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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-02042014-182759


Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica LC6
Autore
LEPORE, LORENZA
URN
etd-02042014-182759
Titolo
Epatite autoimmune del bambino:evoluzione a lungo termine
Dipartimento
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Prof. Maggiore, Giuseppe
Parole chiave
  • epatite autoimmune
Data inizio appello
25/02/2014
Consultabilità
Completa
Riassunto
L’epatite autoimmune è una patologia infiammatoria cronica del fegato, prevalente nel sesso femminile. È una malattia progressiva che, se non adeguatamente trattata, evolve inesorabilmente verso un danno irreversibile del parenchima epatico ed è gravata, per questo, da un’elevata morbilità e mortalità. L’epatite autoimmune è caratterizzata dalla presenza di uno specifico pattern autoanticorpale sulla base del quale si distinguono due sottotipi di malattia: epatite autoimmune di tipo 1 e di tipo 2. Il tipo 1 è caratterizzato dalla presenza di anticorpi anti-nucleo (ANA) e/o anti-muscolo liscio (SMA); può presentarsi a tutte le età, ma mostra due picchi di incidenza, il primo in età puberale ed il secondo dopo i trent’anni. Il tipo 2 è caratterizzato dalla presenza di anticorpi anti-microsoma di fegato e rene di tipo 1 (anti-LKM 1) e/o anti-citosol epatico di tipo 1 (anti-LC 1) ed esordisce prevalentemente in età pediatrica.
La diagnosi si fonda su un insieme di elementi clinici, bioumorali e sul riscontro del tipico quadro istologico di epatite d’interfaccia con massiccia infiltrazione portale di elementi mononucleati e plasmacellule. Il trattamento convenzionale si basa sull’uso di dosi elevate di prednisone associate o meno ad azatioprina; l’unica alternativa concreta alle alte dosi di steroide è rappresentata dalla ciclosporina. Una volta raggiunta la remissione clinica e bioumorale, la terapia è progressivamente ridotta fino al raggiungimento della dose minima necessaria a evitare le recidive. La durata ottimale del trattamento non è conosciuta, tuttavia la terapia immunosoppressiva è protratta per almeno a cinque anni dall’induzione della remissione prima di tentare una sospensione. D’altra parte, il rischio di recidiva è presente in ogni fase della malattia, anche in assenza di fattori scatenanti, pur essendo maggiore in caso di una durata di trattamento inferiore ai 2 anni ed in caso di inadeguata aderenza al trattamento.
La prognosi a lungo termine dell’epatite autoimmune diagnosticata in età pediatrica è ancora poco nota. In letteratura sono ad oggi riportati 4 studi sull’outcome a lungo termine delle epatiti autoimmuni diagnosticate in età pediatrica: dopo un follow-up variabile dai 4,8 ai 10 anni, la sopravvivenza globale dei pazienti in terapia immunosoppressiva supera l’80%.
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di raccogliere e analizzare i dati della sorveglianza a lungo termine dei pazienti con epatite autoimmune afferenti presso l’Unità Operativa di Epatologia e Gastroenterologia Pediatrica di Pisa, con un follow-up minimo di 5 anni, per descriverne e valutarne l’evoluzione. Nei 23 pazienti arruolati la diagnosi di epatite autoimmune è stata effettuata all’età mediana di 7,1 anni (range 1,3-14,8 anni) ed il follow-up mediano è stato di 12,7 anni (range 5,8-24,1 anni), il più lungo follow-up descritto in letteratura. Dopo l’inizio del trattamento tutti i pazienti hanno raggiunto la remissione clinica e bioumorale dopo un periodo mediano di 8 settimane (range 4-35,9 settimane) senza differenze temporali statisticamente significative nell’EAI-1 e EAI-2. Sette pazienti (30%) non hanno mai presentato recidive in corso di terapia immunosoppressiva; sedici pazienti (70%) hanno presentato una o più recidive durante il trattamento. L’analisi dei fattori predittivi di recidiva ha evidenziato il PT come parametro statisticamente significativo, seppure l’analisi di regressione multivariata sul dato non ha raggiunto la significatività statistica. I pazienti affetti, inoltre, da patologie autoimmuni extraepatiche, presentavano un maggior rischio,statisticamente significativo, di presentare una o più recidive rispetto ai pazienti senza patologie autoimmuni associate. Nel 31% dei casi le recidive sono state attribuibili a una scarsa aderenza al trattamento immunosoppressivo. La probabilità di recidiva nei primi 5 anni di terapia è risultata del 45%, indicando la necessità di una terapia prolungata.
Al termine del follow-up, tutti i pazienti sono viventi, l’età mediana è di 22,8 anni, 22 dei 23 pazienti con fegato nativo (96%). La sospensione del trattamento immunosoppressivo è stata possibile in 2 pazienti (8%; 1 EAI-1, 1 EAI-2) rispettivamente fuori terapia da 10 e 74 mesi. Venti pazienti (87%; 9 EAI-1; 11 EAI-2) al termine del periodo di osservazione sono ancora in terapia immunosoppressiva con remissione clinica e bioumorale. Cinque di questi pazienti (22%; 2 EAI-1; 3 EAI-2) presentano un outcome positivo, definito come una remissione clinica e bioumorale persistente da almeno 3 anni in corso di monoterapia.
In un solo caso di EAI-2 (4%), la malattia è progredita determinando un’insufficienza epatocellulare e manifestando le complicanze di un’ipertensione portale tale da rendere necessario un trapianto di fegato all’età di 26,8 anni, dopo 13,7 di terapia.
Effetti avversi severi del trattamento immunosoppressivo sono stati riportati in 4 pazienti (17%), tutti attribuibili all’utilizzo di dosi elevate di steroide per periodi protratti.
La valutazione dell’evoluzione a lungo termine dell’epatite autoimmune di tipo 1 e 2 diagnosticata in età pediatrica ha evidenziato che un adeguato trattamento immunosoppressivo è associato con una sopravvivenza a lungo termine con il fegato nativo nella quasi totalità dei pazienti. L’inizio tempestivo del trattamento, l'identificazione precoce dei pazienti ad esordio più severo, scarsamente responsivi con malattie autoimmuni extraepatiche associate ed il controllo assiduo dell’aderenza alla terapia immunosoppressiva sono fattori essenziali per limitare l'incidenza delle recidive e quindi la progressione della malattia e delle sue complicanze tardive. Il PT all’esordio della malattia rappresenta un fattore prognostico per l’outcome della malattia.
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