Tesi etd-10162014-162700 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
PECINI, ANNA
URN
etd-10162014-162700
Titolo
Soldati, ebrei, degenerati in un manicomio di confine: l'Andrea di Sergio Galatti di Trieste (1915-1945)
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE
Relatori
relatore Prof.ssa Fiorino, Vinzia
correlatore Prof. Paoletti, Giovanni
correlatore Prof. Paoletti, Giovanni
Parole chiave
- degenerazione
- nevrosi di guerra
- psichiatria
- shell shock
- soldati
- storia della medicina
Data inizio appello
03/11/2014
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
03/11/2084
Riassunto
[Tratto dall'introduzione]
All’interno di questo lavoro ho cercato di ricostruire una parte della storia del manicomio di Trieste, dall’atto della sua nascita fino al concludersi della seconda guerra mondiale. Ho quindi descritto i momenti salienti della costruzione del Civico Frenocomio Andrea di Sergio Galatti occupandomi delle motivazioni politiche e sociali che ne hanno motivato la nascita.
La lettura dei rendiconti del manicomio e le poche ma valide pubblicazioni scientifiche dei primi medici operativi all’interno della struttura mi hanno permesso di comprendere come si sia organizzata e a che modelli abbia fatto riferimento l’assistenza psichiatrica nel territorio giuliano nei primi decenni del Novecento. Di rimando ho ritenuto opportuno ripercorre la nascita e l’affermarsi della scienza medico psichiatrica, indagando in particolar modo le condizioni culturali e scientifiche che hanno reso possibile il passaggio dal paradigma alienista ad uno di stampo organicista, volto alla ricerca delle cause organiche della malattia mentale (cap. I). Ciò mi ha permesso di comprendere l’atteggiamento degli psichiatri di fronte alle orde di soldati i quali dopo aver dato i primi segni di alienazione mentale durante il conflitto, si trovarono ad essere stati trascinati da un ospedale militare all’altro terminando la loro lunga odissea istituzionale tra le mura del manicomio. Il ruolo di assoluta rilevanza assunto dalla violenza bellica nell’insorgere delle nevrosi nei soldati non venne però accolto da parte della psichiatria la quale, trincerata in un discorso patriottico e nazionalista, sostenne la causa della sostanziale debolezza costituzionale dei soldati impazziti. Attraverso la lettura delle cartelle cliniche ho cercato di comprendere come la considerazione della malattia venisse filtrata da parte degli psichiatri attraverso rigidi schemi concettuali, rivolti all’elusione del riconoscimento del potere traumatizzante della guerra. Per contro, le forme assunte dalla follia dei soldati restituiscono, al lettore vigile la specificità di tali nevrosi le quali si articolarono attorno tre motivi ricorrenti: l’isteria, la fuga e la regressione nel mondo infantile. Lo studio e l’analisi di queste tre topoi mi ha permesso di comprendere l’incidenza di alcuni stereotipi culturali e sociali nella genesi e nello sviluppo della follia e di riconoscere nei corpi inermi, nudi e anestetizzati dei soldati la messa in scena di un’ultima disperata forma di resistenza alla brutalità della guerra (cap. II). L’asservimento della psichiatria ai bisogni della nazione raggiunse il proprio culmine durante l’età fascista. Il manicomio giuliano, come tutte le altre istituzioni italiane, venne ingaggiato e coinvolto nella fitta rete propagandistica elaborata dal regime. La lettura degli atti amministrativi e della corrispondenza mi ha permesso di ripercorrere il rapido processo di adattamento forzato delle modalità organizzative proprie del manicomio alle esigenze imposte dalla logica totalitaria del ventennio fascista e gli oscuri e riprovevoli riflessi causati dall’entrata in vigore nel 1938 delle leggi razziali sul personale medico operativo. La vicenda del dott. Edoardo Weiss, psichiatra ed epigono italiano della psicanalisi mi ha dato l’occasione di ridisegnare per sommi capi il panorama intellettuale giuliano e la sostanziale chiusura nei confronti della nuova disciplina freudiana da parte della psichiatria istituzionale (cap. III). Anche in questo caso saranno le cartelle cliniche dei soldati combattenti nel secondo conflitto mondiale ed internati in manicomio ad offrirci una valida testimonianza del devastante potere della guerra. Il riproporsi, nella semantica della follia, della regressione nel mondo infantile da parte dei soldati mi ha quindi spinto ad indagare meglio il funzionamento dello stereotipo della virilità e l’immane disagio provato da questi uomini nel continuo confronto con un immagine di mascolinità così rigida e strutturata come quella proposta dal fascismo.
