Tesi etd-11282012-011827 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea vecchio ordinamento
Autore
DI SUMMA, POMPEA
URN
etd-11282012-011827
Titolo
MINORE ETA' E RESPONSABILITA' CIVILE
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Giardina, Francesca
Parole chiave
- incapacità naturale
- minore età
- responsabilità civile
Data inizio appello
18/12/2012
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
18/12/2052
Riassunto
1.Si afferma da tempo che le norme che regolano l’illecito civile del minore (artt. 2047 e 2048 c.c. nonché indirettamente l’art. 2046 c.c.) operano oggi in una realtà profondamente mutata rispetto a quella in cui furono elaborate.
E ciò con riferimento sia alla realtà normativa che alla realtà sociale.
Nel codice del 1865 e in quello del 1942, nella sua versione originaria, il rapporto tra i genitori e la prole era infatti caratterizzato da una posizione di soggezione dei figli rispetto al pater. In altri termini, la legislazione rifletteva una concezione gerarchica ed autoritaria della famiglia e la prole aveva l’obbligo di «onorare e rispettare» il padre e la madre. I tempi ed i luoghi dedicati ai minori
erano fortemente limitati (abitazione familiare, scuola, parentado); i loro spazi di autonomia erano sottoposti alla rigida disciplina del padre; i mezzi di comunicazione e le strutture educative, sia scolastiche che sportive, non avevano il ruolo odierno.
Pertanto, l’illecito commesso dal minore poteva essere considerato come direttamente ascrivibile all’inosservanza, da parte dei genitori (o meglio, del padre), dei doveri di educazione e di controllo dei figli.
Ai vasti poteri genitoriali non poteva non corrispondere la responsabilità per il fatto illecito del minore considerato come conseguenza del mancato esercizio dei medesimi.
L’entrata in vigore della Carta Costituzionale, prima, e della riforma del diritto di famiglia, poi, hanno fortemente mutato il quadro normativo: i figli sono considerati dei soggetti a pieno titolo, ai quali il legislatore riconosce spazi di autonomia e di libertà al fine di uno sviluppo completo ed armonico della personalità.
I genitori, a loro volta, hanno l’obbligo di istruirli ed educarli secondo
le loro inclinazioni e le loro capacità naturali (art. 147 c.c.).
In altri termini la responsabilità genitoriale è un munus strettamente
connesso ai diritti dei figli; i poteri limitativi attribuiti ai genitori si giustificano in quanto volti alla corretta educazione dei figli, a loro volta non meri recettori passivi ma portatori di diritti, facoltà e abilità propri, da promuovere e comunque rispettare.
In particolare l’art. 147 c.c. novellato dalla riforma del diritto di famiglia è l’architrave dei nuovi rapporti familiari; esso pone l’obbligo di educare tenendo conto delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni del minore; di conseguenza il potere discrezionale dei genitori sui figli va progressivamente riducendosi in rapporto al progressivo accrescersi della loro autonomia e del peso della loro volontà.
Pertanto, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e della riforma del diritto di famiglia, appare evidente la necessità di interpretare più “elasticamente” l’art. 2048 c.c. e più in generale di attualizzare l’interpretazione delle previsioni in tema di illecito del minore.
Il contenzioso esistente in materia di illeciti dei minori è invece notevolmente diffuso e ha assunto connotazioni ed occasioni nuove in conseguenza di fenomeni nuovi (si pensi ai casi di bullismo scolastico e non, all’uso di internet e dei cellulari, all’uso e alla diffusione dei social networks).
Proprio tale diffusione rende importante l’esame della (non sempre univoca) giurisprudenza in materia.
2. Il sistema di tutela giurisdizionale risarcitoria per danni recati da un minore di età è alquanto complesso e dipende da molteplici variabili.
La prima variabile fondamentale è data dall’imputabilità o meno del minore autore del fatto.
Infatti, a differenza di quanto prevede in materia il codice penale, che sancisce l’incapacità legale del minore che non abbia compiuto i 14 anni (art. 97 c.p.), il codice civile non prevede un’esenzione legale d’imputabilità per i minori al di sotto di una certa età; si applica cioè la previsione generale dell’art. 2046 c.c. che prevede che <<Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non
aveva la capacità d'intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa>>.
L’ art. 2046 c.c. rappresenta nella materia dell’ illecito civile la novità introdotta dal legislatore del 1942 e costituisce in sostanza la regola di irresponsabilità del soggetto incapace di intendere e di volere.
