Tesi etd-11042012-165139 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
ANGELOTTI, GIORGIO
URN
etd-11042012-165139
Titolo
IL TRAINING FISICO NEL PAZIENTE CON SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
Dipartimento
MEDICINA CLINICA E SPERIMENTALE
Corso di studi
SCIENZE E TECNICHE DELLE ATTIVITA' MOTORIE PREVENTIVE E ADATTATE
Relatori
relatore Prof. Galetta, Fabio
Parole chiave
- attività fisica
- SCC
- scompenso cardiaco
- training
Data inizio appello
21/11/2012
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
21/11/2052
Riassunto
L’incidenza e la prevalenza dello scompenso cardiaco cronico (SCC) hanno avuto un notevole incremento negli ultimi anni, dovuto in parte all’aumento dell’età media della popolazione e in parte ai successi della terapia farmacologica che hanno permesso ai pazienti con patologiche cardiovascolari gravi di vivere più a lungo. Pertanto, lo SCC è divenuto un problema clinico e sanitario sempre più frequente.
Lo SCC è una sindrome clinica complessa che ha come primum movens la disfunzione emodinamica, che determina l’incapacità di alimentare un’adeguata perfusione periferica che soddisfi le esigenze metaboliche e nutritivi di organi e muscoli: successivamente una costellazione di adattamenti neuroendocrini, renali, muscolari e metabolici contribuiscono a mantenere e peggiorare lo stato clinico.
L’aspetto clinico più rilevante dello SCC è la ridotta capacità lavorativa, dovuta alla precoce comparsa di dispnea e fatica. Paradossalmente la limitazione funzionale non correla con la frazione di eiezione del ventricolo sinistro a riposo e scarsamente con la risposta emodinamica allo sforzo: questa discordanza ha suggerito l’ipotesi che fattori periferici potessero concorrere nel determinare il quadro clinico. Il cuore e la periferia, il muscolo scheletrico, sono strettamente collegati sia nei soggetti sani sia nei pazienti con SCC; di conseguenza, la conoscenza delle connessioni esistenti e il loro ruolo nella genesi dei sintomi hanno determinato importanti implicazioni cliniche e terapeutiche. Una delle principali è l’applicazione di programmi di training fisico, che in passato venivano sconsigliati in pazienti affetti da SCC.
Numerose evidenze cliniche e sperimentali hanno dimostrato i benefici del training fisico, documentando come gli effetti dell’attività fisica in questi pazienti si esplicano principalmente a livello periferico, con un incremento della capacità lavorativa in assenza di conseguenze deleterie sulla funzione ventricolare e sull’emodinamica centrale. In aggiunta numerosi studi confermano l’efficacia e la non pericolosità dell’attività fisica in pazienti clinicamente stabili. Gli effetti sul sistema neurovegetativo, la minor suscettibilità alle aritmie ventricolari e la possibilità di condizionare la progressione della malattia ateromasica suggeriscono anche implicazioni prognostiche, con riduzione del rischio di morbilità e mortalità.
Studi recenti hanno dimostrato che nei soggetti con SCC l’interval training (IT) ad alta intensità induce significativi miglioramenti, riguardanti le capacità funzionali, superiori rispetto ai benefici già descritti con il classico protocollo di training continuato (Freyssin et al. del 2012; Moholdt TT et al 2009).
Infatti Freyssin et al. ha dimostrato che un programma di allenamento continuato (CT) porta ad un innalzamento della prima soglia ventilatoria (VT1), ma non evidenzia nessun cambiamento significativo riguardo al massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), della durata dell’attività fisica e del consumo di ossigeno (VO2) al tempo della prima soglia ventilatoria (VT1); viceversa ha confermato che un programma di allenamento intervallato è capace di produrre un notevole aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), un significativo aumento della durata dell’exercise test, un innalzamento della prima soglia ventilatoria (VT1) e un aumento del consumo di ossigeno (VO2) alla prima soglia ventilatoria (VT1), rispettivamente del 27% e del 22% ; tutto questo determina una migliore tolleranza allo sforzo fisico.
