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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-11212021-182759


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
PUOSI, MARIAN
URN
etd-11212021-182759
Titolo
Il dibattito sullo Stato Imprenditore. Il caso dei vaccini anti Covid
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Giocoli, Nicola
Parole chiave
  • covid
  • economia
  • imprenditore
  • investimenti
  • Mazzucato
  • ricerca
  • stato
  • vaccini
Data inizio appello
06/12/2021
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
06/12/2061
Riassunto
Il lavoro di tesi che si svilupperà in seguito avrà come obiettivo quello di mettere a confronto il pensiero dell’economista Marianna Mazzucato, rispetto al ruolo dello Stato nelle economie moderne e passate, con quello di altri economisti.
Il motivo per cui si è scelto questo argomento è legato soprattutto all’attuale crisi economica, scaturita a causa dell’emergenza sanitaria e che ha portato l’OMS a dichiarare lo stato pandemico.
In merito, quindi, a quanto appena detto, la tesi si svilupperà in tre parti; nel primo capitolo si esamineranno, appunto, le teorie di Marianna Mazzucato. Si partirà da quella concernente il tema del valore che, secondo l’economista, è un concetto centrale nella teoria economica per gli economisti classici e per Marx ma che, con la nascita della teoria neoclassica, l’attuale mainstream della teoria economica, è stato messo da parte. “Ciò fa sì che i processi di creazione ed estrazione del valore vengano confusi tra loro e la ricerca di rendita sia vista più facilmente come creazione di valore. Ciò rende l’innovazione più difficile e la crescita prodotta meno inclusiva, causando un aumento delle disuguaglianze”.
Secondo gli economisti i cambiamenti tecnologici sono la causa principale della crescita economica e della ricchezza a lungo termine. Tutti gli investimenti posti in atto nella scienza, nella tecnologia e nella creazione di nuove forme organizzative, sono capaci di sostenere la produttività e la crescita del PIL nel lungo termine.
Joseph A. Schumpeter è stato il primo economista, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che ha enfatizzato il ruolo dell’innovazione nel capitalismo. Lo studioso coniò il termine “distribuzione creativa” allo scopo di descrivere come l’innovazione dei prodotti e dei processi fosse in grado di determinare un processo dinamico di rinnovamento ma anche di distribuzione. Schumpeter era affascinato, in modo particolare, da quei momenti che portavano “ondate” d’innovazione le quali, secondo lo studioso, avvenivano ogni 30 anni.
Più tardi, alla fine del Novecento, Robert Solow , autore dell’omonimo modello , riuscì a dimostrare il ruolo fondamentale della tecnologia. Il suo modello era, infatti, in grado di descrivere che oltre l’80% della crescita economica derivava dal processo tecnologico. Solow arrivò a questa soluzione partendo proprio dagli studi di Schumpeter; egli, infatti, sostenne che la teoria economica doveva meglio comprendere come descrivere i cambiamenti tecnologici e quali fossero effettivamente le forze che spingevano tali cambiamenti.
Nella tesi si mostrerà come per alcuni studiosi l’innovazione è un processo collettivo che dipende dalle interazioni tra differenti attori in ruoli e settori diversi. Tutti quelli che sono visti come imprenditori pionieri e solitari, altro non sono infatti, che l’espressione di una collettività. Essi, inoltre, tendono a sfruttare i vantaggi di altri imprenditori che hanno realizzato la struttura sottostante, le basi dell’innovazione.
Il ruolo collettivo dell’innovazione non è visto solo come l’interazione tra settore pubblico e privato, ma anche come compito svolto dai lavoratori. I paesi che hanno un approccio al governo d’impresa più rivolto ai “portatori d’interesse” cercano di coinvolgere nel processo innovativo i lavoratori attraverso ad esempio dei programmi di formazione ben sviluppati. In queste nazioni si osservano degli investimenti ingenti nella formazione.
Saranno inoltre esaminati gli strumenti che sono posti in essere per estrarre valore dall’innovazione: i brevetti. Questi rappresentano una forma di protezione delle innovazioni nuove, originali e suscettibili di applicazione industriale. In realtà, sostiene Mazzucato, negli ultimi decenni i brevetti si sono trasformati da forma di protezione per l’innovazione a mezzo per bloccarla.
