Tesi etd-11212013-113518 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
TACCOLA, ILARIA
URN
etd-11212013-113518
Titolo
Competenza e rito nel processo minorile dopo la legge n. 219 del 2012
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Cecchella, Claudio
Parole chiave
- art. 38.disp.att.c.c.
- competenza
- processo minorile
Data inizio appello
09/12/2013
Consultabilità
Completa
Riassunto
Il legislatore ha istituito il tribunale per i minorenni, con il R.D.L. 20 luglio 1934 n.1404 convertito nella L. 25 maggio 1935 n.835, partendo dall'idea di creare un organo specializzato ad hoc per tutelare il minore e i suoi interessi considerati meritevoli di una tutela più improntata a determinate esigenze, visto la tenera età dei soggetti in questione, ma se in sede penale od amministrativa la minore età del soggetto costituiva un idoneo criterio per devolvere la questione ad un organo specializzato, in sede civile tale criterio appariva alquanto insufficiente.
In sede civile la posizione del minore viene in rilievo in molteplici casi, alle volte quest'ultimo è al centro della vicenda, mentre altre volte si ritrova ad essere oggetto delle vicende familiari di chi esercita la patria potestà. Il legislatore non si è curato troppo di questo rilevante aspetto, trascurando così la molteplice posizione del minore nei procedimenti in sede civile.
L'art 32 della legge istitutiva del tribunale per i minorenni si limitava a devolvere caso per caso le singole materie di quest'ultimo creando così una duplice giurisdizione in ambito civile tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni.
Quest'impostazione non fu superata con l'entrata in vigore del codice civile del 1942 che si limitò a recepire passivamente i contenuti della legge istitutiva, frammentando ancora di più il sistema con la creazione del giudice tutelare.
L'art 38 delle disposizione di attuazione del codice civile opera infatti una devoluzione caso per caso delle singole materie di competenza del tribunale per i minorenni, disattendendo cosi le aspettative di una giurisdizione unica e improntata a una tutela specifica e professionale dei molteplici interessi del minore.
La Corte di Cassazione, come vedremo in seguito più approfonditamente, ha più volte tentato un'interpretazione estensiva di suddetto articolo, muovendosi in primis da una considerazione di carattere generale, ovvero di una progressiva tendenza delle legislazioni moderne, tesa ad affidare la materia minorile a giudici sempre più specializzati in quest'ambito poiché dotati di particolari strumenti giuridici e organizzativi.
Anche se degna di una lodevole approvazione l'interpretazione fatta propria dal Giudice delle leggi, che vede il tribunale per i minorenni come giudice naturale della materia relativa alla tutela dei minori; questa interpretazione si scontra con il dato letterale dell'art 38.disp.att.c.c che racchiude un elencazione di carattere tassativo, secondo l'opinione della dottrina maggioritaria, che mal si presta ad un'interpretazione estensiva.Il codice civile del 1942 recepiva l’impostazione del codice napoleonico per cui vigeva una netta contrapposizione tra i figli generati all’interno del vincolo matrimoniale e i figli al contrario nati al di fuori di esso, l’aggettivo utilizzato “illegittimo” per la filiazione naturale rappresentava quella concezione preminente all’epoca per cui l’unico modello di famiglia tutelato dall'ordinamento era quella legittima e la tutela della filiazione si poteva esplicare solo all’interno di quell’ambito.
La filiazione legittima aveva una piena tutela poiché i figli nati all'interno del vincolo matrimoniale avevano diritto al mantenimento, all’istruzione, all’assistenza morale e materiale sia da parte dei genitori che dagli ascendenti, al contrario della filiazione considerata illegittima per la quale il riconoscimento aveva effetto solamente verso il genitore che aveva proceduto al tale atto e sul piano successorio era prevista per quest’ultimi una quota inferiore rispetto ai figli legittimi, i quali avevano diritto a una quota ereditaria indisponibile pari al doppio degli illegittimi.
Inoltre bisogna ricordare il divieto di riconoscimento dei figli incestuosi e di quelli adulterini, e il solo obbligo alimentare e l’assegno vitalizio in capo ai genitori nei confronti dei figli adulterini.
