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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-10152013-160342


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MINOTTI, DANIELA
URN
etd-10152013-160342
Titolo
La rivoluzione delle lucciole: Pier Paolo Pasolini tra letteratura, antropologia e impegno civile.
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E CIVILTA'
Relatori
relatore Dei, Fabio
correlatore Testa, Eugenio
Parole chiave
  • antropologic revolution
  • emarginati
  • fireflies
  • lucciole
  • marginalized
  • new prehistory
  • nuova preistoria
  • Pasolini
  • rivoluzione antropologica
  • scandal
  • scandalo
Data inizio appello
04/11/2013
Consultabilità
Completa
Riassunto
L’albo lapillo Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo 1922 a Bologna, prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell’esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall’Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d’azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L’aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: “il fascismo apparteneva antropologicamente […] alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all’ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia” . L’angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco.

Il dramma che suscitò nell’animo di Carlo Alberto lo “scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma “pura”: incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali. È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital (a cui sottopone anche la madre). La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti “descrittori di battaglie” della nostra letteratura recente. L’apparente normalità della sua vita si spezza l’8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l’Italia si trova allo sbando. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D’Azione, cadrà vittima di quell’orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come “strage di Porzus”, che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell’età storica dell’antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell’acuirsi del carattere politico-ideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma “passiva” (rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli). L’evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Enzo Siciliano parla di un’“ingenua furia romantica” del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l’eclissi e l’oblio dell’arcaicità d’espressione e dei costumi. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell’Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Pasolini aderisce nell’ottobre-novembre 1945 all’associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all’estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l’impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell’ordine e la magistratura sono tutt’altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il sogno di una cosa viene visto come “lo sfondo mitico e contadino del romanzo “romano” (per) l’epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita” . La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all’applicazione della legge. La concezione ideologica di Pasolini si incarna in un personaggio del “romanzo” Il sogno di una cosa: una ragazza borghese, Renata, che abiura alle precedenti categorie di pensiero e all’impianto ontologico tipico della sua classe sociale, “che mai gliel’avrebbero perdonato”, per farsi marxista. Pasolini dona così forma al suo “inconscio antropologico” (Enzo Siciliano), affidandolo alle parole di questa giovane ma anche a quelle del prete Paolo quando dice,
ho notato quanto siano migliori i giovani del popolo da quelli della borghesia: è una superiorità sostanziale e assoluta, che non ammette riserve. Si insinua insidioso anche un altro tratto autobiografico, che lui avvertirà sempre come una colpa soverchiante e per cui i patimenti emotivi si susseguiranno fino alla fine della sua breve esistenza: l’omosessualità. Trauma inconscio che si riverbera nel suo atteggiamento sessuale adulto per cui Pier Paolo cerca “in folle caccia notturna” i ragazzi, stabilendo una distanza netta dalla sua realtà domestica. Muoio nell’odore di una latrina della mia infanzia, legato per sempre alla vita da una vespa che accende nell’aria l’odore dell’Estate.
