Tesi etd-11172013-144232 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
CECCONI, PAMELA
URN
etd-11172013-144232
Titolo
Seeing through Places and Spaces: geografie contemporanee della scrittura del sé
Settore scientifico disciplinare
L-LIN/10
Corso di studi
LETTERATURE STRANIERE MODERNE (FRANCESE, INGLESE, SPAGNOLO, TEDESCO)
Relatori
tutor Prof.ssa Ferrari, Roberta
relatore Prof.ssa Giovannelli, Laura
relatore Prof.ssa Giovannelli, Laura
Parole chiave
- autobiografia
- Ballard
- inglese
- Lively
- McGahern
- spazio
Data inizio appello
13/12/2013
Consultabilità
Completa
Riassunto
La nostra epoca potrebbe dirsi segnata in modo indiscutibile dalla coazione al racconto e all'espressione dell’io, un’attitudine questa che ha coadiuvato la piena legittimazione delle credenziali generiche dell’autobiografia e il suo stagliarsi sullo sfondo del panorama della cultura e della letteratura contemporanea.
Un dato di rilevanza non certo trascurabile è il fatto che l’autobiografia consenta, allo stato attuale, di identificare per le proprie pratiche forme originali (si pensi all’integrazione del genere con i media audio-visuali), modalità di fruizione prima inusitate, e strumenti inediti finalizzati alla rappresentazione di se stessi (primo tra tutti internet, che si è convertito da medium caricato di eterodirezione e passività in piattaforma virtuale calibrata sulle aspettative e sulle circostanze determinanti nella vita di persone comuni), approntando narrazioni in grado non soltanto di captare le rinnovate competenze di un pubblico ipersegmentato e sempre meno ristretto alle élites di letterati e studiosi, ma anche di proporre a ogni potenziale lettore itinerari di vita compiuti da soggetti che, nell’assumere sovente il requisito di rappresentanti degli individui obliterati dalla Storia o marginalizzati all’interno del sistema sociale, difendono la propria specificità e quella del gruppo cui appartengono.
L’autobiografia fornisce, nella fattispecie, un’esauriente struttura teoretica capace di veicolare tanto l’integrazione lungo un asse verticale, dall’“alta cultura” alla cultura popolare e agli aspetti materiali della vita quotidiana, tanto l’integrazione di molte aree attraverso lo spettro intellettuale: ciò che si può rimarcare, da questo specifico punto di vista, è che il dibattito odierno sull’autobiografia non si esprime più soltanto all’interno degli ambienti dell’accademia letteraria, ma ha parimenti investito, e continua a farlo con una velocità esponenziale, gli ambiti della paraletteratura e delle scienze umanistiche in senso lato.
Parlare di autobiografia, e farlo in congiunzione con i mobili quadri del mondo contemporaneo, significa di conseguenza doversi confrontare con un fenomeno difficilmente arginabile per la proliferazione diastratica, il consumo multipolare e multidisciplinare, e infine le questioni che – sul côté della critica e nella sfera relativa alla ricezione e alla pratica della scrittura del sé – sembrano ormai essersi imposti come tratti caratterizzanti del suo sviluppo.
Il presente lavoro vuole esprimere il tentativo di misurarsi direttamente con questioni di così grande spessore cercando di fornire un inquadramento generale della cosiddetta scrittura di vita e di definirne i contorni in relazione al background critico-letterario coevo. Lo studio intrapreso si è voluto collimante con un’interpretazione delle forme e delle funzioni del genere autobiografico a partire segnatamente dagli ultimi due decenni del ventesimo secolo, il che motiva la consacrazione dei primi capitoli e di alcune sezioni di quelli successivi a una discussione tesa a collocare in una dimensione specialistica il retroterra in cui la critica autobiografica si è mossa.
Dopo aver messo in luce gli interrogativi sollevati dai saggi di Philippe Lejeune, Georges Gusdorf e James Olney (cap. 1), le proposte teoriche dei quali sono passate in rassegna per comprovare la loro ridotta “frequentabilità” all’interno degli orizzonti critici odierni, si è ritenuto necessario procedere alla mappatura di alcuni tra gli studi che hanno diretto una ricerca concettualmente e metodologicamente aperta ad approcci diversi.
