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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-11212013-120325


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
PERRONE, DARIA
URN
etd-11212013-120325
Titolo
IL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITA' SULLE MODIFICAZIONI PENALI IN BONAM PARTEM TRA PRINCIPIO DI LEGALITA’ E OBBLIGHI DI PENALIZZAZIONE
Settore scientifico disciplinare
IUS/08
Corso di studi
SCIENZE GIURIDICHE
Relatori
tutor Prof. Gargani, Alberto
Parole chiave
  • principio di retroattività
  • obblighi di penalizzazione
  • modifiche penali
  • riserva di legge
Data inizio appello
05/12/2013
Consultabilità
Completa
Riassunto
Terreno di tensioni e logiche di compromesso, la questione del giudizio di legittimità delle modificazioni penali in bonam partem ha da sempre rappresentato nella giustizia costituzionale un luogo di bilanciamento tra valori.
Per quanto già oggetto di numerosi studi e contributi scientifici da parte dei più autorevoli interpreti, il tema affrontato presenta, in effetti, ancora non pochi punti “oscuri”, che attendono tuttora una sistemazione più razionale. Si pensi, in questo senso, alla difficile convivenza tra il principio di retroattività della lex mitior ed il requisito della rilevanza, alla discutibile distinzione tra norme penali di favore e norme più favorevoli condotta dalla Corte costituzionale nell’ambito del sindacato delle modifiche penali in bonam partem, al permanere di alcune zone d’ombra della giustizia costituzionale nel sindacato in via incidentale delle leggi. Affrontando questi temi è stato possibile svolgere, da una prospettiva privilegiata, alcune considerazioni più generali sul delicato rapporto tra Corte e Parlamento nel procedimento di formazione legislativo.
Si è ritenuto opportuno suddividere la trattazione in tre parti – autonome ma conseguenti –, alla ricerca di un inquadramento organico che desse conto dell’interferenza tra le tematiche strettamente legate al giudizio di costituzionalità e quelle più propriamente attinenti alle peculiarità del petitum.
Nella prima parte, vengono esaminati i presupposti logici della questione, ossia la disciplina temporale come premessa propedeutica al merito della trattazione. In particolare, sono due gli antecedenti logici sui cui l’elaborato si sofferma: da un lato, sotto il profilo costituzionalistico, si analizzano gli effetti ratione temporis delle pronunce di incostituzionalità, anche alla luce delle tecniche “manipolative” adottate dalla Corte costituzionale per limitare l’effetto retroattivo delle sentenze. Attraverso l’ampliamento del novero delle formule decisionali, la manipolazione dell’elemento temporale esprime l’esigenza della Corte di disporre di strumenti “duttili” per affrontare il pericolo dell’horror vacui conseguente all’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, in modo da consentire l’ulteriore applicazione (anche se in via transitoria) della norma dichiarata incostituzionale e ad evitare la creazione di pericolosi vuoti normativi.
Tale riflessione si rivela particolarmente importante sul terreno della dichiarazione di incostituzionalità delle modificazioni penali in bonam partem, giacchè l’eventuale limitazione al dogma della piena retroattività delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale offre un interessante spunto di riflessione, sebbene non sfugga il rischio di riconoscere in capo alla Corte un margine di discrezionalità troppo ampio.
Dall’altro lato, sotto un profilo più squisitamente penalistico, si analizza la disciplina intertemporale nel caso di successione di leggi penali. Quale indice dello «spirito del tempo» , il diritto penale intertemporale è da alcuni anni al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale e rappresenta il banco di prova dell’effettivo rispetto dei principi costituzionali in materia penale. Sotto quest’ultimo profilo, muovendo dalla ben nota distinzione tra irretroattività della norma incriminatrice e retroattività della norma in mitius, è stato messo a fuoco il lento e progressivo riconoscimento costituzionale ed internazionale di quest’ultimo principio, alla luce soprattutto dell’overlapping consensus che si è potuto registrare in merito nel dialogo tra la Corte costituzionale, la Corte di giustizia e la Corte di Strasburgo.
Le Corti convergono nell’individuare un’intima connessione tra il principio di retroattività ed il principio della proporzionalità della pena. Tale connessione deriva dalla concezione illuministica secondo cui il principio del nullum crimen sine lege costituisce il “mezzo” attraverso cui garantire lo “scopo” ultimo dello ius punendi. La proporzione è quindi lo scopo, mentre la legalità (tra cui rientra anche il principio di retroattività) è il mezzo: questo è il legame tra i due principi, che trovano fondamento e giustificazione reciproca, ma al contempo reciprocamente si “controllano”, essendo uno il limite dell’altro e viceversa.