La riforma del 1975 del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n.151) aveva portato a una sostanziale equiparazione tra figli legittimi e figli naturali adeguando così l’impianto del codice civile al disposto costituzionale dell’art. 30.Cost, che sanciva il principio della piena equiparazione dei diritti-doveri dei genitori nei confronti dei figli a prescindere dal fatto che quest’ultimi siano stati definiti legittimi o naturali.
La riforma del diritto di famiglia aveva quindi sostituito la qualificazione “illegittima” con l’aggettivo “naturale”, aveva modificato l’art. 269.c.c eliminando tutta quella serie di ipotesi tassative per cui si poteva chiedere il riconoscimento, sancendo così il principio per cui si può procedere liberamente all’accertamento della verità biologica con ogni mezzo di prova, ma nonostante la piena tutela giuridica a livello sostanziale, la riforma aveva lasciato ancora molteplici discriminazioni nei confronti della filiazione naturale, soprattutto sul piano della tutela processuale che vedeva ancora un ripartizione frammentata delle competenze tra tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni.
Il legislatore nel 2006 aveva cercato di ridurre tale differenziazione con l’emanazione della legge 8 febbraio 2006, n. 54, in tema di affidamento condiviso, introducendo il tanto discusso art. 4 che prevedendo l’applicabilità della nuova normativa anche ai procedimenti di figli di genitori non coniugati ha cercato di rendere omogenea e unitaria la disciplina in tema di filiazione naturale, ma purtroppo senza successo, poiché se è stato pacifico ritenere di poter estendere la nuova normativa sostanziale alla filiazione legittima, non si può affermare la medesima conquista sul piano della tutela processuale, poiché la disciplina introdotta dalla legge 54/2006 è applicabile solo ai procedimenti di separazione e di divorzio, vista l’impossibilità di attrarre dalla competenza del tribunale per i minorenni l’art. 317-bis, l’unica norma applicabile alla prole naturale in sede di contrasto tra i genitori.
Dopo un lungo iter legislativo il Parlamento ha finalmente approvato una normativa in tema di equiparazione dei figli naturali la legge 10 dicembre 2012, n.219 intitolata “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.
La normativa composta solamente da sei articoli ha cercato di adeguare il dettato normativo del codice civile all’evoluzione sociale, dove oramai il modello della famiglia tradizionale fondata sul matrimonio assiste a un repentino declino e oltre a questo fattore determinante, non si poteva più continuare a dimenticare la grave lacuna nel nostro ordinamento riguardante la disciplina della filiazione naturale che oltre alla carenza di un' uniforme e specifica normativa processuale, eccetto l’unico procedimento riferibile all’art. 317-bis.c.c, si doveva ogni volta dividere le controversie tra il tribunale per i minorenni competente in ordine all’affidamento della prole e il tribunale ordinario competente in ordine alle questioni patrimoniali, ritenuta da molti una grave disparità di trattamento, in confronto alla filiazione legittima che da sempre ha avuto una piena concentrazione di tutele innanzi al tribunale ordinario.
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 le innovazioni legislative apportate nei confronti della filiazione naturale erano state ritenute sufficienti e adeguate all’epoca, ma al giorno d'oggi erano diventate intollerabili visto l’evoluzione sociale ove la famiglia legittima viene sempre di più sormontata dalla famiglia di fatto.
La normativa 219/2012 ha apportato una serie di cambiamenti sia dal punto di vista sostanziale che processuale adeguando finalmente il sistema normativo del codice civile alle Convenzioni internazionali di New York del 1989 e di Strasburgo del 1996, entrambe ratificate dal nostro ordinamento.
La nuova normativa oltre a novellare una serie di disposizioni tra cui l’art. 38.disp.att.c.c, prevede una serie di criteri per delegare al governo l’emanazione di un decreto delegato allo scopo di uniformare la disciplina del codice civile e delle varie leggi settoriali alle nuove regole introdotte in tema di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità.
La novità più rilevante introdotta dalla normativa si rileva al settimo comma del primo articolo, il novellato art. 315.c.c, in base al quale enunciato “Tutti i figli hanno lo stesso lo stato giuridico”, all’undicesimo comma del primo articolo stabilisce che la terminologia “naturale” e “legittima” in ogni disposizione del codice deve essere sostituite dal termine “figli”.