In questo caso sono le disquisizioni di Paul Eakin, Susanna Egan e Thomas Couser (cap. 2) a essere considerate quali prove efficaci delle ricerche che, a prescindere dalle reti categoriali e dalle semplificazioni essenzialistiche dei loro noti predecessori, hanno penetrato la trama del discorso autobiografico ostendendone le plurime caratterizzazioni tramite orientamenti il cui fulcro risiede nell’assunzione di un’ottica interrelazionale e multistratica (Eakin), nella proposta di una lettura in chiave sociologica della scrittura del sé, riconsiderata alla luce del dialogismo bachtiniano (Egan), o nell’esaltazione delle facoltà che consentono a tale genere di convertirsi in forma di azione e denuncia sociale (Couser).
L’excursus analitico si raccorda poi con la ricognizione di un versante meno soleggiato dell’argomento, ovvero la paradigmatica relazione tra il senso di identità verso la maturazione del quale il discorso autobiografico per sua natura tende, e lo spazio sul cui sfondo tale identità trova una propria definizione, congiuntura questa giustificata dal riscontro dell’organico legame della vita individuale a eventi a luoghi specifici (cap. 3).
Lungi dal voler mostrare con intento onnicomprensivo i modi in cui la dimensione spaziale è generalmente elaborata nella letteratura autobiografica, abbiamo preferito dapprima fornire un quadro analitico capace di rendere conto della sua caratteristica risemantizzazione in seno all’enciclopedia culturale della contemporaneità. Questo seguendo in un primo tempo l’orientamento degli studi di Michel Foucault, Michel De Certeau e Henri Lefebvre, che sono emblematici delle linee di tendenza attestanti, fin dagli anni ’60, una nuova logificazione dello spazio e l’affermazione del suo dominio epistemologico nell’era del globale e del locale insieme.
In un secondo tempo sono passate in rassegna le inchieste inaugurate da alcuni indirizzi della geografia, ai quali ci interessiamo per l’inclinazione a trarre dalla cultura umanistica la propria prassi, nonché a orientare il proprio percorso metodologico in direzione delle scienze sociali: nel dominio specifico della cosiddetta geografia umanistica assistiamo così, grazie all’apporto delle diagnosi effettuate da teorici quali Yi-Fu Tuan ed Edward Relph, alla comprensione e all’implementazione del valore di una produzione letteraria nella quale le auctoritates più ascoltate del settore scorgono la testimonianza della ricomposizione della variegata molteplicità dell’esperienza umana in rapporto a spazi di vita concreti.
Successivamente si mette in evidenza come l’interesse maturato sul tema del legame tra individuo e spazio vissuto non è riducibile alla prospettiva unica della geografia, ma coinvolge altresì la teoria della letteratura, evolutasi da più di mezzo secolo verso un incremento critico che è avvenuto in corrispondenza della valorizzazione del dato topologico all’interno di un corpus fino a poco tempo fa letto prevalentemente nella dimensione temporale (cap. 4).
Dalla constatazione, comune agli indirizzi analizzati, che i luoghi non sono solamente il teatro delle forme di interazione del soggetto, bensì i simboli della sua identità e dei punti di aggancio del suo ricordo, viene tratto un prezioso spunto per quanto concerne la possibilità di poter passare a una ricognizione degli spazi che nella scrittura del sé vengono tradotti in espressione del legame dell’individuo con il mondo, o meglio ancora con una realtà che egli soggettivizza tingendola di percezioni e popolandola dei propri affetti.
Le diverse modulazioni di sguardo e scrittura con cui un autobiografo riproduce narrativamente i propri inscapes – quei luoghi e paesaggi che intervengono a strutturare nel profondo l’io dello scrivente – sono esemplificate nei successivi capitoli (capp. 5-7) dalle opere di Penelope Lively (1933- ), dell’irlandese John McGahern (1934-2006) e di James Graham Ballard (1930-2009): nell’ analisi condotta sulle autobiografie di questi tre autori cerchiamo soprattutto di indicare le modalità attraverso le quali gli “spazi del sé” si definiscono sulla base di idioletti provvisti di un’elevata gradazione soggettiva, le cui differenze dipenderanno tanto da particolarismi esperienziali (l’esperienza che ogni autore matura in relazione a determinati luoghi, e i sentimenti che emanano da tale esperienza, condizionandone e modellandone il ricordo), quanto da una serie mutabile di attitudini percettive.