È appurato che il tempo alla prima soglia ventilatoria è un chiaro indice di decondizionamento e l’aumento del tempo del consumo di ossigeno (VO2) alla prima soglia ventilatoria (VT1) suggerisce la presenza di un ritardo dell’attivazione del meccanismo anaerobico per la riproduzione di energia, di conseguenza si ha un innalzamento della soglia anaerobica.
Anche nella riabilitazione della cardiopatia ischemica, Tabet J at al (2008) aveva precedentemente dimostrato in studi effettuati su soggetti affetti da patologia coronarica, l’aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco) durante il programma di interval training (IT) di circa 1 MET.
Questo incremento è notevole, poiché stando all’analisi dose-risposta l’aumento di 1 MET del più alto livello della massima capacità aerobica viene associato ad un decremento del 13% del rischio di mortalità e del 15% del rischio di tutte le malattie coronariche.
Tabet et al. ha dimostrato anche che il mancato aumento delle capacità funzionali in soggetti con scompenso cardiaco ha un forte valore prognostico riguardo l’avvenimento di eventi cardiaci.
Soggetti che non presentano un miglioramento superiore al 6% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), in risposta al programma di training al quale vengono sottoposti, sono ben otto volte più soggetti ad andare incontro a evento cardiaci nei sedici mesi successivi.
Al momento non esistono indicazioni precise su quale sia l’intensità di attività fisica ottimale da usare nel programma di training in soggetti con scompenso cardiaco; l’interval training (IT) è un tipo di approccio innovativo per quanto riguarda il training fisico nel trattamento dello scompenso cardiaco, poiché l’intensità di attività usata nell’interval training (IT) è superiore all’intensità usata nei classici protocolli di training fisico.
Infatti, l’interval training (IT) è stato eseguito con esercizi a intensità crescente, partendo dal 50% per la prima fase del programma fino ad arrivare all’ 80% dell’ultima fase.
Analizzando gli studi fatti in letteratura si è notato che secondo il metodo proposto da De Becker et al. a queste intensità (50%-80%) corrispondono rispettivamente all’ 80% e al 120% della potenza massima raggiunta durante lo stress test. Pertanto l’interval training può essere considerato a tutti gli effetti un tipo di allenamento ad alta intensità.
La letteratura suggerisce che l’intensità dello sforzo, in un programma di interval training, in soggetto con scompenso cardiaco, è compresa tra l’80 % e il 95% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco) protratta per un tempo compreso tra i 2 e i 5 minuti, separati da un periodo di recupero attivo effettuato al 40% - 70% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco). La durata degli esercizi del programma studiato da Freyssin et al. è stata di 30 secondi/ un minuto separati da un intervallo di un minuto di riposo completo.
Questo tipo di impostazione è sembrata la scelta migliore per l’approccio a soggetti molto decondizionati.
In oltre occorre notare che i precedenti studi effettuati sul training fisico come terapia per la patologia cardiaca, riportavano miglioramenti solo dopo un periodo compreso tra le 10 e le 52 settimane, mentre i recenti studi effettuati sul training intervallato riportano significativi miglioramenti dopo solo 8 settimane di training.
È da precisare che l’interval training (IT) prevede un impegno considerevole in termini di tempo, infatti il programma prevede 5 sedute settimanali contro le classiche 3/4 volte la settimana dei programmi di training continuato (CT) usati sinora.
Precedenti studi hanno mostrato come l’alta intensità di esercizio fisico ha portato ad un sostanziale aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco); dodici mesi di training dal 50% al 95% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), da 3 a 5 volte la settimana, inducono un miglioramento del massimo consumo di ossigeno dal 37% al 42%13,14.
Si è notato inoltre, che il programma di attività fisica contribuisce, non poco, a diminuire i livelli di ansia e depressione, caratteristiche tipiche dei soggetti affetti da insufficienza cardiaca15,16.
Il tipo di allenamento intervallato portando una variazione di richiesta di ossigeno molto elevata durante l’attività fisica, indurrebbe un miglioramento della portata cardiaca e dell’estrazione di ossigeno da parte della muscolatura periferica, quindi si ha sì un miglioramento della capillarizzazione, ma si ha soprattutto un miglioramento dello scambio arterovenoso tra ossigeno e anidride carbonica17.