Questi strumenti, in teoria, hanno il compito di proteggere l’invenzione e l’inventore da eventuali attacchi. In realtà, la gran parte delle innovazioni non sono brevettate e questo mostra quanto tali strumenti non siano effettivamente necessari, in quanto è possibile porre in atto degli altri modi per riuscire a proteggere le innovazioni, tra cui la velocità nella tempistica di mercato rispetto ai concorrenti e il segreto industriale.
Per meglio comprendere il valore generato dai brevetti è importante capire cosa esattamente è brevettato e la struttura stessa di questi. Il punto di vista imprenditoriale che, almeno secondo Mazzuccato, è attualmente prevalente sposta l’equilibrio tra i due obiettivi del sistema dei brevetti come creatori di valore, ponendo meno enfasi sulla diffusione della conoscenza verso quello che è invece il premio individuale .
L’importanza che gli economisti hanno attribuito al processo innovativo e alla crescita che lo stesso produce ha portato gli organi di governo degli anni Ottanta ad analizzare di tutte le variabili capaci di incentivarla, come ad esempio i brevetti e la R&S.
La crescita trainata dall’innovazione, negli anni, ha generato non pochi miti, i quali si fondano su presupposti, non sempre corretti, riguardo ai fattori chiave dell’innovazione. Esaminiamo alcuni di tali miti.
L’innovazione dipende dalla R&S. Gli studi sull’economia dell’innovazione, a prescindere dall’orientamento, hanno dato per scontato l’esistenza di un legame causale tra l’innovazione e la R&S e tra innovazione e crescita economica. La maggior parte delle politiche pubbliche focalizza i propri sforzi d’innovazione sulla R&S, sostenendo non pochi costi e questo nonostante la letteratura in materia sia, ormai da anni, contro il modello lineare di innovazione .
Quello che però sarà esaminato nel capitolo è il ruolo che il settore pubblico ha nella crescita economica e nel processo innovativo di un paese. Dopo la crisi finanziaria, che ha visto i bilanci pubblici cresciuti in dismisura, soprattutto a causa del ruolo dello Stato nel “salvataggio” del settore privato, in tutto il mondo è sempre più forte l’idea che lo Stato debba iniziare a farsi da parte e lasciare che le nazioni crescano da sole e per questo diventino più competitive, innovative e dinamiche.
I governi devono quindi limitarsi a semplificare il dinamismo economico del settore privato; nella peggiore delle ipotesi, le loro istituzioni, spesso oppressive e burocratiche spesso inibiscono tale dinamismo. Il settore privato, si muove invece in fretta, ama il rischio e soprattutto si apre a delle nuove strade, rappresenta quindi il vero motore di quell’innovazione capace di creare crescita economica.
Secondo questa visione, il segreto del successo della Silicon Valley sta soprattutto negli imprenditori e nelle venture capitalists. Lo Stato interviene nell’economia solo nel momento in cui deve correggere i “fallimenti di mercato” o assicurare parità di condizioni.
MM, nella sua teoria ha lo scopo di smantellare questa immagine che si trova alla base di una tenenza globale che è stata promossa da economisti, politici e media per lo più conservatori, questi infatti hanno l’obiettivo di attaccare e sminuire l’importanza dello Stato.
L’immagine artefatta di uno stato pigro e di un settore privato dinamico è stata il fattore principale che ha permesso ad alcuni operatori del settore economico di definirsi i creatori della ricchezza, estraendo, in questo modo, dall’economia un’enorme quantità di valore, in nome dell’innovazione. Ne rappresenta un esempio il forte calo della tassazione delle plusvalenze negli Stati Uniti alla fine degli anni 70, quando le pressioni della National Venture Capital Association riesce ad ottenere un dimezzamento dell’aliquota in soli 5 anni (passa dal 40 al 20%). Infine nel capitolo si esaminerà il ruolo imprenditoriale dello Stato.
Gli investimenti nella ricerca di base rappresentano un tipico esempio di “fallimento del mercato”; da solo il mercato non riesce a produrre la giusta quantità di ricerca di base, pertanto è necessario l’intervento dello stato.
Non sono in pochi, infatti, a sostenere che i finanziamenti per sostenere la ricerca applicata, siano di competenza dello stato. Nel caso degli USA ad esempio, lo stato pesa solo il 26% nella spesa complessiva per la R&S, mentre il settore privato, la restante parte del 67%; ma la quota dello stato risulta essere tanto più grande se si prende in considerazione solo la ricerca base, in quanto arriva al 57%.