Le autobiografie prese a modello, quantunque rispondano a scelte soggettive e non possano conseguentemente ergersi a statuto di campionatura sintomatico della diade prescelta, costituiscono un fertile terreno di prova dell’interazione del sé autobiografico con l’elemento spaziale, offrendo dimostrazione dell’attualità persistente di tale nesso, oltre che della varietà di temi da esso mediati.
In ognuna delle sezioni conclusive la trattazione riservata a un singolo autore e alla sua produzione intende in sostanza dirigere l’attenzione su testi autobiografici dai quali si può desumere la singolarità perspicua della dialettica tra processo identitario e spazio vissuto, che a volte risulta essere particolarmente chiara e capillarmente estesa all’intero macrotesto autoriale. La disamina delle opere di Lively, McGahern e Ballard è quindi indetta dalla possibilità di accostarsi alle autobiografie che ognuno degli autori ha redatto per mezzo di una lettura tesa a seguire il filo rosso del rapporto tra individuo e spazio così come condizionato da stati emotivi e affettivi, e filtrato da idiosincrasie culturali, matrici storiche e contingenze situazionali.
La dissertazione trova da ultimo il proprio completamento in un ricco e variegato glossario, la cui la stesura si spiega primariamente con la volontà di facilitare la comprensione di alcuni termini comparsi nei precedenti capitoli, e allo stesso tempo di contribuire a una maggiore chiarezza e completezza terminologica relativa al repertorio del life narrative, che, secondo quanto emerso nelle sezioni introduttive, annovera al proprio interno un numero alquanto eteroclito di forme di rappresentazione del sé, alle quali è corrisposto negli ultimi decenni un dibattito generalmente intenso.
Il glossario comprende molte voci conosciute a chi si interessa di life writing (autobiografia, memoir, confessione, per citarne soltanto alcune), più un’ampia serie di vocaboli il cui recente conio è da attribuire in prevalenza ai Paesi anglosassoni, che li hanno introdotti e usati per descrivere aspetti inediti (si pensi alla rifunzionalizzazione del dettaglio topologico, che è il fulcro attorno al quale ruota la nostra intera trattazione) o misconosciuti delle narrazioni di vita sotto il profilo tematico (ad esempio, il grado di significazione simbolica ascritto al cibo) o formale (tipica è in questo caso l’intermedialità caratteristica di generi quali l’autographics), producendo così ulteriori e potenzialmente inesauribili ramificazioni di generi e sottogeneri auto/biografici.
Un dato di rilevanza non certo trascurabile è il fatto che l’autobiografia consenta, allo stato attuale, di identificare per le proprie pratiche forme originali (si pensi all’integrazione del genere con i media audio-visuali), modalità di fruizione prima inusitate, e strumenti inediti finalizzati alla rappresentazione di se stessi (primo tra tutti internet, che si è convertito da medium caricato di eterodirezione e passività in piattaforma virtuale calibrata sulle aspettative e sulle circostanze determinanti nella vita di persone comuni), approntando narrazioni in grado non soltanto di captare le rinnovate competenze di un pubblico ipersegmentato e sempre meno ristretto alle élites di letterati e studiosi, ma anche di proporre a ogni potenziale lettore itinerari di vita compiuti da soggetti che, nell’assumere sovente il requisito di rappresentanti degli individui obliterati dalla Storia o marginalizzati all’interno del sistema sociale, difendono la propria specificità e quella del gruppo cui appartengono.
L’autobiografia fornisce, nella fattispecie, un’esauriente struttura teoretica capace di veicolare tanto l’integrazione lungo un asse verticale, dall’“alta cultura” alla cultura popolare e agli aspetti materiali della vita quotidiana, tanto l’integrazione di molte aree attraverso lo spettro intellettuale: ciò che si può rimarcare, da questo specifico punto di vista, è che il dibattito odierno sull’autobiografia non si esprime più soltanto all’interno degli ambienti dell’accademia letteraria, ma ha parimenti investito, e continua a farlo con una velocità esponenziale, gli ambiti della paraletteratura e delle scienze umanistiche in senso lato.
Parlare di autobiografia, e farlo in congiunzione con i mobili quadri del mondo contemporaneo, significa di conseguenza doversi confrontare con un fenomeno difficilmente arginabile per la proliferazione diastratica, il consumo multipolare e multidisciplinare, e infine le questioni che – sul côté della critica e nella sfera relativa alla ricezione e alla pratica della scrittura del sé – sembrano ormai essersi imposti come tratti caratterizzanti del suo sviluppo.