La novella del 2012 ha modificato la rubrica del titolo nono del libro primo del codice civile che è ora intitolato “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri dei figli”, introducendo al nuovo art. 315.c.c., il principio per cui non esiste alcuna distinzione nell’ambito della filiazione, tutti i figli hanno gli stessi diritti e doveri e non può avvenire una disparità di tutela in riferimento al rapporto giuridico esistente tra i genitori, si prevede infatti l’introduzione del nuovo art. 315-bis.c.c., dove viene enunciato il principio per cui oltre ai doveri nei confronti dei genitori, sono attribuiti ai figli i diritti inerenti al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza, riprendendo similarmente il principio espresso dall’art. 147.c.c.(il quale verrà eliminato in sede di attuazione del decreto delegato), prevedendo in aggiunta il diritto all’assistenza morale, introdotto nell’art. 155.c.c dalla legge del 2006 in riferimento alla filiazione legittima.
Il nuovo art. 315-bis c.c. disponendo che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”, ha attribuito maggior rilievo alla personalità del figlio utilizzando il termine “rispetto” invece della terminologia utilizzata dall’art. 147.c.c, ovvero il “tener conto”, anche se viene criticato l’ordine dei diritti, poiché il diritto all’istruzione viene preceduto da quello all’educazione, invertendo così l’ordine previsto dall’art. 30.Cost.
Si è inoltre previsto giustamente come corollario per l’attuazione dell’unicità dello stato giuridico dei figli, l’abrogazione dell’istituto della legittimazione del figlio naturale.
Un'altra novità rilevante attiene alla modifica dell'art. 74.c.c, il quale prevede che << la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo>>, e a tale disposizione si collega la modifica dell'art. 258.c.c che prevede che << il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso>>.
Il previgente art. 258.c.c dichiarando che<<il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto>>, impediva una piena equiparazione nell'ambito della parentela, poiché si riteneva in base a quest'enunciato che il rapporto di parentela poteva derivare unicamente dal matrimonio, il quale era fonte di certezza e di stabilità giuridica, al contrario della convivenza, e di conseguenza si negava anche la possibilità di ereditare tra fratelli naturali, mancando un rapporto di parentela civile tra quest'ultimi.
Con la nuova formulazione dell'art. 74.c.c e dell'art. 258.c.c si è posto fine a queste inique disparità di trattamento, dichiarando che la parentela è un vincolo che si fonda unicamente sul rapporto di discendenza biologica e che quindi prescinde dal matrimonio.
Dal punto di vista della normativa sostanziale l’equiparazione tra figli legittimi e naturali è finalmente totale ma non si può dire lo stesso con riferimento alla tutela in sede processuale dove le differenziazioni continuano ad esistere.
In sede civile la posizione del minore viene in rilievo in molteplici casi, alle volte quest'ultimo è al centro della vicenda, mentre altre volte si ritrova ad essere oggetto delle vicende familiari di chi esercita la patria potestà. Il legislatore non si è curato troppo di questo rilevante aspetto, trascurando così la molteplice posizione del minore nei procedimenti in sede civile.
L'art 32 della legge istitutiva del tribunale per i minorenni si limitava a devolvere caso per caso le singole materie di quest'ultimo creando così una duplice giurisdizione in ambito civile tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni.
Quest'impostazione non fu superata con l'entrata in vigore del codice civile del 1942 che si limitò a recepire passivamente i contenuti della legge istitutiva, frammentando ancora di più il sistema con la creazione del giudice tutelare.
L'art 38 delle disposizione di attuazione del codice civile opera infatti una devoluzione caso per caso delle singole materie di competenza del tribunale per i minorenni, disattendendo cosi le aspettative di una giurisdizione unica e improntata a una tutela specifica e professionale dei molteplici interessi del minore.
La Corte di Cassazione, come vedremo in seguito più approfonditamente, ha più volte tentato un'interpretazione estensiva di suddetto articolo, muovendosi in primis da una considerazione di carattere generale, ovvero di una progressiva tendenza delle legislazioni moderne, tesa ad affidare la materia minorile a giudici sempre più specializzati in quest'ambito poiché dotati di particolari strumenti giuridici e organizzativi.
