Tesi etd-11092010-111212 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
GIZZI, DANIELE
URN
etd-11092010-111212
Titolo
Geopolitica dell'Asia Centrale alla luce dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
Dipartimento
SCIENZE POLITICHE
Corso di studi
POLITICHE E RELAZIONI INTERNAZIONALI
Relatori
relatore Prof. Vernassa, Maurizio
Parole chiave
- Asia Centrale
- Central Asian geopolitics
- Central-Asian Republics
- energy resource
- geopolitica centroasiatica
- il Nuovo Grande Gioco
- Kazakistan
- Kirghizistan
- Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
- relazioni sino-russe
- repubbliche centroasiatiche
- risorse energetiche
- Shanghai Cooperation Organisation
- sino-russian relations
- Tagikistan
- The New Great Game
- Uzbekistan
Data inizio appello
29/11/2010
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
29/11/2050
Riassunto
Con la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989, e il conseguente crollo dell'Impero Sovietico si era diffusa, nei primi anni Novanta, la certezza di essere entrati in una nuova fase della storia contemporanea, con inevitabili stravolgimenti nel sistema delle relazioni internazionali e degli equilibri transnazionali.
Nel 1989 l'Unione Europea era un miraggio, un progetto discusso e contestato nei salotti diplomatici del Vecchio Continente, incapace di intervenire per placare il caos che si era venuto a creare nei paesi dell'Est europeo. Le fortissime divisioni sulla politica estera tra gli stati membri costrinsero le cancellerie europee ad elaborare soluzioni1 che mirassero prevalentemente all'integrazione economica e alla libera circolazione interna agli allora 12 paesi membri delle comunità rinunciando a disciplinare in modo organico e puntuale l'azione europea in politica estera. Il risultato di questo approccio fu una sostanziale mancanza di una politica estera europea in tutte le gravi crisi nelle quali i paesi europei si trovarono coinvolti. Le risposte europee agli avvenimenti geopolitici mondiali furono per tutti gli anni Novanta (e lo sono state anche nel primo decennio del nuovo millennio2) contraddittorie e incoerenti; la politica estera dell'Unione fu lasciata in balia delle soluzioni dei governi degli stati membri, dominati da interessi geo-strategici particolari e nazionali3. Le incertezze e la mancanza di coesione negli approcci internazionali da parte dell'Unione Europea relegarono il Vecchio Continente, inteso come un unicum politico, ad una posizione defilata nella gestione e nella risoluzione delle grandi crisi che caratterizzarono i paesi del ex blocco-sovietico. L'azione più coraggiosa di Bruxelles nei confronti dell'area centroasiatica si registrò nel 1993 quando venne lanciato il “Progetto Traceca4” che entrò nella sua fase attiva tra il 1994 e il 1995. L'obiettivo di questo programma di cooperazione economica era quello di tagliare fuori la Russia dalle attività di trasporto, di costruzione e gestione degli oleodotti ed in generale dagli investimenti dell'Europa in l'Asia Centrale. Questo progetto coinvolgeva e soddisfaceva anche le ambizioni della Turchia, alleato storico degli Stati Uniti e membro della Nato.
Se nel 1989 l'Europa presentava ancora molta timidezza come grande attore internazionale la Cina, senza complessi di inferiorità, si presentava sul palcoscenico internazionale come unico attore in grado di colmare il vuoto lasciato dal crollo del regime di Mosca negli equilibri internazionali. Gli sforzi della dirigenza di Pechino erano orientati ad ottenere il riconoscimento, ormai acquisito nei fatti, dello status di grande potenza mondiale economica e militare da parte della comunità internazionale. Al suo interno il Paese era ostaggio di una grave crisi economica e politica scaturita dai forti squilibri economici e sociali che avevano portato ad un diffuso malcontento e a forme organizzate di protesta. I dirigenti del PCC reagirono alle sommosse soffocando le opposizioni e reprimendo nel sangue le manifestazioni di dissenso5, condotta questa che andò a scalfire non poco l'immagine che la Cina stava cercando da molto tempo di tramettere al mondo occidentale.
