Tesi etd-11032022-114534 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
TAGLIOLI, MICHELANGELO
URN
etd-11032022-114534
Titolo
L'obbligatorieta' dell'azione penale ai tempi del processo 'efficiente'
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Marzaduri, Enrico
Parole chiave
- azione penale
- Efficienza
- obbligatorietà
- pubblico ministero
Data inizio appello
05/12/2022
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
05/12/2092
Riassunto
‘Mala tempora currunt, sed peiora parantur’, si usa dire fin dall’Antica Roma. Una tanta amara constatazione è quella che si potrebbe trarre avendo riguardo al processo penale di oggi. Evidente infatti è l’eccessivo dilatarsi delle tempistiche dello stesso, un turbinio di continui rinvii ed articolazioni interne tali da rendere apparente onore a chi denominava questo mondo come quello dove operano gli ‘azzeccagarbugli’. Di fronte a una situazione tanto critica, come ricordato da un’ampia gamma di interventi nazionali e non, si rischia di giungere finanche ad una negazione del concetto di giustizia: si può ritenere la stessa affermata in senso proprio se ciò avviene a distanza di svariati anni dal pregiudizio subito?
La vera domanda è: quale soluzione è prospettabile? Proprio nel cercare di dare una risposta a tale interrogativo il legislatore persegue una logica di efficientamento del processo. Ma in che termini?
Nel mondo del diritto difficilmente ci si trova dinnanzi ad una scelta veramente alternativa: il cuore dell’essere giurista risiede nella considerazione delle opposte ragioni, nell’individuazione di una via di mezzo, di compromesso, non già nel senso deteriore dello stesso, quanto piuttosto in quello nobile di conciliazione, bilanciamento.
Pertanto a fronte al problema delle eccessive tempistiche processuali, la scelta non può risiedere nella eliminazione delle garanzie predisposte dall’ordinamento a favore delle parti processuali: anzi esse devono essere privilegiate come elementi propriamente costitutivi di quel processo che si intende efficientare.
Perfettamente inserita in questa discussione si colloca la disciplina della obbligatorietà dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero. L’indiscusso portato garantistico della stessa, che spazia dal riconoscimento dell’indipendenza dell’organo dell’accusa alla piena attuazione di principi fondamentali come quello di uguaglianza e legalità, passa quasi in penombra nel dibattito che oggi la riguarda.
L’articolo 112 della Costituzione viene accusato di essere eccessivamente rigido, incapace di adeguarsi alle situazioni concrete di applicazione. Si rileva in particolare come, a fronte della panpenalizzazione perseguita dal legislatore in tempi recenti, e alle conseguenti ondate di notizie di reato che ogni anno si riversano sulle procure nazionali, servirebbe piuttosto una norma capace di effettuare una selezione, tale da rendere meno gravoso il lavoro. Del resto perché continuare a imporre una norma che poi nella pratica viene più volte superata, vuoi con accantonamenti più o meno velati, vuoi con un’oggettiva incapacità di smaltimento del carico di lavoro.
Ecco che quindi sono fioccate nel tempo varie soluzioni miranti o a incanalare la portata dell’obbligatorietà o a finanche superarla.
Sul primo versante nell’esperienza concreta di procure come quella di Torino e Roma si è registrata l’emanazione di circolari interne costitutive di criteri di priorità da applicarsi alla trattazione dei reati. Tale tecnica avrebbe, nell’intenzione dei vertici dell’ufficio, portato alla creazione di corsie preferenziali per determinate fattispecie riconosciute come maggiormente pregnanti a scapito delle altre. Una tacita depenalizzazione. Nonostante l’opera salvifica del CSM e l’interessamento della Riforma Cartabia (l. 134/2021), la soluzione appare quantomeno rischiosa: sono compatibili con l’articolo 112? E in particolare: chi deve predisporli? In base a quali criteri? Che fine fanno gli altri reati, i ccdd ‘non prioritari’?