O anche “ciò che più tortura è il “cedere”/mi trovo al mesto bivio del peccato/e cedo […]”. Isolato e epurato dal partito comunista -al tempo duro ed ortodosso in materia-, si decide alla partenza con la madre Susanna. Roma. Pasolini rimane pur sempre un “poeta” inteso, alla Elsa Morante, come scrittore che sa dar voce, anche con irriverenza, al proprio daimon, rimanendo fedele alla propria vocazione. Poeta vicino all’espressionismo, rifugge dalla trasposizione della realtà nella letteratura dove esprime invece tutto il suo disagio esistenziale. Nella capitale della neonata Repubblica Italiana, Pasolini arriva con la madre agli albori degli anni Cinquanta. Nel frattempo avrà l’occasione di un nuovo contatto con il cinema quando Mario Soldati lo invita a collaborare alla sceneggiatura, insieme anche a Bassani, del suo film del 1954, La donna del fiume. La prima opera in omaggio alla romanità è del 1955, Ragazzi di vita. Lapalissiano il fine politico: disvelare una realtà taciuta, volutamente emarginata anche geograficamente nelle borgate, nelle appendici da una società apparentemente riemersa dalle ceneri della guerra, sedicente superstite dell’horror vacui della disperazione e della distruzione che tende a celare a se stessa i propri dolori ed i propri mali. Ciò spiega il perché è addirittura la presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Segni, a muoversi scrivendo esso stesso al Procuratore della Repubblica di Milano, bollando il testo come “pornografico”. Contro questi perbenisti piccolo borghesi detrattori di Pasolini, politici e non, Gadda (che definisce Ragazzi di vita una “colonna sonora”), Bertolucci, De Robertis, Bigongiari, Carlo Bo, Cassola, Sereni, Anna Banti, Mario Luzi e con loro altri esponenti della cultura del tempo, costituirono quella giuria che a Parma nell’estate del 1955 assegna al “romanzo” il premio “Colombi- Guidotti”. Il plurilinguismo a cui è votato Pasolini lo riporta presto sulle scene con un’opera, forse l’unica che- data l’organicità della narrazione- può essere ascritto alla famiglia dei “romanzi”, Una vita violenta (1959). È una sorta di manifesto letterario con cui sancisce il suo riavvicinamento al Partito Comunista. Questo è deducibile dalle parole di Pasolini il quale in un’intervista apparsa sulla rivista “Nuovi Argomenti” nel 1959 dirà
io credo soltanto nel romanzo “storico” e “nazionale”, nel senso di “oggettivo” e “tipico”. Emblematico è a questo fine il titolo di una raccolta di undici componimenti poetici in lingua, Le ceneri di Gramsci, “i più intensi e profondi esperimenti poetici di Pasolini […] una vera e propria summa al contempo delle posizioni ideali del poeta e della sua visione del mondo” “una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l’opera di Pasolini” il cui segreto sta “nei poemi, che nelle intenzioni dovevano esprimere l’angoscia dell’inafferrabilità e dell’impermeabilità del reale, si trasformano in un flusso che riproduce il reale nei suoi tessuti e nelle sue strutture, come il continuum sintattico riproduce il continuum del paesaggio” , composti tra il 1951 e il 1956 e stampati nel 1957, precedente di due anni il romanzo Una vita violenta e intervallato da una collaborazione alla sceneggiatura di Le notti di Cabiria, a cui lo invita Federico Fellini, come revisore della parte dialettale romanesca (per cui si servirà della collaborazione di quello che diventerà uno dei suoi due pupilli e tenero amico, Sergio Citti). In questa raccolta di componimenti l’obiettivo è quello di dare un volto nuovo alla storia italiana e per farlo Pasolini indulge sul passato con brani dedicati alle origini medievali del canto popolare, al periodo classico, romano greco e barbarico, al periodo comunale: il tutto in un clima quasi di attesa, di sospensione del popolo che aspetta da sempre “mai tolto al tempo” (Il canto popolare) e quindi non obnubilato dalla modernità ma vivo, sopravvissuto nel Presente e emarginato, confinato, ghettizzato in vacui solitari e fatiscenti paesi di collina, in tuguri o baracche, in squallidi quartieri periferici che circondano, con ferina purezza e semplicità, le baldanzose, bislacche città frutto del tempo breve. L’occasione è data da una visita di Pasolini al “Cimitero degli