Tra il 1989 e il 1990 tutti gli stati dell'Europa orientale compresi nel blocco sovietico proclamarono la loro indipendenza da Mosca. L'8 dicembre 1991, a Minsk, i Capi di Stato di Bielorussia, della Federazione Russa e dell'Ucraina siglarono un accordo che proclamò la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti sancendo così la fine dell'Unione Sovietica.
Le repubbliche centro asiatiche si trovarono drammaticamente e improvvisamente indipendenti, prive di ogni struttura politica e istituzionale che potesse esercitare una effettiva sovranità sul territorio, presero l'obbligata decisione, dopo un incontro ad Ashkhabad, di entrare a far parte della neonata comunità di Stati. Il 21 dicembre 1991 venne proclamato solennemente ad Alma Ata in Kazakistan l'ingresso nella CSI di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
La ratio dell'accordo era di minimizzare l'impatto traumatico causato dal venir meno dello Stato Sovietico. In epoca sovietica, infatti, le relazioni tra la regione ed il mondo esterno venivano condotte da Mosca, l'accesso stesso alla regione era fortemente limitato per la quasi totalità dei cittadini non sovietici. Questi paesi erano totalmente sprovvisti di un apparato diplomatico e non conducevano nel sistema internazionale alcuna politica auton6; era il Cremlino, infatti, a garantire l'ordine e la stabilità della regione i cui interessi geo-strategici venivano ricondotti a quelli dell'intera Unione.
L'implosione dello stato sovietico catapultò le repubbliche centroasiatiche nel grande gioco internazionale. La conseguente indipendenza di questi paesi dette loro maggiore attenzione e rilevanza nei confronti degli attori internazionali, desiderosi sia di aumentare la loro influenza nella regione, sia di controllarne le immense risorse energetiche. Anche dal punto di vista geografico, l'Asia centrale costituiva un tassello fondamentale per tutte le potenze coinvolte nello scacchiere asiatico7; queste regioni, infatti, rappresentando una parte significativa della massa euroasiatica, che oltre alle cinque repubbliche post-sovietiche (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan) comprende anche la Mongolia, il Xinjiang e l'Afghanistan.
La questione energetica costituì un'altra importantissima ragione per cui le potenze internazionali comprese le compagnie petrolifere posero una sempre più crescente attenzione verso la regione8.
Negli anni Novanta le relazioni tra Mosca e le repubbliche centroasiatiche furono contraddistinte da una radicale perdita di influenza da parte russa a livello sia politico che culturale; l'indebolimento della posizione della Russia era dettato dalle difficoltà incontrate dalla classe dirigente nell'elaborare una strategia di uscita e di disimpegno da queste regioni e dalla volontà delle élite locali di allontanarsi dall'ombrello protettore di Mosca che per più di sessanta anni aveva dominato il teatro centroasiatico.
Il biennio 1999-2001 costituì uno spartiacque fondamentale per il ruolo russo in Asia Centrale, nel giro di due anni infatti si passò da una situazione di declino inarrestabile ad un recupero dell'influenza perduta. Un tentativo di mantenere un legame militare tra Mosca e le repubbliche centroasiatiche era stato tentato già nel 1992 con la firma a Tashkent del “Trattato di Sicurezza Collettiva” (TSC), tentativo fallito sia per reale mancanza di volontà da parte dei dirigenti delle ex repubbliche sovietiche di porsi nuovamente sotto l'ombrello militare russo, sia per l'assenza di capacità, da parte russa di tradurre in pratica le dichiarazioni dei trattati. La “riconquista” dell'influenza perduta iniziò sul finire degli anni Novanta. Il “ritorno russo” fu agevolato da due fattori: il primo economico, il secondo politico. Per quanto riguarda l'aspetto economico la Russia stava vivendo in quegli anni una forte crescita favorita dall'aumento dei prezzi delle materie e dalla debolezza del rublo che gli aveva permesso un più ampio dinamismo sui mercati internazionali. Per quanto concerne l'aspetto politico, invece, l'ascesa alla Presidenza della Federazione Russa da parte di Vladimir Putin modificò l'approccio del Cremlino alla politica estera che fino a quel momento era stato incerto e disorganico9. Il nuovo presidente enunciò chiaramente gli obiettivi da seguire nella bozza di Dottrina Militare del 1999, nella quale vennero ascritte in modo inequivocabile e chiaro le priorità e gli obiettivi strategici del paese. La nuova politica estera si sarebbe basata su un approccio multipolare e orientata al contenimento dell'influenza straniera nello spazio post-sovietico. Questo approccio implicava chiaramente un cambio di strategia nel teatro centroasiatico.
