Thesis etd-10242018-163320 |
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Thesis type
Tesi di laurea magistrale
Author
BACCINO, PIETRO
URN
etd-10242018-163320
Thesis title
Voce, confini e cerimonie. Il secondo periodo di Gianni Celati.
Department
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Course of study
ITALIANISTICA
Supervisors
relatore Prof. Donnarumma, Raffaele
controrelatore Prof. Casadei, Alberto
controrelatore Prof. Casadei, Alberto
Keywords
- Gianni Celati sguardo limiti antropologia apparenz
Graduation session start date
12/11/2018
Availability
Withheld
Release date
12/11/2088
Summary
Narratori delle pianure esce per Feltrinelli nel 1984, segnando un cambiamento di sguardo, di voce e di tono, che verrà confermato dalle Quattro novelle sulle apparenze e da Verso la foce, usciti successivamente dal laboratorio di quello stesso periodo.
Sono cambiate molte cose rispetto al decennio precedente. Quello di Comiche, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, e Lunario del paradiso, è stato il decennio della contestazione, conclusasi simbolicamente nel ’77 a Bologna, proprio mentre Celati insegnava al DAMS occupato e scriveva Lunario. Gli anni Ottanta aprono una nuova stagione durante la quale si esaurisce la violenza terrorista e insieme si assiste ad un ripiegamento dal pubblico al privato, dal collettivismo all’accettazione dell’individualismo.
In questo contesto Celati sembra, come nota subito Calvino, voler compiere un movimento inverso, rivolgendosi verso l’esterno: il suo diventa così, nei «racconti d’osservazione», uno sguardo che si apre sul mondo visibile; nelle novelle è invece un orecchio a rivolgersi, analogamente, all’ascolto delle voci, delle storie e degli indizi di storie che circolano nello spazio che circonda il narratore.
I riferimenti imprescindibili per comprendere la postura e le ricognizioni celatiane del quotidiano sono, tra gli altri, quelli rappresentati dalle analisi microsociologiche di Goffman, dagli studi sulle interazioni e le conversazioni di Sacks, dalla linguistica di Labov e altri. Centrale è anche il pensiero di Wittgenstein, soprattutto quello delle Ricerche e Della certezza, che rivela come a sostenere il linguaggio siano il contesto e l’uso che di esso si fa all’interno di una «forma di vita»; Wittgenstein coglie e mostra la resistenza delle apparenze, il loro rifiuto a dire il proprio fondamento ultimo, ma soprattutto indaga le implicazioni e le precognizioni che reggono la possibilità stessa della comprensione reciproca e della comunicazione. Non è un caso che proprio la filosofia di Wittgenstein sia condivisa, discussa e ripensata da Celati e dall’amico fotografo Luigi Ghirri, altro punto di riferimento centrale e maestro di sguardo che, in qualche modo, negli anni Ottanta sostituisce Calvino, diventando l’interlocutore privilegiato di Celati. L’incontro con Ghirri è decisivo: proprio percorrendo insieme a lui e gli altri fotografi di Viaggio in Italia i luoghi che saranno poi quelli di Verso la foce Celati sarà costretto a riflettere sui presupposti del proprio lavoro, sul proprio sguardo, sulle modalità della scrittura e sul rapporto che intercorre tra questa e il divenire del mondo esterno.
Se le voci dei primi libri di Celati erano voci altre, prese a prestito, modulate perché potessero emergere i contrasti e i condizionamenti che l’ordine esterno impone agli individui, il secondo Celati, passando attraverso il libro-soglia Lunario, si avvicina ad una voce naturale; il suo personaggio è sempre più vicino all’autore, le strutture sempre meno romanzesche, più rispettose del ritmo imposto loro dall’andamento delle cose, dal tempo del mondo esterno che il narratore registra. Celati abbandona, insieme alle sue regole e architetture, la finzione romanzesca; e con essa le agnizioni, i personaggi complessi, le vite che diventano destini. La sua è una scrittura non-finzionale, di registrazione di voci o di cose viste, vicina al reportage, senza meta, dove anche i personaggi diventano semplicemente segni di incontri, mostrati senza violare la loro interiorità.