Inglesi”, accanto a Porta San Paolo a Roma, a ridosso del quartiere popolare il Testaccio, in cui era stato seppellito Gramsci. Pasolini contempla amareggiato la rovina storica, “in esso c’è il grigiore del mondo / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita / il silenzio, fradicio e infecondo”. In questi versi sono condensate tutte le cocenti delusioni che albergano nel cuore del poeta e la sofferenza per la sorte dell’Italia: i dieci anni di dominio della Democrazia Cristiana al potere, il tradimento della Resistenza, il naufragio delle speranze e la perdita degli affetti. Durante lo srotolarsi del poemetto, Gramsci abbandona le vestigia di ideologo e uomo di partito, di padre e diviene per Pasolini “umile fratello”, completamente disarmato, non rivoluzionario bensì il Gramsci della sofferenza riflessiva della prigione da cui gemmano pagine di vibrante lirismo e puntigliosa razionalità, lucidità storica e politica. Confinato nella solitudine dalla mordacità dell’uomo e dalla crudeltà della storia. L’interesse è rivolto al giovinetto Gramsci, umiliato e vilipeso, partorito dalla sensibilità del poeta, non al personaggio storico. La protesta è rappresentata dall’essere “diverso”, nella poesia come nella vita. Diverso da chi, da cosa? Diverso dai prodotti della mercificazione, dall’omologazione e dalla massificazione che crea e fa subire al popolo inerme e disarmato l’evoluzione della tecnica. Questo non farà che esacerbare ulteriormente le idiosincrasie all’interno del partito dal quale, in seguito agli scandali legati alla sua omosessualità, era stato espulso. Sono gli anni in cui all’interno del partito domina l’intransigenza teologica dei marxisti (“sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. Nel 1958 pubblica L’usignolo della chiesa cattolica, una summa del suo credo marxista intriso soavemente di pietas cristiana. L’attività critica di Pasolini vede la sua prima momentanea sistemazione nella raccolta saggistica del 1960 Passione e ideologia. Un profondo e drastico mutamento del clima culturale occorse negli ultimi anni prima della guerra. Questo nuovo clima non è infondato ma motivato dalla lotta vittoriosa del paese contro il fenomeno fascista e la riconquista che ne derivò della libertà e della democrazia. Il primo numero compare alla fine di settembre del 1945 e, novità, in edicola perché vuole assurgere subito a organo culturale di massa. Chiude la sua attività nel dicembre del 1947. L’editoriale del direttore Una nuova cultura apre il “Politecnico”. Contrasti con la redazione e divergenze di vedute fra Vittorini e esponenti di spicco del Partito Comunista, di cui era un giovane neofita, portò alla chiusura dell’organo. I dissapori con i dirigenti comunisti, in particolar modo con Palmiro Togliatti e lo storico Alicata, ruotano intorno al valore che Vittorini attribuisce alla cultura nell’orientamento della storia e nella rinascita della società, compiti che il partito attribuisce più alla politica che alla cultura. La cultura invece non può non svolgersi al di fuori di ogni legge di tattica e di strategia sul piano diretto della storia. Vittorini tende, esecrabilmente, a mettere in discussione il rapporto organico tra intellettuali e partito che dominerà la vita culturale nei decenni successivi caratterizzando la storia della cultura a sinistra dell’Italia; si rifiuta di porre così dei limiti al suo lavoro, di assecondare i diktat del partito e chiude la rivista “Il Politecnico”. Il “ceto intellettuale” svolge una funzione di prim’ordine nell’analisi gramsciana, per la formazione del “blocco storico” perché è l’unico che può condurre al cambiamento la società rifondandola. Da qui, la sua idea di “intellettuale organico” per indicare quell’intellettuale che si lega visceralmente ad una classe sociale e al suo destino e istaura un rapporto dialettico con il suo partito. Una tendenza volta a creare una cultura liberale nell’Italia dopo la Liberazione ma, al contempo, attenta ai problemi del socialismo e della democrazia, corrente di pensiero incarnata da Norberto Bobbio. Per ottenere questo fine, è necessaria la comprensione della realtà. Al cinema e nella letteratura il parlato e il dialetto si impongono sovrani. Asor Rosa parla, per introdurre