Fin dal 194910, i rapporti sino-sovietici furono caratterizzati da un alternanza tra momenti di armonia11 e collaborazione a situazioni di vero e proprio scontro politico12 e militare, fino ad arrivare alla rottura totale negli anni Sessanta13. Solamente negli anni Ottanta ci fu un'apparente convergenza e parallelismo nelle politiche estere di Pechino e Mosca. Questa ritrovata armonia ebbe però vita breve, infatti, nel 1991 il regime sovietico crollò e con esso tutti gli equilibri e gli aggiustamenti che tanto faticosamente erano stati raggiunti.
La Cina fu senza dubbio la potenza che manifestò maggiore interesse e attenzione nei confronti della regione centroasiatica in seguito all'indebolimento della presenza russa nell'area.
L'indebolirsi della presenza di Mosca liberò le neonate repubbliche centroasiatiche dal legame che per oltre mezzo secolo le aveva vincolate all'economia sovietica.
La costante crescita economica cinese e la continua richiesta di materie prime e prodotti energetici non facevano altro che aumentare agli occhi di Pechino l'appetibilità delle neonate repubbliche che ospitavano nel loro sottosuolo importanti giacimenti di gas naturale, petrolio e minerali.
L'”Antica via della seta” tornò così alla ribalta. La Cina non poteva (e non voleva) esimersi dallo svolgere un ruolo centrale nella spartizione delle quote di influenza in questo nuovo teatro14.
Alle rivalità nate tra gli attori in gioco, derivanti principalmente dalla corsa allo sfruttamento delle immense riserve petrolifere e di gas dell'Asia Centrale, si sono aggiunte rapidamente altre questioni di natura strategica. Una delle prime conseguenze della fine della Guerra Fredda in Asia Centrale fu infatti l'espansione su larga scala dell'influenza islamica e del fondamentalismo islamico. Molti paesi musulmani15, infatti, intervennero in seguito al ritiro russo, con ingenti investimenti, donazioni e contributi religiosi, favorendo e incoraggiando la rinascita islamica16.
Nel complesso scacchiere internazionale post-sovietico si andarono ad inserire anche i leader dei regimi delle repubbliche, che, dopo sessantanni di giogo sovietico, si rifiutarono di svolgere il ruolo di semplici perdine negli schemi delle superpotenze, ed ambivano sempre di più ad avere un proprio ruolo e a giocare ognuno la propria partita17.
La presenza e l'influenza cinese, cresciuta, sin dai primi anni degli anni Novanta, e il reimpegno russo con la presidenza di Vladimir Putin sono state accompagnate dalla via via sempre più crescente presenza militare americana (dettata o giustificata dalla guerra al terrorismo) che è culminata con l'intervento in Afghanistan nell'ottobre del 2001.