Il presente lavoro vuole esprimere il tentativo di misurarsi direttamente con questioni di così grande spessore cercando di fornire un inquadramento generale della cosiddetta scrittura di vita e di definirne i contorni in relazione al background critico-letterario coevo. Lo studio intrapreso si è voluto collimante con un’interpretazione delle forme e delle funzioni del genere autobiografico a partire segnatamente dagli ultimi due decenni del ventesimo secolo, il che motiva la consacrazione dei primi capitoli e di alcune sezioni di quelli successivi a una discussione tesa a collocare in una dimensione specialistica il retroterra in cui la critica autobiografica si è mossa.
Dopo aver messo in luce gli interrogativi sollevati dai saggi di Philippe Lejeune, Georges Gusdorf e James Olney (cap. 1), le proposte teoriche dei quali sono passate in rassegna per comprovare la loro ridotta “frequentabilità” all’interno degli orizzonti critici odierni, si è ritenuto necessario procedere alla mappatura di alcuni tra gli studi che hanno diretto una ricerca concettualmente e metodologicamente aperta ad approcci diversi.
In questo caso sono le disquisizioni di Paul Eakin, Susanna Egan e Thomas Couser (cap. 2) a essere considerate quali prove efficaci delle ricerche che, a prescindere dalle reti categoriali e dalle semplificazioni essenzialistiche dei loro noti predecessori, hanno penetrato la trama del discorso autobiografico ostendendone le plurime caratterizzazioni tramite orientamenti il cui fulcro risiede nell’assunzione di un’ottica interrelazionale e multistratica (Eakin), nella proposta di una lettura in chiave sociologica della scrittura del sé, riconsiderata alla luce del dialogismo bachtiniano (Egan), o nell’esaltazione delle facoltà che consentono a tale genere di convertirsi in forma di azione e denuncia sociale (Couser).
L’excursus analitico si raccorda poi con la ricognizione di un versante meno soleggiato dell’argomento, ovvero la paradigmatica relazione tra il senso di identità verso la maturazione del quale il discorso autobiografico per sua natura tende, e lo spazio sul cui sfondo tale identità trova una propria definizione, congiuntura questa giustificata dal riscontro dell’organico legame della vita individuale a eventi a luoghi specifici (cap. 3).
Lungi dal voler mostrare con intento onnicomprensivo i modi in cui la dimensione spaziale è generalmente elaborata nella letteratura autobiografica, abbiamo preferito dapprima fornire un quadro analitico capace di rendere conto della sua caratteristica risemantizzazione in seno all’enciclopedia culturale della contemporaneità. Questo seguendo in un primo tempo l’orientamento degli studi di Michel Foucault, Michel De Certeau e Henri Lefebvre, che sono emblematici delle linee di tendenza attestanti, fin dagli anni ’60, una nuova logificazione dello spazio e l’affermazione del suo dominio epistemologico nell’era del globale e del locale insieme.
In un secondo tempo sono passate in rassegna le inchieste inaugurate da alcuni indirizzi della geografia, ai quali ci interessiamo per l’inclinazione a trarre dalla cultura umanistica la propria prassi, nonché a orientare il proprio percorso metodologico in direzione delle scienze sociali: nel dominio specifico della cosiddetta geografia umanistica assistiamo così, grazie all’apporto delle diagnosi effettuate da teorici quali Yi-Fu Tuan ed Edward Relph, alla comprensione e all’implementazione del valore di una produzione letteraria nella quale le auctoritates più ascoltate del settore scorgono la testimonianza della ricomposizione della variegata molteplicità dell’esperienza umana in rapporto a spazi di vita concreti.
Successivamente si mette in evidenza come l’interesse maturato sul tema del legame tra individuo e spazio vissuto non è riducibile alla prospettiva unica della geografia, ma coinvolge altresì la teoria della letteratura, evolutasi da più di mezzo secolo verso un incremento critico che è avvenuto in corrispondenza della valorizzazione del dato topologico all’interno di un corpus fino a poco tempo fa letto prevalentemente nella dimensione temporale (cap. 4).
Dalla constatazione, comune agli indirizzi analizzati, che i luoghi non sono solamente il teatro delle forme di interazione del soggetto, bensì i simboli della sua identità e dei punti di aggancio del suo ricordo, viene tratto un prezioso spunto per quanto concerne la possibilità di poter passare a una ricognizione degli spazi che nella scrittura del sé vengono tradotti in espressione del legame dell’individuo con il mondo, o meglio ancora con una realtà che egli soggettivizza tingendola di percezioni e popolandola dei propri affetti.