In questo caso è importante rilevare una differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa in tema di stanziamenti pubblici per la R&S destinati all’ “avanzamento generale” e quelli indirizzati a una “missione” specifica.
Mazzucato sostiene che le teorie sul fallimento di mercato per la R&S sono applicabili alla prima tipologia. Tutti gli investimenti in R&S mission – oriented sono rivolti a un programma di un organismo pubblico o ad uno specifico obiettivo individuato in differenti settori, quali ad esempio la difesa, l’aerospaziale, ecc.
I fondi pubblici destinati all’avanzamento generale della conoscenza generalmente rappresentano la metà della spesa complessiva per la R&S.
Nel secondo capitolo si partirà da un excursus sul Liberalismo e Neoliberalismo per poi arrivare a mettere in discussione la tesi di Marianna Mazzucato, trattata nel primo capitolo. Si cercherà di spiegare perché alcuni autori mettono in dubbio tale teoria.
Il liberalismo ha subito un processo di crescita iniziale, declino intermedio e infine un recente ringiovanimento.
In alternativa, il neoliberismo potrebbe essere percepito come un’ideologia distinta, discendente ma non identica al liberalismo “vero e proprio”. Secondo questa interpretazione, il neoliberismo condividerebbe alcune radici storiche e parte del vocabolario di base con il liberalismo in generale.
Tale interpretazione colloca il neoliberismo nella stessa categoria del “neoconservatorismo” americano, che è un’ideologia o una “persuasione politica” in qualche modo simile e tuttavia notevolmente diversa da gran parte del pensiero conservatore convenzionale, spesso difficilmente riconoscibile come un’ideologia genuinamente conservatrice .
Il liberalismo economico è, fondamentalmente, la convinzione che gli Stati dovrebbero astenersi dall’intervenire nell’economia, lasciando, invece, quanto più possibile gli individui che partecipano a mercati liberi di autoregolamentarsi.
Il liberalismo economico e il neoliberismo dovrebbero essere tenuti separati dal liberalismo in generale, inteso dall’Oxford English Dictionary , piuttosto ampiamente, come un’ideologia politica che è “favorevole a cambiamenti costituzionali e legali o a riforme amministrative tendenti alla libertà o alla democrazia”.
Il liberalismo classico è, secondo Ryan, associato ai primi liberali come i già citati John Locke e Adam Smith. Inoltre chiama Alexis de Tocqueville del diciannovesimo secolo e Friedrich von Hayek del ventesimo, come appartenenti alla tradizione del liberalismo classico.
Quest’ultimo è spesso associato alla convinzione che l’intervento dello Stato dovrebbe essere minimo, il che significa che praticamente tutto, tranne le forze armate, le forze dell’ordine e altri “beni non escludibili”, dovrebbero essere lasciati alla libera circolazione e al libero uso dei suoi cittadini e delle organizzazioni.
Questo tipo di Stato è talvolta descritto come uno “stato di guardia notturna”, poiché l’unico suo scopo è di sostenere gli aspetti fondamentali dell’ordine pubblico.
Il liberalismo moderno è, d’altra parte, caratterizzato da una maggiore disponibilità a lasciare che lo Stato diventi un partecipante attivo nell’economia. Ciò ha spesso prodotto una tendenza pronunciata a regolamentare il mercato e ad avere lo Stato come fornitore di beni e servizi essenziali a tutti.
Il liberalismo moderno è quindi, a tutti gli effetti, una profonda revisione del liberalismo, specialmente delle politiche economiche ad esso tradizionalmente associate.
Il “liberalismo” è, senza dubbio, un concetto piuttosto vago e spesso altamente contestato. Di solito descrive una disposizione verso la libertà e la democrazia individuali, che potrebbero essere presenti nel punto di vista politico di una persona o radicate nella cultura politica di un paese, piuttosto che un insieme ben definito e chiaramente delimitato di convinzioni politiche .
Sarà poi messo in discussione il ruolo dello “stato imprenditore”. Infatti, alcuni economisti sostengono che l’economia di mercato produce delle novità a getto continuo per il solo fatto di dover compiacere la domanda di mercato. Il problema dello spreco non sta solo nelle risorse, quanto piuttosto nel fatto che il mercato effettivamente permette solo un “certo” livello d’innovazione, cioè quello compatibile nel gradimento dei clienti.