La prospettiva che Celati adotta, in queste ricognizioni della realtà così come appare, deve ovviamente molto all’antropologia, al centro delle sue riflessioni almeno fin dal tentativo di dar vita, con Calvino, Ginzburg, Melandri e altri, alla rivista «Alì Babà». Lo sguardo di Celati è attento e straniante, si sofferma sulla realtà cerimoniale della vita quotidiana cogliendone anche gli aspetti in ombra, i presupposti, ciò che non si vede, e soprattutto, ciò che l’ordine culturale in cui siamo tende a rimuovere o nascondere.
Celati non rinnega mai alcuni dei centri del suo pensiero, alcune posture che rappresentano una continuità, il cardine sul quale si opera il ribaltamento che dai quattro romanzi degli anni Settanta porta alle produzioni degli anni Ottanta e oltre. La polemica contro sapere, ordine, pedagogia, volontà di controllo, categorie generali e totalità, non viene mai abbandonata. La sua resta una voce singolare e irriducibile: non è più, però, quella presa a prestito dal linguaggio schizofrenico del protagonista di Comiche; si trasforma, illimpidisce, diventa più simile alla voce che si usa tutti i giorni per muoversi, per lavorare, per parlare con gli altri, all’interno di una forma di vita che ci appare scontata.
Dietro l’indagine della normalità, della norma e delle leggi che regolano le rappresentazioni quotidiane, sta, credo, la volontà di evitare che il singolo diventi l’unico centro di potere legittimo. Indagare le entità sovraindividuali che regolano l’andamento cerimoniale della vita quotidiana significa indagare lo stesso ordine cognitivo, l’apparenza precaria del senso e i presupposti all’interno dei quali, senza saperlo, ci muoviamo: vengono così smentiti e ridotti a sforzi comici da un lato la volontà del controllo sul mondo e sugli altri, e dall’altro l’aspirazione ad un’espressione originaria e autentica dell’individuo.
Celati, caduta ogni forma di trascendenza, evita la chiusura di quello che Mazzoni chiama «espressivismo», degenerazione della «presa di parola» che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta. Intendere la lingua come un dialogo con ignoti, avvicinarsi alle forme orali, che recano il segno del passaggio di una storia da un narratore ad un altro, adottare una lingua piana, parlata, che assomiglia ad una voce: sono questi i segni del tentativo di uscire dall’impasse segnata dalla volontà, come direbbe Barthes, «di non sottomettere nessuno» , di lasciare a chi legge un segno, una traccia da raccogliere che «non risponda alle domande che pone» , che forse è il segno di un dialogo che si può solo raccogliere e continuare altrove, nella «rete di tutte le storie» di cui parla Benjamin.
Sono cambiate molte cose rispetto al decennio precedente. Quello di Comiche, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, e Lunario del paradiso, è stato il decennio della contestazione, conclusasi simbolicamente nel ’77 a Bologna, proprio mentre Celati insegnava al DAMS occupato e scriveva Lunario. Gli anni Ottanta aprono una nuova stagione durante la quale si esaurisce la violenza terrorista e insieme si assiste ad un ripiegamento dal pubblico al privato, dal collettivismo all’accettazione dell’individualismo.
In questo contesto Celati sembra, come nota subito Calvino, voler compiere un movimento inverso, rivolgendosi verso l’esterno: il suo diventa così, nei «racconti d’osservazione», uno sguardo che si apre sul mondo visibile; nelle novelle è invece un orecchio a rivolgersi, analogamente, all’ascolto delle voci, delle storie e degli indizi di storie che circolano nello spazio che circonda il narratore.
I riferimenti imprescindibili per comprendere la postura e le ricognizioni celatiane del quotidiano sono, tra gli altri, quelli rappresentati dalle analisi microsociologiche di Goffman, dagli studi sulle interazioni e le conversazioni di Sacks, dalla linguistica di Labov e altri. Centrale è anche il pensiero di Wittgenstein, soprattutto quello delle Ricerche e Della certezza, che rivela come a sostenere il linguaggio siano il contesto e l’uso che di esso si fa all’interno di una «forma di vita»; Wittgenstein coglie e mostra la resistenza delle apparenze, il loro rifiuto a dire il proprio fondamento ultimo, ma soprattutto indaga le implicazioni e le precognizioni che reggono la possibilità stessa della comprensione reciproca e della comunicazione. Non è un caso che proprio la filosofia di Wittgenstein sia condivisa, discussa e ripensata da Celati e dall’amico fotografo Luigi Ghirri, altro punto di riferimento centrale e maestro di sguardo che, in qualche modo, negli anni Ottanta sostituisce Calvino, diventando l’interlocutore privilegiato di Celati. L’incontro con Ghirri è decisivo: proprio percorrendo insieme a lui e gli altri fotografi di Viaggio in Italia i luoghi che saranno poi quelli di Verso la foce Celati sarà costretto a riflettere sui presupposti del proprio lavoro, sul proprio sguardo, sulle modalità della scrittura e sul rapporto che intercorre tra questa e il divenire del mondo esterno.
