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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-11132019-202353


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
INGRASCI, MICHELA
URN
etd-11132019-202353
Titolo
L'Occidente e i Foreign Terrorist Fighters: prospettiva storica, percezioni e gestione di un fenomeno complesso
Dipartimento
SCIENZE POLITICHE
Corso di studi
STUDI INTERNAZIONALI
Relatori
relatore Prof. Paoli, Simone
Parole chiave
  • Foreign Fighters
  • Foreign Terrorist Fighters
  • Occidente
  • storia
  • terrorismo
Data inizio appello
02/12/2019
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
02/12/2089
Riassunto
I foreign fighters, combattenti volontari che si recano all’estero allo scopo di partecipare a conflitti che non coinvolgono direttamente il proprio stato di cittadinanza o di residenza abituale, sono da sempre stati percepiti come una minaccia, in particolare nel momento in cui un determinato individuo o gruppo di individui manifestano la volontà di ritornare nel proprio paese di origine. Tale preoccupazione è fondata sul fatto che coloro che tentano il re-ingresso sono normalmente individui ormai adusi alla violenza e potenzialmente capaci, quindi, di compiere crimini una volta rientrati in patria. Tali perplessità hanno raggiunto l’apice in seguito allo scoppio del conflitto civile siriano, il quale ha attratto un numero ingente di combattenti provenienti dall’estero; ha sorpreso, in particolare, la quantità di occidentali che sono partiti per raggiungere l’aerea del conflitto allo scopo di combattere a fianco delle varie entità che si confrontavano sul territorio. Nello specifico, in seguito agli attentati che si sono verificati in Occidente dopo l’11 settembre 2001, la categoria di combattenti stranieri che più ha intimorito i governi e le opinioni pubbliche occidentali è stata quella definita, secondo la risoluzione ONU 2178 (2014), come foreign terrorist fighters, individui che abbandonano il proprio stato di cittadinanza o residenza, allo scopo di raggiungere aree in cui si svolgono conflitti civili, schierandosi a fianco di entità a carattere terroristico esplicitamente menzionate dalla risoluzione in questione. Nonostante all’interno del provvedimento fossero elencate le specifiche misure da attuare affinché gli stati membri potessero contrastare il fenomeno, soprattutto tramite un approccio preventivo, la carenza di una visione comune riguardo la materia trattata fra gli stati occidentali, ha fatto sì che ogni paese adottasse provvedimenti autonomi; nonostante i tentativi, a livello internazionale ed europeo, di coordinare le azioni fra gli stati al fine di contrastare il foreign fighting tramite strategie omogenee e soprattutto preventive dei flussi, alla fine, ogni paese prevede all’interno della propria legislazione provvedimenti differenti, basati soprattutto sulle proprie leggi sull’immigrazione; sul piano internazionale ed europeo la prevenzione dei flussi allo scopo di scongiurare le partenze dei combattenti e, di conseguenza, il loro eventuale ritorno, si concentra maggiormente su azioni di intelligence comuni, anche se, di frequente, gli stati hanno tentato di frenare la circolazione dei combattenti attraverso politiche di revoca dei passaporti. Inoltre, è riscontrata una differenza fra i provvedimenti attuati dagli stati europei e le strategie poste in essere dagli Stati Uniti e dal Canada: quest’ultimi, infatti, si concentrano maggiormente su campagne e attività basate sulla prevenzione alla radicalizzazione, coinvolgendo particolarmente le istituzioni locali. Tuttavia, è importante notare che, dal punto di vista della prassi, la tendenza generale degli stati occidentali è quella di intraprendere altre strade: ad esempio, la pratica della denazionalizzazione di un individuo coinvolto in attività terroristiche è molto diffusa e, spesso, se non disciplinata da apposite leggi che pongono un freno alla discrezione statale, essa può generare situazioni di apolidia oppure l’incarcerazione, la quale, però, secondo il parere di alcuni esperti, potrebbe consolidare ulteriormente la radicalizzazione di un individuo; esistono anche programmi di de-radicalizzazione, riabilitazione e reintegrazione per individui tornati dalle zone di conflitto, di cui la strategia danese rappresenta un caso esemplare.
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