Secondo una interpretazione assolutamente pacifica la capacità di intendere e di volere consiste nell’ attitudine a valutare adeguatamente il valore sociale dell’ atto concreto che si compie; la capacità di volere nella facoltà di determinarsi in modo autonomo, più che in funzione dei soli impulsi.
Dunque in sede civile, a differenza di quanto accade in ambito penale, per stabilire l’ imputabilità dell’ autore materiale del fatto, è necessaria un ‘ indagine relativa alle circostanze soggettive ed oggettive del caso specifico.
L’ accertamento della capacità di intendere e di volere avviene sempre in relazione al caso concreto, al momento in cui il comportamento si è verificato e al tipo di condotta che viene in considerazione.
3.L’ art. 2047 c.c. pone una serie complessa di questioni interpretative: in particolare una attiene alla valutazione del fatto dell’ incapace che costituisce il presupposto di applicabilità del primo e secondo comma della disposizione.
La giurisprudenza, considerando il tenore letterale della norma e il fatto che l’ imputabilità è elemento costitutivo del giudizio di imputabilità, esclude che il fatto dell‘ incapace possa essere qualificato come illecito ritenendo invece che si tratti di fatto causativo di un danno ingiusto.
Alcuni Autori, sulla base di una nozione di colpa in senso oggettivo, ritengono di poter qualificare il fatto dell’ incapace in termini di colpevolezza, per evitare la paradossale conseguenza che la vittima abbia diritto al risarcimento anche per danni che sarebbero rimasti a suo carico perché derivanti da un comportamento oggettivamente incolpevole se a causarli fosse stato un soggetto capace.
Un’ altra questione attiene all’ inquadramento sistematico della responsabilità del sorvegliante.
Secondo la giurisprudenza costante l’ art. 2047 c.c. rappresenta un’ ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole fondata su una presunzione juris tantum di culpa in vigilando, che sussiste fino all’ eventualità che sia offerta, da parte del sorvegliante, la prova liberatoria.
La dottrina invece è divisa tra chi propende per la soluzione tradizionale della responsabilità per colpa e chi ritiene si tratti di una ipotesi di responsabilità tendenzialmente oggettiva.
Nel primo caso viene privilegiato il profilo della diligenza nell’ adempimento di un dovere, nel secondo quello di garanzia nei confronti dei terzi,e la responsabilità è imputata sulla base della qualità personale del convenuto e quindi in ragione della relazione intercorrente tra quest’ ultimo e l’ autore materiale del fatto.
Secondo l’ opinione tradizionale solo la legge o il contratto potevano attribuire la qualifica di sorvegliante, oggi invece, la giurisprudenza più recente ha ampliato la sfera di responsabilità ex art. 2047, comma 1, c.c., riconoscendo che << il dovere di sorveglianza può sorgere anche dalla libera scelta di un soggetto di accogliere l’ incapace nella sua sfera personale o familiare>>, quindi sulla base di un semplice affidamento, in assenza di un vincolo formale tra il responsabile ex lege e il danneggiante.
L’art. 2047, comma 2,c.c. prevede, nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da parte del soggetto tenuto alla sorveglianza, la possibilità che il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, condanni l’ autore del danno a corrispondere un’ equa indennità.
Si tratta di una norma di scarsa applicazione giurisprudenziale.
Ciò che risulta con certezza dal dato normativo è la sussidiarietà dell’ indennizzo a carico dell’ incapace rispetto all’ obbligazione risarcitoria del sorvegliante e la sua opportunità in ordine all’ an e al quantum, rimessa alla valutazione equitativa del giudice.
4. L’art. 2048 c.c. disciplina la responsabilità dei genitori per danno cagionato da fatto illecito posto in essere dal figlio minore non emancipato e con essi coabitante; la responsabilità non sussiste quando i genitori provino di “non aver potuto impedire il fatto”.
Sui genitori, per superare la presunzione posta a loro carico dall’art. 2048, ricade una prova liberatoria particolarmente severa, poiché essi devono provare sia di aver impartito un’adeguata istruzione ed educazione che di aver vigilato sui risultati dell’educazione.
Dunque la posizione del genitore nei riguardi del figlio capace di intendere e di volere è ritenuta dalla giurisprudenza più gravosa rispetto a quella del sorvegliante, in quanto il minore capace deve essere, non soltanto vigilato ma, anche e soprattutto, educato.