Vi sono delle idee più radicali che sono destinate ad aspettare anni per vedere la luce, solo perché ai consumatori non piacciono. MM sostiene che, dalla rivoluzione industriale in poi, le vere svolte in termini d’innovazione sono state possibili solo grazie all’ausilio dello Stato. Come anche detto nel capitolo precedente, l’economista sostiene che molti trascurano come lo Stato riesca ad intervenire in quei settori che non sono curati, invece, dal settore privato e che non si considera quanto lo Stato sia stato coinvolto nel processo dell’innovazione.
MM sostiene che in quasi tutte le innovazioni più radicali e rivoluzionarie che hanno alimentato il dinamismo dell’economia capitalista, dalle ferrovie alla Rete fino alle nanotecnologie e alla farmaceutica dei giorni nostri, gli investimenti “imprenditoriali” più coraggiosi, precoci e costosi sono riconducibili allo Stato .
In realtà in contraddizione a questa teoria c’è quella che sostiene che le ferrovie siano state nazionalizzate solo successivamente, ma “la strada ferrata”, la più grande infrastruttura su ferro mai creata che permette ai treni di spostarsi su lunghe distanze, sia effettivamente stata costruita da aziende private, in Italia come in America e nel Regno Unito.
In Inghilterra, ad esempio, il legislatore ha consentito la realizzazione della rete ferroviaria concedendo le servitù di passaggio, ma i veri grandi investimenti e finanziamenti sono stati fatti da imprese private, fino alla nazionalizzazione intervenuta dopo la Prima Guerra Mondiale. Il governo inglese ha compiuto solo due azioni e cioè ha fornito le carrozze di terza classe (1844) e la standardizzazione dello scartamento ferroviario (1846).
Il vero e proprio sviluppo delle ferrovie inglesi è stato posto in essere da investimenti a fiumi da parte di aziende private negli anni quaranta dell’Ottocento, con l’ausilio di “ingegneri” come George Stephenson e Isambrad Brunel.
Ma per cercare di capire come si muovevano le innovazioni in passato è importante sottolineare che la partecipazione dello Stato, con la spesa pubblica, era molto bassa. Vi sono delle forti differenze anche in paesi che presentano dei livelli di ricchezza molto simili tra loro e profonde ed importanti differenze sul modo in cui la ricerca scientifica è finanziata.
Seppure, in linea di massima, i paesi OCSE più ricchi sono quelli che si presentano con una spesa pubblica più alta, in ogni caso non significa che lo facciano tutti allo stesso modo. Ad esempio la Francia e la Svizzera, pur essendo le due nazioni più prosperose, sono distanti anni luce in termini di ricerca ma anche nei modi di investimento delle loro risorse.
Daniele Archiubugi e Andrea Filiberti, due economisti italiani, hanno rilevato che: “nella maggior parte dei paesi OCSE è avvenuto un importante cambiamento nel modo in cui si finanziano la ricerca e lo sviluppo: dal 1981 al 2013 la quota di ricerca e sviluppo finanziata dallo Stato sul Pil si è ridotta dallo 0,82% allo 0,67%, mentre le quota di ricerca e sviluppo è cresciuta di mezzo punto percentuale” .
Nathan Rosenberg sostiene che le università americane producono prototipi, ma il loro successo non è dovuto al sostegno economico proveniente da enti pubblici. Queste mostrano una grande attenzione al tessuto sociale in cui operano ed alle esigenze dell’economia, mostrandosi duttili rispetto a quelli che sono i percorsi di insegnamento e di formazione. Come detto prima, siccome sono decentrate, tutte le decisioni che prendono e i successi che raggiungono sono possibili proprio perché lo fanno in completa autonomia .
Infine, nell’ultimo capitolo sarà esaminata la crisi economica derivante dalla crisi sanitaria e il ruolo del recovery found.
La gravità della crisi che ne è scaturita ha preteso l’intervento dei governi di tutto il mondo. Gli Stati, infatti, si sono trovati costretti ad iniettare stimoli nell’economia ed al tempo stesso hanno dovuto adottare delle manovre che arginassero il dilagare dell’infezione, per proteggere la popolazione ed in modo particolare le “categorie a rischio”.