Anche se degna di una lodevole approvazione l'interpretazione fatta propria dal Giudice delle leggi, che vede il tribunale per i minorenni come giudice naturale della materia relativa alla tutela dei minori; questa interpretazione si scontra con il dato letterale dell'art 38.disp.att.c.c che racchiude un elencazione di carattere tassativo, secondo l'opinione della dottrina maggioritaria, che mal si presta ad un'interpretazione estensiva.Il codice civile del 1942 recepiva l’impostazione del codice napoleonico per cui vigeva una netta contrapposizione tra i figli generati all’interno del vincolo matrimoniale e i figli al contrario nati al di fuori di esso, l’aggettivo utilizzato “illegittimo” per la filiazione naturale rappresentava quella concezione preminente all’epoca per cui l’unico modello di famiglia tutelato dall'ordinamento era quella legittima e la tutela della filiazione si poteva esplicare solo all’interno di quell’ambito.
La filiazione legittima aveva una piena tutela poiché i figli nati all'interno del vincolo matrimoniale avevano diritto al mantenimento, all’istruzione, all’assistenza morale e materiale sia da parte dei genitori che dagli ascendenti, al contrario della filiazione considerata illegittima per la quale il riconoscimento aveva effetto solamente verso il genitore che aveva proceduto al tale atto e sul piano successorio era prevista per quest’ultimi una quota inferiore rispetto ai figli legittimi, i quali avevano diritto a una quota ereditaria indisponibile pari al doppio degli illegittimi.
Inoltre bisogna ricordare il divieto di riconoscimento dei figli incestuosi e di quelli adulterini, e il solo obbligo alimentare e l’assegno vitalizio in capo ai genitori nei confronti dei figli adulterini.
La riforma del 1975 del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n.151) aveva portato a una sostanziale equiparazione tra figli legittimi e figli naturali adeguando così l’impianto del codice civile al disposto costituzionale dell’art. 30.Cost, che sanciva il principio della piena equiparazione dei diritti-doveri dei genitori nei confronti dei figli a prescindere dal fatto che quest’ultimi siano stati definiti legittimi o naturali.
La riforma del diritto di famiglia aveva quindi sostituito la qualificazione “illegittima” con l’aggettivo “naturale”, aveva modificato l’art. 269.c.c eliminando tutta quella serie di ipotesi tassative per cui si poteva chiedere il riconoscimento, sancendo così il principio per cui si può procedere liberamente all’accertamento della verità biologica con ogni mezzo di prova, ma nonostante la piena tutela giuridica a livello sostanziale, la riforma aveva lasciato ancora molteplici discriminazioni nei confronti della filiazione naturale, soprattutto sul piano della tutela processuale che vedeva ancora un ripartizione frammentata delle competenze tra tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni.
Il legislatore nel 2006 aveva cercato di ridurre tale differenziazione con l’emanazione della legge 8 febbraio 2006, n. 54, in tema di affidamento condiviso, introducendo il tanto discusso art. 4 che prevedendo l’applicabilità della nuova normativa anche ai procedimenti di figli di genitori non coniugati ha cercato di rendere omogenea e unitaria la disciplina in tema di filiazione naturale, ma purtroppo senza successo, poiché se è stato pacifico ritenere di poter estendere la nuova normativa sostanziale alla filiazione legittima, non si può affermare la medesima conquista sul piano della tutela processuale, poiché la disciplina introdotta dalla legge 54/2006 è applicabile solo ai procedimenti di separazione e di divorzio, vista l’impossibilità di attrarre dalla competenza del tribunale per i minorenni l’art. 317-bis, l’unica norma applicabile alla prole naturale in sede di contrasto tra i genitori.
Dopo un lungo iter legislativo il Parlamento ha finalmente approvato una normativa in tema di equiparazione dei figli naturali la legge 10 dicembre 2012, n.219 intitolata “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”.
La normativa composta solamente da sei articoli ha cercato di adeguare il dettato normativo del codice civile all’evoluzione sociale, dove oramai il modello della famiglia tradizionale fondata sul matrimonio assiste a un repentino declino e oltre a questo fattore determinante, non si poteva più continuare a dimenticare la grave lacuna nel nostro ordinamento riguardante la disciplina della filiazione naturale che oltre alla carenza di un' uniforme e specifica normativa processuale, eccetto l’unico procedimento riferibile all’art. 317-bis.c.c, si doveva ogni volta dividere le controversie tra il tribunale per i minorenni competente in ordine all’affidamento della prole e il tribunale ordinario competente in ordine alle questioni patrimoniali, ritenuta da molti una grave disparità di trattamento, in confronto alla filiazione legittima che da sempre ha avuto una piena concentrazione di tutele innanzi al tribunale ordinario.
Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 le innovazioni legislative apportate nei confronti della filiazione naturale erano state ritenute sufficienti e adeguate all’epoca, ma al giorno d'oggi erano diventate intollerabili visto l’evoluzione sociale ove la famiglia legittima viene sempre di più sormontata dalla famiglia di fatto.
La normativa 219/2012 ha apportato una serie di cambiamenti sia dal punto di vista sostanziale che processuale adeguando finalmente il sistema normativo del codice civile alle Convenzioni internazionali di New York del 1989 e di Strasburgo del 1996, entrambe ratificate dal nostro ordinamento.
La nuova normativa oltre a novellare una serie di disposizioni tra cui l’art. 38.disp.att.c.c, prevede una serie di criteri per delegare al governo l’emanazione di un decreto delegato allo scopo di uniformare la disciplina del codice civile e delle varie leggi settoriali alle nuove regole introdotte in tema di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità.
La novità più rilevante introdotta dalla normativa si rileva al settimo comma del primo articolo, il novellato art. 315.c.c, in base al quale enunciato “Tutti i figli hanno lo stesso lo stato giuridico”, all’undicesimo comma del primo articolo stabilisce che la terminologia “naturale” e “legittima” in ogni disposizione del codice deve essere sostituite dal termine “figli”.
La novella del 2012 ha modificato la rubrica del titolo nono del libro primo del codice civile che è ora intitolato “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri dei figli”, introducendo al nuovo art. 315.c.c., il principio per cui non esiste alcuna distinzione nell’ambito della filiazione, tutti i figli hanno gli stessi diritti e doveri e non può avvenire una disparità di tutela in riferimento al rapporto giuridico esistente tra i genitori, si prevede infatti l’introduzione del nuovo art. 315-bis.c.c., dove viene enunciato il principio per cui oltre ai doveri nei confronti dei genitori, sono attribuiti ai figli i diritti inerenti al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza, riprendendo similarmente il principio espresso dall’art. 147.c.c.(il quale verrà eliminato in sede di attuazione del decreto delegato), prevedendo in aggiunta il diritto all’assistenza morale, introdotto nell’art. 155.c.c dalla legge del 2006 in riferimento alla filiazione legittima.
Il nuovo art. 315-bis c.c. disponendo che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”, ha attribuito maggior rilievo alla personalità del figlio utilizzando il termine “rispetto” invece della terminologia utilizzata dall’art. 147.c.c, ovvero il “tener conto”, anche se viene criticato l’ordine dei diritti, poiché il diritto all’istruzione viene preceduto da quello all’educazione, invertendo così l’ordine previsto dall’art. 30.Cost.
Si è inoltre previsto giustamente come corollario per l’attuazione dell’unicità dello stato giuridico dei figli, l’abrogazione dell’istituto della legittimazione del figlio naturale.
Un'altra novità rilevante attiene alla modifica dell'art. 74.c.c, il quale prevede che << la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo>>, e a tale disposizione si collega la modifica dell'art. 258.c.c che prevede che << il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso>>.
Il previgente art. 258.c.c dichiarando che<<il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto>>, impediva una piena equiparazione nell'ambito della parentela, poiché si riteneva in base a quest'enunciato che il rapporto di parentela poteva derivare unicamente dal matrimonio, il quale era fonte di certezza e di stabilità giuridica, al contrario della convivenza, e di conseguenza si negava anche la possibilità di ereditare tra fratelli naturali, mancando un rapporto di parentela civile tra quest'ultimi.
Con la nuova formulazione dell'art. 74.c.c e dell'art. 258.c.c si è posto fine a queste inique disparità di trattamento, dichiarando che la parentela è un vincolo che si fonda unicamente sul rapporto di discendenza biologica e che quindi prescinde dal matrimonio.
Dal punto di vista della normativa sostanziale l’equiparazione tra figli legittimi e naturali è finalmente totale ma non si può dire lo stesso con riferimento alla tutela in sede processuale dove le differenziazioni continuano ad esistere.
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