La riconduzione della regola della retroattività al principio di ragionevolezza con il limite di un “margine di apprezzamento e di adeguamento” in capo alla Consulta ha posto, tuttavia, non pochi problemi di cui si è dovuto dar conto sia in termini di adeguamento alla normativa CEDU sia in termini di eccessiva discrezionalità in capo ai giudici costituzionali. Alla luce dell’incertezza, infatti, sulla possibilità o meno di introdurre delle deroghe al principio di retroattività per il mancato allineamento tra la posizione della nostra Corte costituzionale e quella della giurisprudenza di Strasburgo, sembrerebbe doversi escludere la possibilità di applicare al giudizio a quo, per difetto del requisitio di prevedibilità e di accessibilità, gli effetti sfavorevoli che derivano dalla sentenza di incostituzionalità su di una norma penale in bonam partem.
La seconda parte della trattazione si concentra sugli ostacoli interpretativi al controllo di costituzionalità delle norme penali in bonam partem, ossia sul parametro della rilevanza per valutare l’ammissibilità del sindacato costituzionale e sul principio della riserva di legge in materia penale. La messa a confronto della disciplina temporale delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale e della disciplina temporale nel caso di successione di leggi penali è, infatti, la precondizione della trattazione della questione sull’ammissibilità, sugli effetti e sui limiti del controllo di costituzionalità delle norme penali in bonam partem e consente, inoltre, di mettere in luce chiaramente i punti di contrasto tra le due discipline.
Dopo aver evidenziato il contrasto tra la disciplina temporale delle sentenze di incostituzionalità e il regime temporale nel caso di successione di leggi penali, è stato possibile trarne le conclusioni in ordine all’inammissibilità del petitum nel giudizio costituzionale e al difetto “teorico” di rilevanza.
Dopo una breve disamina del parametro invocato nella sua evoluzione ermeneutica dalla “mera applicabilità” alla “necessaria influenza”, ci si è soffermati sulla progressiva apertura della Corte costituzionale in tema di ammissibilità, in un primo momento limitatamente ai fatti pregressi, per poi allargare le ‘maglie’ della rilevanza anche al caso dei fatti concomitanti, sulla base di una lettura interpretativa della disciplina temporale delle leggi penali. Il costante raffronto con la riflessione dottrinale in materia e con l’elaborazione giurisprudenziale formatasi in questi anni, anche sul piano comunitario, ha permesso non solo di offrire un quadro riassuntivo degli istituti che regolano la materia, ma anche di fornire criteri di orientamento teorico per la soluzione dei problemi pratici ed applicativi che la normativa pone in questo preciso momento storico.
Il secondo ostacolo interpretativo al giudizio costituzionale sulla norme penali in bonam partem su cui ci si è soffermati concerne la riserva di legge in materia penale ed il pericolo di un potere normativo “creativo” in capo ai giudici delle leggi. Infatti, in quanto organo di garanzia che esercita una funzione obiettiva nel ricomporre dialetticamente il rapporto tra attività legislativa e limiti costituzionali, la Corte non è libera, ma è obbligata a non ricorrere a valutazioni politiche e a non invadere la discrezionalità legislativa.
Oggi, tuttavia, la “crisi della legalità” (in senso formale), provocata sia da fattori esterni che da fattori endogeni, ha comportato gravi alterazioni dell’originario equilibrio tra legge e potere giudiziario, fino alla tendenza a recuperare presso gli organi di garanzia - prima fra tutti la Corte costituzionale - il terreno perduto nella sede parlamentare. Ciò ha impresso una nuova spinta a fondamento delle scelte parlamentari, alla ricerca di basi diverse dalla semplicistica identificazione tra idea democratica e principio maggioritario.
Attraverso il discrimen tra “specialità sincronica” e “specialità diacronica” delle norme penali, il superamento della riserva di legge è passato attraverso l’introduzione ad opera della Corte costituzionale della distinzione di categoria tra “norme penali di favore” e “norme più favorevoli”, pervenendo così al risultato di ammettere almeno la sindacabilità delle prime.
In relazione alla distinzione operata dalla Corte, sono state mosse tuttavia alcune critiche, per ovviare alle quali si è ritenuto di dover ricorrere – in via integrativa – al criterio di “ragionevolezza” della modifica in mitius per poter valutare l’ammissibilità del sindacato. Un sindacato sul merito delle scelte legislative sarebbe possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene allorquando la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione. Allo scopo di allontanare i sospetti di uno “sconfinamento” delle competenze costituzionali e di evitare che la Corte possa svolgere liberamente valutazioni di politica del diritto in sostituzione del Parlamento si dovrebbe più opportunamente optare per un’accezione “oggettivizzata” del giudizio sulla ragionevolezza, articolato nella messa a fuoco della ratio legis della disposizione, nell’individuazione del tertium comparationis e nel confronto tra fattispecie impugnata e tertium comparationis.