L’ estensione della prova liberatoria è condizionata dalla maggiore ampiezza degli obblighi che gravano sul genitore del minore capace, pur essendo formulata in termini identici rispetto alla prova liberatoria contenuta nell’ art. 2047, comma 1, c.c..
La giurisprudenza richiede ai fini della prova liberatoria << di non aver potuto impedire il fatto >> la dimostrazione da parte dei genitori di aver impartito al minore un’ educazione consona alle proprie condizioni familiari e sociali e di aver esercitato una vigilanza adeguata all’ età, al carattere e alle abitudini del minore stesso.
Infatti, per la Corte di Cassazione non è più sufficiente provare “di aver impartito al figlio un’educazione normalmente idonea, in relazione al suo ambiente, alle sue attitudini e alla sua personalità, ad avviarlo ad una corretta vita di relazione e, quindi, a prevenire un suo comportamento illecito”, essendo altresì necessario provare che il genitore abbai compiuto “un’adeguata vigilanza in ordine al grado di assimilazione, da parte del minore stesso, dell’educazione ricevuta e della conformità dell’abituale condotta dello stesso ai precetti dell’educazione impartitagli”.
La prova liberatoria non ha, quindi, alcun riferimento diretto ed immediato con il fatto illecito commesso dal minore e con la concreta possibilità per i genitori stessi di impedire l’evento, estendendosi alla valutazione dell’intero sistema educativo da questi posto in essere. Infatti l’orientamento giurisprudenziale dominante, al fine di superare detta presunzione di colpa, vuole non la prova legislativamente prevista di non aver potuto impedire il fatto, ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, da vagliare anche alla luce delle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore.
Il rigore interpretativo manifestato nell’ applicazione dell’ art. 2048 c.c. persegue la finalità di assicurare la miglior tutela al danneggiato, mediante la garanzia del patrimonio familiare.
Gli interpreti, sin dai primi anni di applicazione della regola di cui all’ art. 2048 c.c., avevano accusato la giurisprudenza di aver effettuato << una libera creazione del diritto >>, travisando la lettera della norma di legge e sostituendo la prova liberatoria negativa con la prova positiva di aver fatto << tutto quanto era possibile e immaginabile >> per impedire il compimento dell’ illecito.
L’ atteggiamento critico della dottrina è andato progressivamente aumentando fino ai nostri giorni, soprattutto dopo la riforma del diritto di famiglia, che ha imposto un nuovo modello educativo privo di aspetti di soggezione dei figli al padre e caratterizzato da una potestà esercitata da entrambi i genitori e diretta alla realizzazione della cura e dell’ interesse del minore.
E ciò con riferimento sia alla realtà normativa che alla realtà sociale.
Nel codice del 1865 e in quello del 1942, nella sua versione originaria, il rapporto tra i genitori e la prole era infatti caratterizzato da una posizione di soggezione dei figli rispetto al pater. In altri termini, la legislazione rifletteva una concezione gerarchica ed autoritaria della famiglia e la prole aveva l’obbligo di «onorare e rispettare» il padre e la madre. I tempi ed i luoghi dedicati ai minori
erano fortemente limitati (abitazione familiare, scuola, parentado); i loro spazi di autonomia erano sottoposti alla rigida disciplina del padre; i mezzi di comunicazione e le strutture educative, sia scolastiche che sportive, non avevano il ruolo odierno.
Pertanto, l’illecito commesso dal minore poteva essere considerato come direttamente ascrivibile all’inosservanza, da parte dei genitori (o meglio, del padre), dei doveri di educazione e di controllo dei figli.
Ai vasti poteri genitoriali non poteva non corrispondere la responsabilità per il fatto illecito del minore considerato come conseguenza del mancato esercizio dei medesimi.
L’entrata in vigore della Carta Costituzionale, prima, e della riforma del diritto di famiglia, poi, hanno fortemente mutato il quadro normativo: i figli sono considerati dei soggetti a pieno titolo, ai quali il legislatore riconosce spazi di autonomia e di libertà al fine di uno sviluppo completo ed armonico della personalità.
I genitori, a loro volta, hanno l’obbligo di istruirli ed educarli secondo
le loro inclinazioni e le loro capacità naturali (art. 147 c.c.).
In altri termini la responsabilità genitoriale è un munus strettamente
connesso ai diritti dei figli; i poteri limitativi attribuiti ai genitori si giustificano in quanto volti alla corretta educazione dei figli, a loro volta non meri recettori passivi ma portatori di diritti, facoltà e abilità propri, da promuovere e comunque rispettare.