Nel 1996 la Cina si fece promotore di un accordo internazionale con l'obiettivo di mettere ordine e disciplinare gli approcci delle potenze regionali interessate nel contesto dell'Asia Centrale e di garantire la stabilità e il controllo delle regioni dei confini dei paesi aderenti. Nacque così a Shanghai il cosiddetto “Gruppo dei Cinque” o “Gruppo di Shanghai”; i 5 Capi di Stato di Kazakistan, Cina, Kirghizistan, Tagikistan e Russia firmarono il “Trattato per il rafforzamento dell'appoggio militare nelle regioni di confine18”.
Nel 2001, durante il summit annuale del “Gruppo dei cinque” i rappresentanti degli stati membri, dopo aver accolto l'adesione dell'Uzbekistan, diedero vita ad una nuova organizzazione, firmando la Dichiarazione dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai19. Un anno dopo, nel giugno del 2002, si provvide all'istituzionalizzazione dal punto di vista del diritto internazionale della Cooperazione; a San Pietroburgo, infatti, venne firmato lo Statuto della SCO, nel quale venivano dichiarati gli obiettivi, le strutture, i principi e gli orientamenti dell'azione dell'Organizzazione.
Originariamente la SCO nacque come organizzazione antiterroristica, volta a «combattere ogni forma di separatismo e fondamentalismo all'interno dei confini degli stati che la compongono20», ma c'è chi sostiene che in realtà l'organizzazione si sia trasformata nel tempo in una sorta di “blocco militare21”. A sostegno di questa interpretazione stanno le numerose e importanti esercitazioni militari effettuate nell'ambito della SCO; nell'agosto del 2005, Russia e Cina, in virtù degli accordi ascrivibili al trattato istitutivo della Cooperazione, hanno condotto vaste ed imponenti manovre militari nella penisola dello Shandong. L'operazione è stata denominate “Peace Mission 2005” e ha destato non poche preoccupazioni negli ambienti diplomatici occidentali.
L'estate del 2006 è stata caratterizzata da nuove esercitazioni, che hanno visto, questa volta, la partecipazione congiunta di reparti militari cinesi e kazaki. Le operazioni hanno avuto luogo tra la regione autonoma dello Xinjiang e la regione di Almaty. Nelle operazioni sono stati impiegati elicotteri armati, veicoli anti-sommossa e forze speciali militari e di polizia. Tutti i paesi aderenti alla SCO hanno partecipato attivamente al controllo delle operazioni grazie alla presenza di 100 osservatori ufficiali inviati dai rispettivi governi nazionali. Le ultime manovre hanno avuto luogo nell’agosto del 2007, e hanno coinvolto per la prima volta le forze militari di tutti i paesi membri.
Le ipotesi che vedono la SCO come un nuovo Patto di Varsavia, con l'obiettivo di limitare e contrastare l'influenza americana in Asia Centrale, sono oggetto di un acceso dibattito tra gli esperti di politica internazionale; certo è che nel Summit della SCO tenutosi ad Astana nel 2005 venne chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di specificare i tempi del ritiro militare dall'Uzbekistan22.
Nel 2006, l'Organizzazione di Shanghai ha conosciuto un ulteriore potenziamento delle sue prerogative e dei suoi strumenti; durante il Summit annuale dei Capi di Stato dei paesi membri, infatti, sono state create nuove istituzioni che hanno aumentato e rafforzato l'integrazione economica e commerciale dell'area centro asiatica. Una risoluzione, infatti, ha dotato l'Organizzazione di un Consiglio economico e di una Società interbancaria23. La Cina ha dato un tangibile sostegno all'integrazione economica, istituendo un Fondo di quasi 1 miliardo di dollari a supporto della cooperazione economica24.
Il summit del 2006 aprì nuove prospettive alla SCO; nel Comunicato finale dell'incontro, infatti, si affermò la volontà di accrescere il ruolo internazionale dell'organizzazione, facendole assumere un atteggiamento più incisivo e presente nelle questioni internazionali. Se ai paesi membri si aggiungono gli stati che hanno fatto richiesta di entrare all'interno della SCO, le ambizioni di questa organizzazione a porsi come principale attore internazionale euroasiatico25 sono evidenti. Nel 2004, la Mongolia è diventata il primo stato a ricevere lo status di osservatore nella SCO, status che è stato riconosciuto un anno più tardi anche a Iran, India e Pakistan.