Questi e altri punti dolenti rendono questa via impervia, per non dire imperseguibile.
A fronte quindi dell’incapacità di un ammorbidimento, per così dire, ‘dall’interno’ del laconico articolo 112, c’è chi ha fatto leva su un superamento in toto dello stesso.
Basandosi sulle esperienze di ordinamenti ‘efficienti’ per definizione, quale quelli della Common Law (in particolare Uk e Usa), e altri a noi più vicini (come quello francese), si è cercato di costituire la legittimazione giuridica per l’approdo del nostro ordinamento alla regola della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale. L’inserimento di una valutazione di opportunità da parte del pubblico ministero sulla sussistenza dell’interesse generale ad agire è stata ritenuta infatti come una soluzione anche per il nostro ordinamento: una selezione, per così dire, a valle delle notizie di reato, tale da renderle meno cospicue e più facilmente gestibili.
Anche questa via appare all’evidenza impercorribile. A parte l’imparagonabilità più o meno forte tra ordinamenti che si sono formati su di un sostrato ideale e sociale del tutto differente, i rischi sono imponenti: si arriverebbe finanche alla politicizzazione del pubblico ministero? Del resto una valutazione di opportunità compiuta da un organo di garanzia come quello in questione non può essere lasciata senza limiti, precipitandola nel mero arbitrio. Ecco che anche in questi ordinamenti vengono predisposte tutta una serie di vincoli ulteriori per il pubblico ministero (specie nell’ordinamento francese) tali da appesantire ex post la sua attività.
Di fronte quindi all’apparente ineluttabilità della regola del 112, una via rimane percorribile: l’istituzione di uno strumento che si ponga al fianco della regola, senza modificarne la portata o addirittura superarla. Su proposta di vari giuristi, tra cui Kostoris, la scelta dovrebbe ricadere sulla elaborazione del concetto di ‘particolare tenuità del fatto’ per operare una selezione, stavolta a valle, da parte del legislatore stesso, dell’area del penalmente punibile.
In definitiva se già adesso lo stato in cui versa il processo penale non appare dei migliori, sicuramente sarebbe un rimedio peggiore del male la ricerca di un’efficienza ad ogni costo, a scapito delle garanzie fondamentali delle parti processuali che ne costituiscono la ragion d’essere. Ciò è particolarmente vero laddove si guardi alla regola del 112 la quale, lungi dall’essere la causa di ogni male, appare come un baluardo da difendere da tentazioni revisioniste.
Ad maiora!
La vera domanda è: quale soluzione è prospettabile? Proprio nel cercare di dare una risposta a tale interrogativo il legislatore persegue una logica di efficientamento del processo. Ma in che termini?
Nel mondo del diritto difficilmente ci si trova dinnanzi ad una scelta veramente alternativa: il cuore dell’essere giurista risiede nella considerazione delle opposte ragioni, nell’individuazione di una via di mezzo, di compromesso, non già nel senso deteriore dello stesso, quanto piuttosto in quello nobile di conciliazione, bilanciamento.
Pertanto a fronte al problema delle eccessive tempistiche processuali, la scelta non può risiedere nella eliminazione delle garanzie predisposte dall’ordinamento a favore delle parti processuali: anzi esse devono essere privilegiate come elementi propriamente costitutivi di quel processo che si intende efficientare.
Perfettamente inserita in questa discussione si colloca la disciplina della obbligatorietà dell’azione penale esercitata dal pubblico ministero. L’indiscusso portato garantistico della stessa, che spazia dal riconoscimento dell’indipendenza dell’organo dell’accusa alla piena attuazione di principi fondamentali come quello di uguaglianza e legalità, passa quasi in penombra nel dibattito che oggi la riguarda.