In particolare l’art. 147 c.c. novellato dalla riforma del diritto di famiglia è l’architrave dei nuovi rapporti familiari; esso pone l’obbligo di educare tenendo conto delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni del minore; di conseguenza il potere discrezionale dei genitori sui figli va progressivamente riducendosi in rapporto al progressivo accrescersi della loro autonomia e del peso della loro volontà.
Pertanto, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e della riforma del diritto di famiglia, appare evidente la necessità di interpretare più “elasticamente” l’art. 2048 c.c. e più in generale di attualizzare l’interpretazione delle previsioni in tema di illecito del minore.
Il contenzioso esistente in materia di illeciti dei minori è invece notevolmente diffuso e ha assunto connotazioni ed occasioni nuove in conseguenza di fenomeni nuovi (si pensi ai casi di bullismo scolastico e non, all’uso di internet e dei cellulari, all’uso e alla diffusione dei social networks).
Proprio tale diffusione rende importante l’esame della (non sempre univoca) giurisprudenza in materia.
2. Il sistema di tutela giurisdizionale risarcitoria per danni recati da un minore di età è alquanto complesso e dipende da molteplici variabili.
La prima variabile fondamentale è data dall’imputabilità o meno del minore autore del fatto.
Infatti, a differenza di quanto prevede in materia il codice penale, che sancisce l’incapacità legale del minore che non abbia compiuto i 14 anni (art. 97 c.p.), il codice civile non prevede un’esenzione legale d’imputabilità per i minori al di sotto di una certa età; si applica cioè la previsione generale dell’art. 2046 c.c. che prevede che <<Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non
aveva la capacità d'intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa>>.
L’ art. 2046 c.c. rappresenta nella materia dell’ illecito civile la novità introdotta dal legislatore del 1942 e costituisce in sostanza la regola di irresponsabilità del soggetto incapace di intendere e di volere.
Secondo una interpretazione assolutamente pacifica la capacità di intendere e di volere consiste nell’ attitudine a valutare adeguatamente il valore sociale dell’ atto concreto che si compie; la capacità di volere nella facoltà di determinarsi in modo autonomo, più che in funzione dei soli impulsi.
Dunque in sede civile, a differenza di quanto accade in ambito penale, per stabilire l’ imputabilità dell’ autore materiale del fatto, è necessaria un ‘ indagine relativa alle circostanze soggettive ed oggettive del caso specifico.
L’ accertamento della capacità di intendere e di volere avviene sempre in relazione al caso concreto, al momento in cui il comportamento si è verificato e al tipo di condotta che viene in considerazione.
3.L’ art. 2047 c.c. pone una serie complessa di questioni interpretative: in particolare una attiene alla valutazione del fatto dell’ incapace che costituisce il presupposto di applicabilità del primo e secondo comma della disposizione.
La giurisprudenza, considerando il tenore letterale della norma e il fatto che l’ imputabilità è elemento costitutivo del giudizio di imputabilità, esclude che il fatto dell‘ incapace possa essere qualificato come illecito ritenendo invece che si tratti di fatto causativo di un danno ingiusto.
Alcuni Autori, sulla base di una nozione di colpa in senso oggettivo, ritengono di poter qualificare il fatto dell’ incapace in termini di colpevolezza, per evitare la paradossale conseguenza che la vittima abbia diritto al risarcimento anche per danni che sarebbero rimasti a suo carico perché derivanti da un comportamento oggettivamente incolpevole se a causarli fosse stato un soggetto capace.
Un’ altra questione attiene all’ inquadramento sistematico della responsabilità del sorvegliante.
Secondo la giurisprudenza costante l’ art. 2047 c.c. rappresenta un’ ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole fondata su una presunzione juris tantum di culpa in vigilando, che sussiste fino all’ eventualità che sia offerta, da parte del sorvegliante, la prova liberatoria.
La dottrina invece è divisa tra chi propende per la soluzione tradizionale della responsabilità per colpa e chi ritiene si tratti di una ipotesi di responsabilità tendenzialmente oggettiva.
Nel primo caso viene privilegiato il profilo della diligenza nell’ adempimento di un dovere, nel secondo quello di garanzia nei confronti dei terzi,e la responsabilità è imputata sulla base della qualità personale del convenuto e quindi in ragione della relazione intercorrente tra quest’ ultimo e l’ autore materiale del fatto.