L'allargamento potenzierebbe in modo sostanziale l'influenza della SCO sullo sviluppo e sulla commercializzazione delle risorse energetiche dell'Asia centrale. L'adesione di Teheran è fortemente auspicata e sostenuta dai dirigenti di Mosca, desiderosi di veder entrare nell'organizzazione un loro potente e strategico alleato commerciale26.
Nel 1989 l'Unione Europea era un miraggio, un progetto discusso e contestato nei salotti diplomatici del Vecchio Continente, incapace di intervenire per placare il caos che si era venuto a creare nei paesi dell'Est europeo. Le fortissime divisioni sulla politica estera tra gli stati membri costrinsero le cancellerie europee ad elaborare soluzioni1 che mirassero prevalentemente all'integrazione economica e alla libera circolazione interna agli allora 12 paesi membri delle comunità rinunciando a disciplinare in modo organico e puntuale l'azione europea in politica estera. Il risultato di questo approccio fu una sostanziale mancanza di una politica estera europea in tutte le gravi crisi nelle quali i paesi europei si trovarono coinvolti. Le risposte europee agli avvenimenti geopolitici mondiali furono per tutti gli anni Novanta (e lo sono state anche nel primo decennio del nuovo millennio2) contraddittorie e incoerenti; la politica estera dell'Unione fu lasciata in balia delle soluzioni dei governi degli stati membri, dominati da interessi geo-strategici particolari e nazionali3. Le incertezze e la mancanza di coesione negli approcci internazionali da parte dell'Unione Europea relegarono il Vecchio Continente, inteso come un unicum politico, ad una posizione defilata nella gestione e nella risoluzione delle grandi crisi che caratterizzarono i paesi del ex blocco-sovietico. L'azione più coraggiosa di Bruxelles nei confronti dell'area centroasiatica si registrò nel 1993 quando venne lanciato il “Progetto Traceca4” che entrò nella sua fase attiva tra il 1994 e il 1995. L'obiettivo di questo programma di cooperazione economica era quello di tagliare fuori la Russia dalle attività di trasporto, di costruzione e gestione degli oleodotti ed in generale dagli investimenti dell'Europa in l'Asia Centrale. Questo progetto coinvolgeva e soddisfaceva anche le ambizioni della Turchia, alleato storico degli Stati Uniti e membro della Nato.
Se nel 1989 l'Europa presentava ancora molta timidezza come grande attore internazionale la Cina, senza complessi di inferiorità, si presentava sul palcoscenico internazionale come unico attore in grado di colmare il vuoto lasciato dal crollo del regime di Mosca negli equilibri internazionali. Gli sforzi della dirigenza di Pechino erano orientati ad ottenere il riconoscimento, ormai acquisito nei fatti, dello status di grande potenza mondiale economica e militare da parte della comunità internazionale. Al suo interno il Paese era ostaggio di una grave crisi economica e politica scaturita dai forti squilibri economici e sociali che avevano portato ad un diffuso malcontento e a forme organizzate di protesta. I dirigenti del PCC reagirono alle sommosse soffocando le opposizioni e reprimendo nel sangue le manifestazioni di dissenso5, condotta questa che andò a scalfire non poco l'immagine che la Cina stava cercando da molto tempo di tramettere al mondo occidentale.
Tra il 1989 e il 1990 tutti gli stati dell'Europa orientale compresi nel blocco sovietico proclamarono la loro indipendenza da Mosca. L'8 dicembre 1991, a Minsk, i Capi di Stato di Bielorussia, della Federazione Russa e dell'Ucraina siglarono un accordo che proclamò la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti sancendo così la fine dell'Unione Sovietica.