L’enormità di questi interventi ricordano senza ombra di dubbio una guerra la quale le popolazioni si sono trovate a dover combattere da casa propria, dietro le finestre. La guerra però non è combattuta solo contro un nemico invisibile e cioè il virus, ma anche contro il tracollo economico.
La crisi di oggi potrebbe rappresentare una valida occasione per cambiare il capitalismo. MM sostiene che occorre ripensare ad un nuovo ruolo dello Stato, il quale non deve più limitarsi a correggere i fallimenti del mercato nel momento in cui essi si verifica, ma piuttosto devono iniziare ad assumere un ruolo attivo plasmando e creando mercati i quali siano capaci di offrire una crescita sostenibile ed inclusiva, oltre a garantire nello stesso tempo delle collaborazioni con le imprese in cui confluiscono fondi pubblici.
Considerati gli ingenti finanziamenti pubblici destinati all’innovazione sanitaria, i governi hanno l’obbligo di vigilare sui processi, per garantire l’equità nei prezzi e quindi evitare gli abusi dei brevetti e salvaguardare la fornitura di medicinali e controllare che i profitti generati siano reinvestiti nell’innovazione, piuttosto che essere destinati agli azionisti.
I governi devono inoltre riuscire a garantire eventuali forniture di emergenza, come letti di ospedale, maschere o ventilatori, e devono preoccuparsi di controllare quelle aziende che li forniscono, e che nei momenti di congiuntura favorevole non facciano troppa speculazione alzando i prezzi quando le cose non vanno bene.
A seguito della pandemia da Covid-19, tutta l’Europa ha colto la necessità di applicare nuove soluzioni, per affrontare la crisi economica e sociale, causata dal virus, e di conseguenza, dai mesi di lockdown che ogni Paese membro dell’Unione Europea, si è trovato a vivere.
L’obiettivo è stato quello di individuare degli obiettivi precisi, al fine di affrontare in maniera sinergica, la crisi economica e il contestuale recupero della situazione. Proprio in questo favorevole contesto, ha trovato la sua nascita il fondo europeo del Recovery Fund.
Senz’altro, uno strumento del genere, rappresenta un motivo di coesione e di rafforzamento del progetto europeo, un abbraccio collettivo, intorno ai suoi valori e ai suoi principi.
Il percorso che ha poi condotto all’approvazione del Recovery Fund, non è stato privo di ostacoli, essendo differenti i punti di vista sulle condizioni della sua esecuzione. Nello specifico, due erano gli Stati che non sempre si sono mostrati favorevoli e disposti al confronto: Polonia e Ungheria. Infatti, dopo aver ricevuto il parere favorevole dal resto dei Paesi membri dell’Unione Europea, il fondo per il rilancio delle economie è stato poi bloccato a luglio del 2020, per il disaccordo di Polonia e Ungheria.
Il Recovery Fund risponde all’esigenza di porre un freno alle oscillazioni potenti del PIL dei diversi Stati, a seguito dell’impatto della pandemia. Per questi motivi l’Unione Europea ha cercato una soluzione organica e condivisa, che riuscisse a far fronte all’emergenza economica e sociale.
Tuttavia, come si è già avuto modo di capire, il percorso che ha condotto all’approvazione del fondo, non è stato sempre lineare, trovando l’opposizione, soprattutto dei Paesi del Nord-Europa, meno inclini, rispetto a Paesi come la Spagna e la stessa Italia, maggiormente colpita dalla crisi, ad accettare il piano di ripresa.
Rispetto alla gestione dei fondi e delle risorse del Recovery Fund, l’Europa chiede che i Paesi membri, si soffermino sulla tutela e sullo sviluppo dei servizi pubblici essenziali. All’Italia, nello specifico, ha chiesto che l’attenzione sia puntata verso i pilastri fondamentali per uno sviluppo sostenibile e al passo con i tempi della società: istruzione, sanità, innovazione e lavoro.
Non va dimenticata l’attenzione anche all’aspetto green, a cui l’Europa tiene molto, necessaria per uno sviluppo che sia anche sostenibile, nonché la necessaria, ormai, digitalizzazione, che garantisce tra l’altro una maggior efficienza della pubblica amministrazione e della giustizia, pilastri fondamentali a cui guardare per la loro implementazione, al fine di renderle maggiormente efficienti.




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