Secondo l’ opinione tradizionale solo la legge o il contratto potevano attribuire la qualifica di sorvegliante, oggi invece, la giurisprudenza più recente ha ampliato la sfera di responsabilità ex art. 2047, comma 1, c.c., riconoscendo che << il dovere di sorveglianza può sorgere anche dalla libera scelta di un soggetto di accogliere l’ incapace nella sua sfera personale o familiare>>, quindi sulla base di un semplice affidamento, in assenza di un vincolo formale tra il responsabile ex lege e il danneggiante.
L’art. 2047, comma 2,c.c. prevede, nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da parte del soggetto tenuto alla sorveglianza, la possibilità che il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, condanni l’ autore del danno a corrispondere un’ equa indennità.
Si tratta di una norma di scarsa applicazione giurisprudenziale.
Ciò che risulta con certezza dal dato normativo è la sussidiarietà dell’ indennizzo a carico dell’ incapace rispetto all’ obbligazione risarcitoria del sorvegliante e la sua opportunità in ordine all’ an e al quantum, rimessa alla valutazione equitativa del giudice.
4. L’art. 2048 c.c. disciplina la responsabilità dei genitori per danno cagionato da fatto illecito posto in essere dal figlio minore non emancipato e con essi coabitante; la responsabilità non sussiste quando i genitori provino di “non aver potuto impedire il fatto”.
Sui genitori, per superare la presunzione posta a loro carico dall’art. 2048, ricade una prova liberatoria particolarmente severa, poiché essi devono provare sia di aver impartito un’adeguata istruzione ed educazione che di aver vigilato sui risultati dell’educazione.
Dunque la posizione del genitore nei riguardi del figlio capace di intendere e di volere è ritenuta dalla giurisprudenza più gravosa rispetto a quella del sorvegliante, in quanto il minore capace deve essere, non soltanto vigilato ma, anche e soprattutto, educato.
L’ estensione della prova liberatoria è condizionata dalla maggiore ampiezza degli obblighi che gravano sul genitore del minore capace, pur essendo formulata in termini identici rispetto alla prova liberatoria contenuta nell’ art. 2047, comma 1, c.c..
La giurisprudenza richiede ai fini della prova liberatoria << di non aver potuto impedire il fatto >> la dimostrazione da parte dei genitori di aver impartito al minore un’ educazione consona alle proprie condizioni familiari e sociali e di aver esercitato una vigilanza adeguata all’ età, al carattere e alle abitudini del minore stesso.
Infatti, per la Corte di Cassazione non è più sufficiente provare “di aver impartito al figlio un’educazione normalmente idonea, in relazione al suo ambiente, alle sue attitudini e alla sua personalità, ad avviarlo ad una corretta vita di relazione e, quindi, a prevenire un suo comportamento illecito”, essendo altresì necessario provare che il genitore abbai compiuto “un’adeguata vigilanza in ordine al grado di assimilazione, da parte del minore stesso, dell’educazione ricevuta e della conformità dell’abituale condotta dello stesso ai precetti dell’educazione impartitagli”.
La prova liberatoria non ha, quindi, alcun riferimento diretto ed immediato con il fatto illecito commesso dal minore e con la concreta possibilità per i genitori stessi di impedire l’evento, estendendosi alla valutazione dell’intero sistema educativo da questi posto in essere. Infatti l’orientamento giurisprudenziale dominante, al fine di superare detta presunzione di colpa, vuole non la prova legislativamente prevista di non aver potuto impedire il fatto, ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, da vagliare anche alla luce delle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore.
Il rigore interpretativo manifestato nell’ applicazione dell’ art. 2048 c.c. persegue la finalità di assicurare la miglior tutela al danneggiato, mediante la garanzia del patrimonio familiare.
Gli interpreti, sin dai primi anni di applicazione della regola di cui all’ art. 2048 c.c., avevano accusato la giurisprudenza di aver effettuato << una libera creazione del diritto >>, travisando la lettera della norma di legge e sostituendo la prova liberatoria negativa con la prova positiva di aver fatto << tutto quanto era possibile e immaginabile >> per impedire il compimento dell’ illecito.
L’ atteggiamento critico della dottrina è andato progressivamente aumentando fino ai nostri giorni, soprattutto dopo la riforma del diritto di famiglia, che ha imposto un nuovo modello educativo privo di aspetti di soggezione dei figli al padre e caratterizzato da una potestà esercitata da entrambi i genitori e diretta alla realizzazione della cura e dell’ interesse del minore.
Note
La tesi in oggetto non è stata inserita correttamente nel data base dall’autore. L’autore stesso ed i relatori sono stati avvertiti di tale omissione.
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