L’articolo 112 della Costituzione viene accusato di essere eccessivamente rigido, incapace di adeguarsi alle situazioni concrete di applicazione. Si rileva in particolare come, a fronte della panpenalizzazione perseguita dal legislatore in tempi recenti, e alle conseguenti ondate di notizie di reato che ogni anno si riversano sulle procure nazionali, servirebbe piuttosto una norma capace di effettuare una selezione, tale da rendere meno gravoso il lavoro. Del resto perché continuare a imporre una norma che poi nella pratica viene più volte superata, vuoi con accantonamenti più o meno velati, vuoi con un’oggettiva incapacità di smaltimento del carico di lavoro.
Ecco che quindi sono fioccate nel tempo varie soluzioni miranti o a incanalare la portata dell’obbligatorietà o a finanche superarla.
Sul primo versante nell’esperienza concreta di procure come quella di Torino e Roma si è registrata l’emanazione di circolari interne costitutive di criteri di priorità da applicarsi alla trattazione dei reati. Tale tecnica avrebbe, nell’intenzione dei vertici dell’ufficio, portato alla creazione di corsie preferenziali per determinate fattispecie riconosciute come maggiormente pregnanti a scapito delle altre. Una tacita depenalizzazione. Nonostante l’opera salvifica del CSM e l’interessamento della Riforma Cartabia (l. 134/2021), la soluzione appare quantomeno rischiosa: sono compatibili con l’articolo 112? E in particolare: chi deve predisporli? In base a quali criteri? Che fine fanno gli altri reati, i ccdd ‘non prioritari’?
Questi e altri punti dolenti rendono questa via impervia, per non dire imperseguibile.
A fronte quindi dell’incapacità di un ammorbidimento, per così dire, ‘dall’interno’ del laconico articolo 112, c’è chi ha fatto leva su un superamento in toto dello stesso.
Basandosi sulle esperienze di ordinamenti ‘efficienti’ per definizione, quale quelli della Common Law (in particolare Uk e Usa), e altri a noi più vicini (come quello francese), si è cercato di costituire la legittimazione giuridica per l’approdo del nostro ordinamento alla regola della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale. L’inserimento di una valutazione di opportunità da parte del pubblico ministero sulla sussistenza dell’interesse generale ad agire è stata ritenuta infatti come una soluzione anche per il nostro ordinamento: una selezione, per così dire, a valle delle notizie di reato, tale da renderle meno cospicue e più facilmente gestibili.
Anche questa via appare all’evidenza impercorribile. A parte l’imparagonabilità più o meno forte tra ordinamenti che si sono formati su di un sostrato ideale e sociale del tutto differente, i rischi sono imponenti: si arriverebbe finanche alla politicizzazione del pubblico ministero? Del resto una valutazione di opportunità compiuta da un organo di garanzia come quello in questione non può essere lasciata senza limiti, precipitandola nel mero arbitrio. Ecco che anche in questi ordinamenti vengono predisposte tutta una serie di vincoli ulteriori per il pubblico ministero (specie nell’ordinamento francese) tali da appesantire ex post la sua attività.
Di fronte quindi all’apparente ineluttabilità della regola del 112, una via rimane percorribile: l’istituzione di uno strumento che si ponga al fianco della regola, senza modificarne la portata o addirittura superarla. Su proposta di vari giuristi, tra cui Kostoris, la scelta dovrebbe ricadere sulla elaborazione del concetto di ‘particolare tenuità del fatto’ per operare una selezione, stavolta a valle, da parte del legislatore stesso, dell’area del penalmente punibile.
In definitiva se già adesso lo stato in cui versa il processo penale non appare dei migliori, sicuramente sarebbe un rimedio peggiore del male la ricerca di un’efficienza ad ogni costo, a scapito delle garanzie fondamentali delle parti processuali che ne costituiscono la ragion d’essere. Ciò è particolarmente vero laddove si guardi alla regola del 112 la quale, lungi dall’essere la causa di ogni male, appare come un baluardo da difendere da tentazioni revisioniste.
Ad maiora!
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