca, e ci svelino le aporie dell’integrazione e le illusioni di uguaglianza sociale su cui si fonda l’intera società borghese moderna.
Sia nelle rappresentazioni del parvenir ebraico dei miei scrittori che in quelle del parvenir borghese degli scrittori del XIX secolo entra in gioco una dialettica guadagno/perdita: il tentativo di assimilazione/ascesa sociale che dovrebbe rappresentare un progresso, appunto un possibile guadagno, si compie sempre al prezzo di una rinuncia, rinuncia al proprio passato, alla propria umanità, moralità e autenticità (« Vero Sé », D. Winnicott 1974). Nel caso dei parvenus ebrei, però, il momento della rinuncia si carica di un pathos maggiore, poiché, diversamente da quanto avviene nei romanzi ottocenteschi, essi non possono e non vogliono dimenticarsi del proprio passato, delle loro origini. Ragione per cui se il parvenu balzachiano è tutto proteso in avanti verso il gran mondo parigino, con i personaggi ebrei del mio corpus lo slancio in avanti si accompagna sempre a uno sguardo nostalgico verso quel passato che sono stati costretti ad abbandonare, rifiutare e tradire per assimilarsi. Per comprendere meglio questo sguardo all’indietro ho scelto di fare riferimento ad altri testi di alcuni scrittori ebrei, tra cui risalta il nome dello scrittore yiddish Israel Joshua Singer. Questo gruppo ristretto di romanzi, che vanno a formare una sorta di sottocorpus, nonostante mettano in scena dei tentativi fallimentari di assimilazione, ci mostrano dei parvenus che si sono distaccati dal proprio universo di origine, ma continuano a restare vincolati a esso. I parvenus descritti dai miei autori, invece, pur non potendo mai dimenticarsi dell’universo da cui provengono, ne sono comunque fuori.
Fuori dal mondo delle origini, ma anche fuori dal mondo in cui hanno tentato di assimilarsi, in cui hanno tentato di essere inclusi. Le storie di Némirovsky, Cohen e Roth ci mostrano che nel momento in cui finalmente si è riusciti – o meglio : si è creduto di essere riusciti - a integrarsi, all’improvviso ci si rende conto che in questo processo di assimilazione c’è qualcosa che non funziona, che la promessa di uguaglianza universale offerta dalla modernità, in cui si è creduto e per la quale si è rinunciato, è in realtà una promessa mancata.
Concentrandomi dunque sulla dialettica guadagno/perdita più che mai intrinseca al « parvenir » ebraico, anche se caratteristica di tante altre dinamiche di assimilazione tipiche delle società moderne, si arriva a mostrare come la grande promessa di uguaglianza universale alla base del progetto illuminista e democratico sia andata incontro a insuccessi e fallimenti (cf. H. Mayer, I diversi, 1977). In molti casi, infatti, questa società teoricamente aperta a tutti ha mostrato fastidio e anche repulsione verso l’identità e si direbbe la natura immodificabile di alcuni. É come se a un certo punto fossero scattati dei meccanismi che hanno portato a fare di questi outsiders - di cui il popolo ebraico è appunto il rappresentante più emblematico -, i capri espiatori delle contraddizioni che sempre agitano le società cosiddette democratiche. I grandi processi di uguaglianza hanno cambiato natura e sono diventati processi di omologazione e conformismo. In questa società di uguali, in realtà attraversata da crescenti conflitti, competizioni, insoddisfazioni c’è sempre in agguato il bisogno di incolpare qualcun altro per queste insoddisfazioni, c’è insomma sempre bisogno di un diverso di cui sospettare. Per una serie di motivi storici l’ebreo ha incarnato questa figura: a lui viene continuamente richiesto di rinunciare alla sua diversità, di abiurare la sua identità, di rinnegare la sua appartenenza, quella presunta differenza radicale di cui sempre e comunque si diffida, anche, se non soprattutto, quando quello ha dichiarato la sua (sospetta) volontà di integrarsi.
L’assimilazione, ovvero il «diventare come gli altri» (e gli altri sarebbero non solo i gentili, bensì i “normali”, e cioè tutti coloro da cui vogliamo essere approvati, accettati), corrisponde dunque a una falsa o mancata assimilazione sia perché i gentili/gli altri in realtà diffidano di te e possono sempre respingerti, sia perché essa comporta una perdita di qualcosa, appunto una rinuncia alla propria integrità, a una propria «vera natura». Se nel primo caso l’accusa di questo fallimento viene rivolta direttamente ai gentili, la seconda contraddizione è in realtà il risultato di una reazione interna da parte dell’ebreo stesso che rivendica la sua appartenenza originaria, o comunque prova nostalgia per essa, appartenenza originaria, da intendersi, però, non tanto e solo come ebraica con il suo portato di valori, ma piuttosto come la propria irriducibile umanità. Detto altrimenti, si tratta di una «sostanza originaria» che chiunque voglia cambiare ambiente o classe sociale, nel bene e nel male, si vede spesso costretto a perdere. L’ebreo che ci raccontano questi scrittori, nel suo tentativo spesso frustrato di assimilazione, ma anche nella sua resistenza a tale assimilazione, è quindi più che mai il prototipo di una condizione più generale: Irène Némirovsky, Albert Cohen e Joseph Roth non sono scrittori ebrei che parlano di ebrei rivolgendosi a ebrei, bensì si rivolgono a tutti perché nei destini dei loro personaggi esplorano fondamentali dinamiche dell’umanità moderna.
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