Infine, l’ultima parte di questa tesi è dedicata ad uno dei momenti più bui della storia del manicomio triestino: la deportazione, durante il periodo dell’occupazione tedesca, di un gruppo di venticinque pazienti ebrei per mano delle SS (cap. IV). I diari clinici di coloro i quali nel manicomio cercarono rifugio dalla politica antisemita accennano a quell’esperienza di mortificazione e di espulsione dell’individuo dall’orizzonte morale che si configura come correlato necessario di ogni politica di esclusione e stigmatizzazione.
All’interno di questo lavoro ho cercato di ricostruire una parte della storia del manicomio di Trieste, dall’atto della sua nascita fino al concludersi della seconda guerra mondiale. Ho quindi descritto i momenti salienti della costruzione del Civico Frenocomio Andrea di Sergio Galatti occupandomi delle motivazioni politiche e sociali che ne hanno motivato la nascita.
La lettura dei rendiconti del manicomio e le poche ma valide pubblicazioni scientifiche dei primi medici operativi all’interno della struttura mi hanno permesso di comprendere come si sia organizzata e a che modelli abbia fatto riferimento l’assistenza psichiatrica nel territorio giuliano nei primi decenni del Novecento. Di rimando ho ritenuto opportuno ripercorre la nascita e l’affermarsi della scienza medico psichiatrica, indagando in particolar modo le condizioni culturali e scientifiche che hanno reso possibile il passaggio dal paradigma alienista ad uno di stampo organicista, volto alla ricerca delle cause organiche della malattia mentale (cap. I). Ciò mi ha permesso di comprendere l’atteggiamento degli psichiatri di fronte alle orde di soldati i quali dopo aver dato i primi segni di alienazione mentale durante il conflitto, si trovarono ad essere stati trascinati da un ospedale militare all’altro terminando la loro lunga odissea istituzionale tra le mura del manicomio. Il ruolo di assoluta rilevanza assunto dalla violenza bellica nell’insorgere delle nevrosi nei soldati non venne però accolto da parte della psichiatria la quale, trincerata in un discorso patriottico e nazionalista, sostenne la causa della sostanziale debolezza costituzionale dei soldati impazziti. Attraverso la lettura delle cartelle cliniche ho cercato di comprendere come la considerazione della malattia venisse filtrata da parte degli psichiatri attraverso rigidi schemi concettuali, rivolti all’elusione del riconoscimento del potere traumatizzante della guerra. Per contro, le forme assunte dalla follia dei soldati restituiscono, al lettore vigile la specificità di tali nevrosi le quali si articolarono attorno tre motivi ricorrenti: l’isteria, la fuga e la regressione nel mondo infantile. Lo studio e l’analisi di queste tre topoi mi ha permesso di comprendere l’incidenza di alcuni stereotipi culturali e sociali nella genesi e nello sviluppo della follia e di riconoscere nei corpi inermi, nudi e anestetizzati dei soldati la messa in scena di un’ultima disperata forma di resistenza alla brutalità della guerra (cap. II). L’asservimento della psichiatria ai bisogni della nazione raggiunse il proprio culmine durante l’età fascista. Il manicomio giuliano, come tutte le altre istituzioni italiane, venne ingaggiato e coinvolto nella fitta rete propagandistica elaborata dal regime. La lettura degli atti amministrativi e della corrispondenza mi ha permesso di ripercorrere il rapido processo di adattamento forzato delle modalità organizzative proprie del manicomio alle esigenze imposte dalla logica totalitaria del ventennio fascista e gli oscuri e riprovevoli riflessi causati dall’entrata in vigore nel 1938 delle leggi razziali sul personale medico operativo. La vicenda del dott. Edoardo Weiss, psichiatra ed epigono italiano della psicanalisi mi ha dato l’occasione di ridisegnare per sommi capi il panorama intellettuale giuliano e la sostanziale chiusura nei confronti della nuova disciplina freudiana da parte della psichiatria istituzionale (cap. III). Anche in questo caso saranno le cartelle cliniche dei soldati combattenti nel secondo conflitto mondiale ed internati in manicomio ad offrirci una valida testimonianza del devastante potere della guerra. Il riproporsi, nella semantica della follia, della regressione nel mondo infantile da parte dei soldati mi ha quindi spinto ad indagare meglio il funzionamento dello stereotipo della virilità e l’immane disagio provato da questi uomini nel continuo confronto con un immagine di mascolinità così rigida e strutturata come quella proposta dal fascismo.
Infine, l’ultima parte di questa tesi è dedicata ad uno dei momenti più bui della storia del manicomio triestino: la deportazione, durante il periodo dell’occupazione tedesca, di un gruppo di venticinque pazienti ebrei per mano delle SS (cap. IV). I diari clinici di coloro i quali nel manicomio cercarono rifugio dalla politica antisemita accennano a quell’esperienza di mortificazione e di espulsione dell’individuo dall’orizzonte morale che si configura come correlato necessario di ogni politica di esclusione e stigmatizzazione.
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