Pasolini, di “apoteosi e crisi del neorealismo” ricordando al lettore che ogni periodo storico-letterario finisce sempre e comunque o per rottura o per eccesso. Quello fascista, ci dice, terminò bruscamente per rottura e si fa strada l’idea che una nuova fase debba aprirsi per rispondere alle speranze degli italiani, anche nel campo del gusto e della poesia. Si scontra allora con le posizioni ufficiali del Partito Comunista che lo accusa tramite la rivista culturale ufficiale del partito, “Il contemporaneo”, fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori, di deviare dalla via del realismo inserendo nelle sue opere elementi decadenti, irrazionalistici e vitalistici. Alla “Guerra Fredda” corrisponde una spartizione del mondo in due parti (a cui nel 1962 si aggiungerà una terza realtà che è quella del blocco dei cosiddetti “paesi non allineati” nata alla conferenza di Bandung), simbolicamente indicate nella carta geografica con due colori differenti, il blu per i paesi schierati con gli Stati Uniti e rosso per quelli che gravitano intorno all’Unione Sovietica. In seguito alla Conferenza di Yalta del 1945, che stabilisce la spartizione delle zone di influenza, l’Italia viene inserita nel gioco di alleanze della potenza americana. Nel nostro Paese, il lungo periodo inaugurato dalle elezioni politiche del 1948, che vedono la vittoria di De Gasperi e della Democrazia Cristiana e l’uscita di scena del blocco delle sinistre, viene vissuto in condizioni di sostanziale equilibrio politico: per quarantacinque anni si succederanno governi a guida democristiana il cui percorso è agevolato anche da quella conventio ad excludendum, grazie alla quale vengono respinte come forze di governo, le due frange estreme dello schieramento parlamentare (Msi, erede delle posizioni della Repubblica di Salò, e Pci) . Un Paese ancora impegnato sulla strada della ricostruzione della propria identità, materiale e spirituale. La quasi totalità degli italiani ancora era impegnata, per vivere, nei settori tradizionali- principe ancora l’agricoltura che all’inizio del 1950 assorbe ancora quasi il 50% della popolazione attiva, concentrata con picchi del 56-57% al Sud (Ginsborg) - a cui corrispondeva un basso tenore di vita legato, nel caso dell’agricoltura, all’arretratezza strutturale che rallentava la crescita e la produzione (unica eccezione quella delle aziende agricole, dinamiche, moderne e produttive della Pianura Padana). Ciò è legato sia ad una perdita di autorità del pater familias, per cui il figlio del mezzadro tende a non voler più seguire le orme del padre sia al fatto che il proprietario, dato il crollo dei profitti e gli alti prezzi del mercato, tende a vendere le proprie terre il più delle volte ai mezzadri stessi. Ugualmente nel sud Italia si avvia un processo di vendita di terra che, insieme alla legge del 1948 che stabilisce il sistema di crediti ipotecari rurali rimborsabili in quarant’anni, agevola la piccola proprietà contadina. La fine del protezionismo diede nuova vita all’economia del paese portandolo, quasi obtorto collo, a rimodernarsi. In breve tempo la produzione industriale, così sollecitata al dinamismo, supera quella di tutti gli altri settori e l’Italia da paese agricolo diviene una delle nazioni più progredite del continente. L’“urbanizzazione” cambia il volto del paesaggio umano e sancisce la morte dell’“homo italicus” (Asor Rosa) legato alla proprietà e alla coltivazione della terra, sovverte totalmente i precedenti rapporti di classe con la crescita esponenziale della classe operaia di fabbrica che sarà al centro delle lacerazioni che seguiranno questo primo periodo di ebbrezza e che trova sfogo nella dura politica antisindacale e persecutoria ai danni di operai di dichiarata fede comunista perseguita dalle imprese. Il clima sociale e politico si scalderà velocemente e le lotte, le manifestazioni, le repressioni e la rabbia sociale che questa realtà esacerberà tingeranno di nero molte pagine della storia politico- sociale della Prima Repubblica italiana. Il “miracolo economico” in realtà cova degli squilibri al suo interno. Ginsborg delinea perfettamente questa situazione:
il boom si realizzò seguendo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali.