Le repubbliche centro asiatiche si trovarono drammaticamente e improvvisamente indipendenti, prive di ogni struttura politica e istituzionale che potesse esercitare una effettiva sovranità sul territorio, presero l'obbligata decisione, dopo un incontro ad Ashkhabad, di entrare a far parte della neonata comunità di Stati. Il 21 dicembre 1991 venne proclamato solennemente ad Alma Ata in Kazakistan l'ingresso nella CSI di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
La ratio dell'accordo era di minimizzare l'impatto traumatico causato dal venir meno dello Stato Sovietico. In epoca sovietica, infatti, le relazioni tra la regione ed il mondo esterno venivano condotte da Mosca, l'accesso stesso alla regione era fortemente limitato per la quasi totalità dei cittadini non sovietici. Questi paesi erano totalmente sprovvisti di un apparato diplomatico e non conducevano nel sistema internazionale alcuna politica auton6; era il Cremlino, infatti, a garantire l'ordine e la stabilità della regione i cui interessi geo-strategici venivano ricondotti a quelli dell'intera Unione.
L'implosione dello stato sovietico catapultò le repubbliche centroasiatiche nel grande gioco internazionale. La conseguente indipendenza di questi paesi dette loro maggiore attenzione e rilevanza nei confronti degli attori internazionali, desiderosi sia di aumentare la loro influenza nella regione, sia di controllarne le immense risorse energetiche. Anche dal punto di vista geografico, l'Asia centrale costituiva un tassello fondamentale per tutte le potenze coinvolte nello scacchiere asiatico7; queste regioni, infatti, rappresentando una parte significativa della massa euroasiatica, che oltre alle cinque repubbliche post-sovietiche (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan) comprende anche la Mongolia, il Xinjiang e l'Afghanistan.
La questione energetica costituì un'altra importantissima ragione per cui le potenze internazionali comprese le compagnie petrolifere posero una sempre più crescente attenzione verso la regione8.
Negli anni Novanta le relazioni tra Mosca e le repubbliche centroasiatiche furono contraddistinte da una radicale perdita di influenza da parte russa a livello sia politico che culturale; l'indebolimento della posizione della Russia era dettato dalle difficoltà incontrate dalla classe dirigente nell'elaborare una strategia di uscita e di disimpegno da queste regioni e dalla volontà delle élite locali di allontanarsi dall'ombrello protettore di Mosca che per più di sessanta anni aveva dominato il teatro centroasiatico.
Il biennio 1999-2001 costituì uno spartiacque fondamentale per il ruolo russo in Asia Centrale, nel giro di due anni infatti si passò da una situazione di declino inarrestabile ad un recupero dell'influenza perduta. Un tentativo di mantenere un legame militare tra Mosca e le repubbliche centroasiatiche era stato tentato già nel 1992 con la firma a Tashkent del “Trattato di Sicurezza Collettiva” (TSC), tentativo fallito sia per reale mancanza di volontà da parte dei dirigenti delle ex repubbliche sovietiche di porsi nuovamente sotto l'ombrello militare russo, sia per l'assenza di capacità, da parte russa di tradurre in pratica le dichiarazioni dei trattati. La “riconquista” dell'influenza perduta iniziò sul finire degli anni Novanta. Il “ritorno russo” fu agevolato da due fattori: il primo economico, il secondo politico. Per quanto riguarda l'aspetto economico la Russia stava vivendo in quegli anni una forte crescita favorita dall'aumento dei prezzi delle materie e dalla debolezza del rublo che gli aveva permesso un più ampio dinamismo sui mercati internazionali. Per quanto concerne l'aspetto politico, invece, l'ascesa alla Presidenza della Federazione Russa da parte di Vladimir Putin modificò l'approccio del Cremlino alla politica estera che fino a quel momento era stato incerto e disorganico9. Il nuovo presidente enunciò chiaramente gli obiettivi da seguire nella bozza di Dottrina Militare del 1999, nella quale vennero ascritte in modo inequivocabile e chiaro le priorità e gli obiettivi strategici del paese. La nuova politica estera si sarebbe basata su un approccio multipolare e orientata al contenimento dell'influenza straniera nello spazio post-sovietico. Questo approccio implicava chiaramente un cambio di strategia nel teatro centroasiatico.
