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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-11182019-175232


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
BULLERI, ALESSIO
URN
etd-11182019-175232
Titolo
Il Presidente della Repubblica e le intercettazioni
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Famiglietti, Gianluca
Parole chiave
  • Procura di Palermo
  • sentenza n. 1/2013
  • intercettazioni occasionali
  • Presidente della Repubblica
  • intercettazioni fortuite
  • intercettazioni
  • conflitto di attribuzione
  • Giorgio Napolitano
  • Capo di Stato
  • conflitto
  • Avvocatura di Stato
Data inizio appello
09/12/2019
Consultabilità
Completa
Riassunto
La tesi si pone l’obiettivo di ricostruire il caso del conflitto di attribuzione tra poteri dello stato intervenuto tra procura di Palermo e Presidente della repubblica, e la sentenza n. 1/2013 della Corte Costituzionale che ne è derivata. In particolare, occorre ricordare che questo conflitto si genera per il fatto che il magistrato Nino Di Matteo disse durante un’intervista a La Repubblica che erano state intercettate casualmente delle conversazioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in colloquio con Nicola Mancino, intercettato dalla Procura di Palermo per falsa testimonianza, all’interno della più ampia attività d’indagine sulla valutazione dei comportamenti illeciti di chi partecipò alla cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia, avvenuta negli anni ’90, e la valutazione della possibile attribuzione di una responsabilità penale (ex art. 338 c.p.) a costoro. Va ricordato che, allora, da questa intervista seguì un percorso dialettico tra rappresentanti del Quirinale e il Procuratore della Repubblica del tribunale ordinario di Palermo Francesco Messineo, affinché potesse essere compresa, da parte del Quirinale, la veridicità delle affermazioni compiute dal magistrato di cui sopra, nonché, eventualmente, in caso di risoluzione del dubbio in senso positivo, la valutazione di quasi fossero le volontà dei magistrati.
Quest’ultimi chiarirono che l’intercettazione era avvenuta, tuttavia a carico di un terzo soggetto, Nicola Mancino, persona legittimamente sottoposta ad intercettazione della Procura, in virtù dell’assenza di qualsivoglia carica ricoperta da quest’ultimo, e nonostante il passato politico illustre; e che la captazione del Presidente della Repubblica era avvenuta in via completamente occasionale, e che da tale intercettazione non era rilevato né alcun elemento in grado di poter far dubitare della rilevanza penale del comportamento del Presidente, né era, pertanto, intervenuta nel cosiddetto foro interno dei magistrati un’intenzione di sottoporre a controllo il Presidente, intenzione che avrebbe contrastato con la supposta esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza al Capo dello stato.
Pertanto, trattavisi di intercettazione irrilevante ai fini del processo, destinata alla distruzione secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, così l’opinione dei magistrati. Tale posizione pare preoccupare il Presidente, per la ragione essenziale che seguendo l’iter procedimentale, paventa l’Avvocatura di Stato (in rappresentanza del Presidente della Repubblica), ne sarebbe scaturito il rischio di divulgazione del contenuto delle documentazioni (questo in realtà, si vuol precisare già qua, non per un mal operare dei magistrati, o del traviamento da loro parte delle disposizioni legislative bensì proprio per il contenuto della disciplina attinente la distruzione della documentazione irrilevante, ex art. 268 comma 6 e seguenti, c.p.p.), e il rischio, dunque, di abbandonare il Presidente all’opinione pubblica, tradendo così l’onere costituzionale di tenere lontano il Presidente della Repubblica dai conflitti politici e dai giochi del Parlamento e del Governo.
In realtà, occorre dire, da una parte, che il numero delle intercettazioni nonché la condotta dei magistrati non lasciava palesare in alcuna maniera il cosiddetto fumus persecutionis nei confronti del Presidente della Repubblica. Dall’altra, va detto che l’art. 90 della Costituzione sancisce che il Presidente della Repubblica è irresponsabile sì ma soltanto per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (meriterebbe capire cosa si intenda effettivamente per “atti nell’esercizio delle sue funzioni”, ad esempio, un reato si può intendere come un atto compiuto nell’esercizio delle sue funzioni? Noi siamo decisi nel dire di no), e che deve essere sì mantenuto fuori dai giochi politici ma ciò non significa che non sia mai responsabile per gli atti che compie soltanto perché egli ricopre la più alta carica dello stato.
Sulla base di tali premesse, si noti che la corte costituzionale ha nel caso di specie dato piena ragione al Presidente, accogliendo in toto le richieste conclusive dell’avvocatura dello stato, cioè, che non spettava alla procura di Palermo né valutare la irrilevanza del contenuto delle intercettazioni del Presidente né di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa a tali intercettazioni, senza sottoposizione della stessa a contraddittorio tra le parti. La motivazione della decisione è a nostro avviso molto criticabile poiché finisce per ammettere una tutela abnorme a favore del Presidente, e difficilmente conciliabile con la natura democratica del nostro paese, in particolare con la forma di governo parlamentare.
Si noti in particolare che la sentenza non tiene di conto di numerosi aspetti riconosciuti in precedenti sentenze da parte della stessa corte costituzionale, e per ignorare anche il disegno costituzionale complessivo attinente al Presidente della Repubblica, nonché i parametri normativi di riferimento. Soprattutto si avvale di un’interpretazione a fortiori, ripresa da un caso del passato simile a quello oggetto di trattazione, dove emerge come l’applicazione dei canoni logici tipici dell’interpretazione a fortiori siano completamente distorti e piegati alle esigenze del caso concreto (o meglio: dei casi concreti).
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