In conclusione, l’interval training ad alta intensità determina nei soggetti con scompenso cardiaco miglioramenti psicofisici superiori a quelli descritti con il training continuato.
Nei soggetti con scompenso cardiaco, l’interval training consente stimoli di allenamento più intensi sui muscoli periferici, senza portare un ulteriore stress sul cuore, rispetto all’utilizzo di un protocollo di training continuato (CT).
Lo SCC è una sindrome clinica complessa che ha come primum movens la disfunzione emodinamica, che determina l’incapacità di alimentare un’adeguata perfusione periferica che soddisfi le esigenze metaboliche e nutritivi di organi e muscoli: successivamente una costellazione di adattamenti neuroendocrini, renali, muscolari e metabolici contribuiscono a mantenere e peggiorare lo stato clinico.
L’aspetto clinico più rilevante dello SCC è la ridotta capacità lavorativa, dovuta alla precoce comparsa di dispnea e fatica. Paradossalmente la limitazione funzionale non correla con la frazione di eiezione del ventricolo sinistro a riposo e scarsamente con la risposta emodinamica allo sforzo: questa discordanza ha suggerito l’ipotesi che fattori periferici potessero concorrere nel determinare il quadro clinico. Il cuore e la periferia, il muscolo scheletrico, sono strettamente collegati sia nei soggetti sani sia nei pazienti con SCC; di conseguenza, la conoscenza delle connessioni esistenti e il loro ruolo nella genesi dei sintomi hanno determinato importanti implicazioni cliniche e terapeutiche. Una delle principali è l’applicazione di programmi di training fisico, che in passato venivano sconsigliati in pazienti affetti da SCC.
Numerose evidenze cliniche e sperimentali hanno dimostrato i benefici del training fisico, documentando come gli effetti dell’attività fisica in questi pazienti si esplicano principalmente a livello periferico, con un incremento della capacità lavorativa in assenza di conseguenze deleterie sulla funzione ventricolare e sull’emodinamica centrale. In aggiunta numerosi studi confermano l’efficacia e la non pericolosità dell’attività fisica in pazienti clinicamente stabili. Gli effetti sul sistema neurovegetativo, la minor suscettibilità alle aritmie ventricolari e la possibilità di condizionare la progressione della malattia ateromasica suggeriscono anche implicazioni prognostiche, con riduzione del rischio di morbilità e mortalità.
Studi recenti hanno dimostrato che nei soggetti con SCC l’interval training (IT) ad alta intensità induce significativi miglioramenti, riguardanti le capacità funzionali, superiori rispetto ai benefici già descritti con il classico protocollo di training continuato (Freyssin et al. del 2012; Moholdt TT et al 2009).
Infatti Freyssin et al. ha dimostrato che un programma di allenamento continuato (CT) porta ad un innalzamento della prima soglia ventilatoria (VT1), ma non evidenzia nessun cambiamento significativo riguardo al massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), della durata dell’attività fisica e del consumo di ossigeno (VO2) al tempo della prima soglia ventilatoria (VT1); viceversa ha confermato che un programma di allenamento intervallato è capace di produrre un notevole aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), un significativo aumento della durata dell’exercise test, un innalzamento della prima soglia ventilatoria (VT1) e un aumento del consumo di ossigeno (VO2) alla prima soglia ventilatoria (VT1), rispettivamente del 27% e del 22% ; tutto questo determina una migliore tolleranza allo sforzo fisico.
È appurato che il tempo alla prima soglia ventilatoria è un chiaro indice di decondizionamento e l’aumento del tempo del consumo di ossigeno (VO2) alla prima soglia ventilatoria (VT1) suggerisce la presenza di un ritardo dell’attivazione del meccanismo anaerobico per la riproduzione di energia, di conseguenza si ha un innalzamento della soglia anaerobica.
Anche nella riabilitazione della cardiopatia ischemica, Tabet J at al (2008) aveva precedentemente dimostrato in studi effettuati su soggetti affetti da patologia coronarica, l’aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco) durante il programma di interval training (IT) di circa 1 MET.