Se le voci dei primi libri di Celati erano voci altre, prese a prestito, modulate perché potessero emergere i contrasti e i condizionamenti che l’ordine esterno impone agli individui, il secondo Celati, passando attraverso il libro-soglia Lunario, si avvicina ad una voce naturale; il suo personaggio è sempre più vicino all’autore, le strutture sempre meno romanzesche, più rispettose del ritmo imposto loro dall’andamento delle cose, dal tempo del mondo esterno che il narratore registra. Celati abbandona, insieme alle sue regole e architetture, la finzione romanzesca; e con essa le agnizioni, i personaggi complessi, le vite che diventano destini. La sua è una scrittura non-finzionale, di registrazione di voci o di cose viste, vicina al reportage, senza meta, dove anche i personaggi diventano semplicemente segni di incontri, mostrati senza violare la loro interiorità.
La prospettiva che Celati adotta, in queste ricognizioni della realtà così come appare, deve ovviamente molto all’antropologia, al centro delle sue riflessioni almeno fin dal tentativo di dar vita, con Calvino, Ginzburg, Melandri e altri, alla rivista «Alì Babà». Lo sguardo di Celati è attento e straniante, si sofferma sulla realtà cerimoniale della vita quotidiana cogliendone anche gli aspetti in ombra, i presupposti, ciò che non si vede, e soprattutto, ciò che l’ordine culturale in cui siamo tende a rimuovere o nascondere.
Celati non rinnega mai alcuni dei centri del suo pensiero, alcune posture che rappresentano una continuità, il cardine sul quale si opera il ribaltamento che dai quattro romanzi degli anni Settanta porta alle produzioni degli anni Ottanta e oltre. La polemica contro sapere, ordine, pedagogia, volontà di controllo, categorie generali e totalità, non viene mai abbandonata. La sua resta una voce singolare e irriducibile: non è più, però, quella presa a prestito dal linguaggio schizofrenico del protagonista di Comiche; si trasforma, illimpidisce, diventa più simile alla voce che si usa tutti i giorni per muoversi, per lavorare, per parlare con gli altri, all’interno di una forma di vita che ci appare scontata.
Dietro l’indagine della normalità, della norma e delle leggi che regolano le rappresentazioni quotidiane, sta, credo, la volontà di evitare che il singolo diventi l’unico centro di potere legittimo. Indagare le entità sovraindividuali che regolano l’andamento cerimoniale della vita quotidiana significa indagare lo stesso ordine cognitivo, l’apparenza precaria del senso e i presupposti all’interno dei quali, senza saperlo, ci muoviamo: vengono così smentiti e ridotti a sforzi comici da un lato la volontà del controllo sul mondo e sugli altri, e dall’altro l’aspirazione ad un’espressione originaria e autentica dell’individuo.
Celati, caduta ogni forma di trascendenza, evita la chiusura di quello che Mazzoni chiama «espressivismo», degenerazione della «presa di parola» che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta. Intendere la lingua come un dialogo con ignoti, avvicinarsi alle forme orali, che recano il segno del passaggio di una storia da un narratore ad un altro, adottare una lingua piana, parlata, che assomiglia ad una voce: sono questi i segni del tentativo di uscire dall’impasse segnata dalla volontà, come direbbe Barthes, «di non sottomettere nessuno» , di lasciare a chi legge un segno, una traccia da raccogliere che «non risponda alle domande che pone» , che forse è il segno di un dialogo che si può solo raccogliere e continuare altrove, nella «rete di tutte le storie» di cui parla Benjamin.
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