Fin dal 194910, i rapporti sino-sovietici furono caratterizzati da un alternanza tra momenti di armonia11 e collaborazione a situazioni di vero e proprio scontro politico12 e militare, fino ad arrivare alla rottura totale negli anni Sessanta13. Solamente negli anni Ottanta ci fu un'apparente convergenza e parallelismo nelle politiche estere di Pechino e Mosca. Questa ritrovata armonia ebbe però vita breve, infatti, nel 1991 il regime sovietico crollò e con esso tutti gli equilibri e gli aggiustamenti che tanto faticosamente erano stati raggiunti.
La Cina fu senza dubbio la potenza che manifestò maggiore interesse e attenzione nei confronti della regione centroasiatica in seguito all'indebolimento della presenza russa nell'area.
L'indebolirsi della presenza di Mosca liberò le neonate repubbliche centroasiatiche dal legame che per oltre mezzo secolo le aveva vincolate all'economia sovietica.
La costante crescita economica cinese e la continua richiesta di materie prime e prodotti energetici non facevano altro che aumentare agli occhi di Pechino l'appetibilità delle neonate repubbliche che ospitavano nel loro sottosuolo importanti giacimenti di gas naturale, petrolio e minerali.
L'”Antica via della seta” tornò così alla ribalta. La Cina non poteva (e non voleva) esimersi dallo svolgere un ruolo centrale nella spartizione delle quote di influenza in questo nuovo teatro14.
Alle rivalità nate tra gli attori in gioco, derivanti principalmente dalla corsa allo sfruttamento delle immense riserve petrolifere e di gas dell'Asia Centrale, si sono aggiunte rapidamente altre questioni di natura strategica. Una delle prime conseguenze della fine della Guerra Fredda in Asia Centrale fu infatti l'espansione su larga scala dell'influenza islamica e del fondamentalismo islamico. Molti paesi musulmani15, infatti, intervennero in seguito al ritiro russo, con ingenti investimenti, donazioni e contributi religiosi, favorendo e incoraggiando la rinascita islamica16.
Nel complesso scacchiere internazionale post-sovietico si andarono ad inserire anche i leader dei regimi delle repubbliche, che, dopo sessantanni di giogo sovietico, si rifiutarono di svolgere il ruolo di semplici perdine negli schemi delle superpotenze, ed ambivano sempre di più ad avere un proprio ruolo e a giocare ognuno la propria partita17.
La presenza e l'influenza cinese, cresciuta, sin dai primi anni degli anni Novanta, e il reimpegno russo con la presidenza di Vladimir Putin sono state accompagnate dalla via via sempre più crescente presenza militare americana (dettata o giustificata dalla guerra al terrorismo) che è culminata con l'intervento in Afghanistan nell'ottobre del 2001.
Nel 1996 la Cina si fece promotore di un accordo internazionale con l'obiettivo di mettere ordine e disciplinare gli approcci delle potenze regionali interessate nel contesto dell'Asia Centrale e di garantire la stabilità e il controllo delle regioni dei confini dei paesi aderenti. Nacque così a Shanghai il cosiddetto “Gruppo dei Cinque” o “Gruppo di Shanghai”; i 5 Capi di Stato di Kazakistan, Cina, Kirghizistan, Tagikistan e Russia firmarono il “Trattato per il rafforzamento dell'appoggio militare nelle regioni di confine18”.