Questo incremento è notevole, poiché stando all’analisi dose-risposta l’aumento di 1 MET del più alto livello della massima capacità aerobica viene associato ad un decremento del 13% del rischio di mortalità e del 15% del rischio di tutte le malattie coronariche.
Tabet et al. ha dimostrato anche che il mancato aumento delle capacità funzionali in soggetti con scompenso cardiaco ha un forte valore prognostico riguardo l’avvenimento di eventi cardiaci.
Soggetti che non presentano un miglioramento superiore al 6% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), in risposta al programma di training al quale vengono sottoposti, sono ben otto volte più soggetti ad andare incontro a evento cardiaci nei sedici mesi successivi.
Al momento non esistono indicazioni precise su quale sia l’intensità di attività fisica ottimale da usare nel programma di training in soggetti con scompenso cardiaco; l’interval training (IT) è un tipo di approccio innovativo per quanto riguarda il training fisico nel trattamento dello scompenso cardiaco, poiché l’intensità di attività usata nell’interval training (IT) è superiore all’intensità usata nei classici protocolli di training fisico.
Infatti, l’interval training (IT) è stato eseguito con esercizi a intensità crescente, partendo dal 50% per la prima fase del programma fino ad arrivare all’ 80% dell’ultima fase.
Analizzando gli studi fatti in letteratura si è notato che secondo il metodo proposto da De Becker et al. a queste intensità (50%-80%) corrispondono rispettivamente all’ 80% e al 120% della potenza massima raggiunta durante lo stress test. Pertanto l’interval training può essere considerato a tutti gli effetti un tipo di allenamento ad alta intensità.
La letteratura suggerisce che l’intensità dello sforzo, in un programma di interval training, in soggetto con scompenso cardiaco, è compresa tra l’80 % e il 95% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco) protratta per un tempo compreso tra i 2 e i 5 minuti, separati da un periodo di recupero attivo effettuato al 40% - 70% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco). La durata degli esercizi del programma studiato da Freyssin et al. è stata di 30 secondi/ un minuto separati da un intervallo di un minuto di riposo completo.
Questo tipo di impostazione è sembrata la scelta migliore per l’approccio a soggetti molto decondizionati.
In oltre occorre notare che i precedenti studi effettuati sul training fisico come terapia per la patologia cardiaca, riportavano miglioramenti solo dopo un periodo compreso tra le 10 e le 52 settimane, mentre i recenti studi effettuati sul training intervallato riportano significativi miglioramenti dopo solo 8 settimane di training.
È da precisare che l’interval training (IT) prevede un impegno considerevole in termini di tempo, infatti il programma prevede 5 sedute settimanali contro le classiche 3/4 volte la settimana dei programmi di training continuato (CT) usati sinora.
Precedenti studi hanno mostrato come l’alta intensità di esercizio fisico ha portato ad un sostanziale aumento del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco); dodici mesi di training dal 50% al 95% del massimo consumo di ossigeno (VO2 di picco), da 3 a 5 volte la settimana, inducono un miglioramento del massimo consumo di ossigeno dal 37% al 42%13,14.
Si è notato inoltre, che il programma di attività fisica contribuisce, non poco, a diminuire i livelli di ansia e depressione, caratteristiche tipiche dei soggetti affetti da insufficienza cardiaca15,16.
Il tipo di allenamento intervallato portando una variazione di richiesta di ossigeno molto elevata durante l’attività fisica, indurrebbe un miglioramento della portata cardiaca e dell’estrazione di ossigeno da parte della muscolatura periferica, quindi si ha sì un miglioramento della capillarizzazione, ma si ha soprattutto un miglioramento dello scambio arterovenoso tra ossigeno e anidride carbonica17.
In conclusione, l’interval training ad alta intensità determina nei soggetti con scompenso cardiaco miglioramenti psicofisici superiori a quelli descritti con il training continuato.
Nei soggetti con scompenso cardiaco, l’interval training consente stimoli di allenamento più intensi sui muscoli periferici, senza portare un ulteriore stress sul cuore, rispetto all’utilizzo di un protocollo di training continuato (CT).
Note
La tesi in oggetto non è stata inserita correttamente nel data base dall’autore. L’autore stesso ed i relatori sono stati avvertiti di tale omissione.
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