Le diverse modulazioni di sguardo e scrittura con cui un autobiografo riproduce narrativamente i propri inscapes – quei luoghi e paesaggi che intervengono a strutturare nel profondo l’io dello scrivente – sono esemplificate nei successivi capitoli (capp. 5-7) dalle opere di Penelope Lively (1933- ), dell’irlandese John McGahern (1934-2006) e di James Graham Ballard (1930-2009): nell’ analisi condotta sulle autobiografie di questi tre autori cerchiamo soprattutto di indicare le modalità attraverso le quali gli “spazi del sé” si definiscono sulla base di idioletti provvisti di un’elevata gradazione soggettiva, le cui differenze dipenderanno tanto da particolarismi esperienziali (l’esperienza che ogni autore matura in relazione a determinati luoghi, e i sentimenti che emanano da tale esperienza, condizionandone e modellandone il ricordo), quanto da una serie mutabile di attitudini percettive.
Le autobiografie prese a modello, quantunque rispondano a scelte soggettive e non possano conseguentemente ergersi a statuto di campionatura sintomatico della diade prescelta, costituiscono un fertile terreno di prova dell’interazione del sé autobiografico con l’elemento spaziale, offrendo dimostrazione dell’attualità persistente di tale nesso, oltre che della varietà di temi da esso mediati.
In ognuna delle sezioni conclusive la trattazione riservata a un singolo autore e alla sua produzione intende in sostanza dirigere l’attenzione su testi autobiografici dai quali si può desumere la singolarità perspicua della dialettica tra processo identitario e spazio vissuto, che a volte risulta essere particolarmente chiara e capillarmente estesa all’intero macrotesto autoriale. La disamina delle opere di Lively, McGahern e Ballard è quindi indetta dalla possibilità di accostarsi alle autobiografie che ognuno degli autori ha redatto per mezzo di una lettura tesa a seguire il filo rosso del rapporto tra individuo e spazio così come condizionato da stati emotivi e affettivi, e filtrato da idiosincrasie culturali, matrici storiche e contingenze situazionali.
La dissertazione trova da ultimo il proprio completamento in un ricco e variegato glossario, la cui la stesura si spiega primariamente con la volontà di facilitare la comprensione di alcuni termini comparsi nei precedenti capitoli, e allo stesso tempo di contribuire a una maggiore chiarezza e completezza terminologica relativa al repertorio del life narrative, che, secondo quanto emerso nelle sezioni introduttive, annovera al proprio interno un numero alquanto eteroclito di forme di rappresentazione del sé, alle quali è corrisposto negli ultimi decenni un dibattito generalmente intenso.
Il glossario comprende molte voci conosciute a chi si interessa di life writing (autobiografia, memoir, confessione, per citarne soltanto alcune), più un’ampia serie di vocaboli il cui recente conio è da attribuire in prevalenza ai Paesi anglosassoni, che li hanno introdotti e usati per descrivere aspetti inediti (si pensi alla rifunzionalizzazione del dettaglio topologico, che è il fulcro attorno al quale ruota la nostra intera trattazione) o misconosciuti delle narrazioni di vita sotto il profilo tematico (ad esempio, il grado di significazione simbolica ascritto al cibo) o formale (tipica è in questo caso l’intermedialità caratteristica di generi quali l’autographics), producendo così ulteriori e potenzialmente inesauribili ramificazioni di generi e sottogeneri auto/biografici.
File
Nome file | Dimensione |
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00_Front...ndice.pdf | 204.25 Kb |
01_Capitoloprimo.pdf | 589.43 Kb |
02_Capit...condo.pdf | 511.97 Kb |
03_Capitoloterzo.pdf | 442.75 Kb |
04_Capit...uarto.pdf | 661.69 Kb |
05_Capit...uinto.pdf | 423.45 Kb |
06_Capit...sesto.pdf | 455.33 Kb |
07_Capit...ttimo.pdf | 494.12 Kb |
08_Conclusioni.pdf | 298.58 Kb |
09_Glossario.pdf | 1.69 Mb |
10_Bibliografia.pdf | 443.21 Kb |
11_Ringr...menti.pdf | 68.39 Kb |
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