Nel 2001, durante il summit annuale del “Gruppo dei cinque” i rappresentanti degli stati membri, dopo aver accolto l'adesione dell'Uzbekistan, diedero vita ad una nuova organizzazione, firmando la Dichiarazione dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai19. Un anno dopo, nel giugno del 2002, si provvide all'istituzionalizzazione dal punto di vista del diritto internazionale della Cooperazione; a San Pietroburgo, infatti, venne firmato lo Statuto della SCO, nel quale venivano dichiarati gli obiettivi, le strutture, i principi e gli orientamenti dell'azione dell'Organizzazione.
Originariamente la SCO nacque come organizzazione antiterroristica, volta a «combattere ogni forma di separatismo e fondamentalismo all'interno dei confini degli stati che la compongono20», ma c'è chi sostiene che in realtà l'organizzazione si sia trasformata nel tempo in una sorta di “blocco militare21”. A sostegno di questa interpretazione stanno le numerose e importanti esercitazioni militari effettuate nell'ambito della SCO; nell'agosto del 2005, Russia e Cina, in virtù degli accordi ascrivibili al trattato istitutivo della Cooperazione, hanno condotto vaste ed imponenti manovre militari nella penisola dello Shandong. L'operazione è stata denominate “Peace Mission 2005” e ha destato non poche preoccupazioni negli ambienti diplomatici occidentali.
L'estate del 2006 è stata caratterizzata da nuove esercitazioni, che hanno visto, questa volta, la partecipazione congiunta di reparti militari cinesi e kazaki. Le operazioni hanno avuto luogo tra la regione autonoma dello Xinjiang e la regione di Almaty. Nelle operazioni sono stati impiegati elicotteri armati, veicoli anti-sommossa e forze speciali militari e di polizia. Tutti i paesi aderenti alla SCO hanno partecipato attivamente al controllo delle operazioni grazie alla presenza di 100 osservatori ufficiali inviati dai rispettivi governi nazionali. Le ultime manovre hanno avuto luogo nell’agosto del 2007, e hanno coinvolto per la prima volta le forze militari di tutti i paesi membri.
Le ipotesi che vedono la SCO come un nuovo Patto di Varsavia, con l'obiettivo di limitare e contrastare l'influenza americana in Asia Centrale, sono oggetto di un acceso dibattito tra gli esperti di politica internazionale; certo è che nel Summit della SCO tenutosi ad Astana nel 2005 venne chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di specificare i tempi del ritiro militare dall'Uzbekistan22.
Nel 2006, l'Organizzazione di Shanghai ha conosciuto un ulteriore potenziamento delle sue prerogative e dei suoi strumenti; durante il Summit annuale dei Capi di Stato dei paesi membri, infatti, sono state create nuove istituzioni che hanno aumentato e rafforzato l'integrazione economica e commerciale dell'area centro asiatica. Una risoluzione, infatti, ha dotato l'Organizzazione di un Consiglio economico e di una Società interbancaria23. La Cina ha dato un tangibile sostegno all'integrazione economica, istituendo un Fondo di quasi 1 miliardo di dollari a supporto della cooperazione economica24.
Il summit del 2006 aprì nuove prospettive alla SCO; nel Comunicato finale dell'incontro, infatti, si affermò la volontà di accrescere il ruolo internazionale dell'organizzazione, facendole assumere un atteggiamento più incisivo e presente nelle questioni internazionali. Se ai paesi membri si aggiungono gli stati che hanno fatto richiesta di entrare all'interno della SCO, le ambizioni di questa organizzazione a porsi come principale attore internazionale euroasiatico25 sono evidenti. Nel 2004, la Mongolia è diventata il primo stato a ricevere lo status di osservatore nella SCO, status che è stato riconosciuto un anno più tardi anche a Iran, India e Pakistan.
L'allargamento potenzierebbe in modo sostanziale l'influenza della SCO sullo sviluppo e sulla commercializzazione delle risorse energetiche dell'Asia centrale. L'adesione di Teheran è fortemente auspicata e sostenuta dai dirigenti di Mosca, desiderosi di veder entrare nell'organizzazione un loro potente e strategico alleato commerciale26.
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