Nella terza parte ed ultima parte, infine, si analizzano gli effetti e i limiti del controllo di costituzionalità sulle norme penali in bonam partem.
Per quel che concerne gli effetti delle sentenze di incostituzionalità nei giudizi a quibus, dopo aver distinto le due macro-categorie dei fatti concomitanti e dei fatti pregressi, vengono esaminati gli effetti a seconda della natura della norma dichiarata incostituzionale (abrogatrice, modificatrice, scriminante, estintiva), soprattutto in relazione all’eventuale effetto di “reviviscenza” in malam partem della normativa previgente.
Analizzati gli effetti del sindacato costituzionale a seconda delle varie tipologie delle norme penali dichiarate incostituzionali, ci si è soffermati sulla possibilità, stante il principio di interpretazione conforme, di introdurre nel nostro ordinamento, attraverso il diritto sovannazionale e le sentenze interpretative della Corte di giustizia, effetti in malam partem in materia penale. Nonostante la disapplicazione automatica della normativa contrastante operi solo in bonam partem, ci si è chiesti se in seguito all’ampliamento delle competenze in materia penale, anche grazie all’adozone del Trattato di Lisbona, potrebbe essere ormai maturo il tempo per ammettere da parte degli organi comunitari il potere di ricorrere all’interpretazione estensiva, almeno nel caso in cui essa ricada solo di un elemento normativo, in conformità delle fonti europee e nei limiti del rispetto del principio di tassatività e del divieto di analogia in materia penale.
Per quanto riguarda, invece, i limiti del controllo di costituzionalità, l’analisi prende il via da una riflessione sulle restanti ‘zone d’ombra’ della giustizia costituzionale per la categoria delle norme penali più favorevoli, in una dialettica tra il principio della riserva di legge e della discrezionalità legislativa ed il contrapposto obbligo costituzionale di penalizzazione, in considerazione della sua esegesi anche a livello comunitario, secondo la visione europeistica dell’ordinamento penale nella sua identità costituzionale.
Infatti, la tesi dell’ammissibilità del giudizio costituzionale sulle norme più favorevoli è legata a doppio filo al riconoscimento nel nostro ordinamento dell’esistenza per determinati beni giuridici di obblighi costituzionali di penalizzazione, i quali presuppongono la compresenza nell’ordinamento, secondo le teorie del reato, di due diversi elementi: da un lato, la valutazione sulla “meritevolezza” della pena (Strafwürdigkeit), e dall’altro lato, il giudizio sul “bisogno” della stessa (Strafbedürftigkeit), con conseguente esclusione, ove il mandato sia univoco, di ogni forma di regolamentazione diversa, ritenuta inadeguata già a monte dalla stessa Carta costituzionale.
A termine dell’indagine, si è cercato quindi di trarre alcune conclusioni circa l’attuale status controversiae della questione, valutando se nel nostro ordinamento ancora oggi persistano del limiti (e in che misura) al sindacato delle modificazioni penali in bonam partem.
Il riconoscimento di una “democrazia costituzionale”, la progressiva “crisi” della riserva di legge nella sua dimensione formale, l’ammissibilità del sindacato sulle norme di favore, la fragilità della distinzione tra norme di favore e norme più favorevoli sono forse il primo timido segnale che è ormai giunto il momento di avviare un nuovo dialogo tra Corte e Palamento in vista di una prospective overrulling in relazione alla sindacabilità delle norme penali che prevedono un trattamento in mitius, almeno nei casi in cui la discrezionalità legislativa sia già a monte “compressa” dall’esistenza di un obbligo costituzionale di penalizzazione.
È difficile pensare che, nell’attuale dialettica istituzionale, la “gestione” dei principi possa prescindere dall’opera mediatrice della Corte, alla ricerca di un complesso equilibrio tra prerogativa politica e ruolo del (contro)-potere giudiziario. Una tale istanza di rivalutazione della giustizia costituzionale, e dei suoi custodi, non dovrebbe apparire allora come un indebito sacrificio del principio di legalità, giacchè quest’ultimo riflette un’istanza garantistica che non si arresta solo alla certezza del diritto, ma attinge alla stessa qualità valoriale dello ius puniendi.

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