Dunque, l’altro lato della medaglia vede quelle declinazioni obliate dalla vitalità del momento, i contraccolpi che cova al suo interno il “boom” e che, accanto al forte spaesamento culturale, genera bisogni difficilmente soddisfacibili, come la domanda aggiuntiva di case, ospedali e scuole essendo più rivolto alla produzione di beni privati, individuali o al massimo familiari a detrimento dei beni pubblici e dei servizi. Fomenta anche rancore sociale accanto alle rivendicazioni di nuovi diritti dei lavoratori, che cominciano a tradursi in fiammate di combattività, a partire dagli scioperi del 1962- che si concluderà con l’episodio tragico di Piazza Statuto - e soprattutto del 1969 con la rivendicazione di uguaglianza di salario e parità normative tra operai e impiegati (lo Statuto dei Lavoratori è del 1970). Le forme governative non sono pronte alla sfida che questi mutamenti sociali mettono in campo. Avvocato seguace della linea dura, della politica “legge e ordine”, opportunista nelle sue strategie di alleanze, Tambroni non si schiera apertamente con l’ala destra o sinistra del suo partito e mantiene buoni rapporti sia con i dirigenti missini che del Psi (anche se sarà bollato come uomo di destra non solo per la politica perseguita contro i manifestanti ma perché ottenne la carica di presidente del Consiglio grazie al voto degli esponenti del Msi e dei monarchici). Tambroni risponde alle manifestazioni che si svolgono a Genova, a Roma e in Emilia Romagna nel 1960 in occasione del congresso nazionale dei missini che provocatoriamente annunciano di tenerlo a Genova, una delle patrie della Resistenza, merito riconosciutole istituzionalmente con una medaglia d’oro. La vicenda Tambroni, ci fa notare Ginsborg, ha il merito di chiarire una volta per tutte una costante della storia politica della nostra Repubblica: l’antifascismo è nel dna dell’ideologia egemone per cui qualsiasi velleità autoritaria o liberticida viene osteggiata fisicamente dalla massa e messa al bando. Inoltre questo episodio favorisce un avvicinamento della Dc con i socialisti con la conseguente avanzata delle sinistre alle elezioni. Nel gennaio 1961 viene eletto alla Casa Bianca il democratico John Kennedy che, dopo il rapporto stilato sulla situazione politica italiana da un suo funzionario, decide di appoggiare l’ascesa del Psi con il doppio scopo di oscurare il partito comunista -che aumenta il proselitismo di massa- e al contempo far uscire l’Italia dallo stallo in cui il vuoto riformista l’aveva incatenato. Un papa ieratico, lontano dal sentire della gente. “Riforme mancate e mancata riforma del sistema politico si intrecciano e si alimentano a vicenda, innescando un “cortocircuito perverso” che agisce in profondità, sotto l’apparente bonaccia che va dal superamento della crisi economica all’“esplosione” del 1968” . Togliatti si aprirà al policentrismo politico e culturale e caldeggerà il superamento dello schieramento ideologico dei due blocchi. Stalin è morto nel 1953 e nel corso del XX Congresso del Pcus, che si tenne a Mosca nel febbraio del 1956, il nuovo segretario Nikita Chruscev diffonde il rapporto segreto sui crimini nefandi commessi da Stalin, favorito in questo dal “culto della divinità” a cui aveva piegato non solo la popolazione ma anche tutti i suoi sodales. La tradizione culturale del comunismo italiano ha allora, con Togliatti e la sua necessità di “vie nazionali del socialismo”, l’originalità di confondersi con quella liberale. Quest’ultimo aspetto è interessante perché testimonia un processo di unificazione nazionale frutto sia di un maggior intervento scolastico mirato all’aumento del tasso di alfabetizzazione sia dell’incontro di due realtà fino a quel momento agli antipodi, i contadini del sud e la classe operaia del nord. Affermato poeta e emergente cineasta, interviene nel dibattito sui caratteri dell’italiano nell’epoca del “miracolo economico” e dedica alla nuova questione linguistica una conferenza (apparsa sulla rivista “Rinascita” nel dicembre del 1964) dove denuncia un letale sovvertimento del tradizionale assetto dei rapporti comunicativi, inquinati dall’avvento dell’industrializzazione a-morale e selvaggia e alla diffusione sempre più massiccia della televisione che tende ad unificare al ribasso la lingua italiana dalla cui facies scompare, o comunque si erode irreversibilmente, la genuinità di un dialetto che si vede aggredito dai potenti mass media. I dati statistici sono a questo fine utile: nel 1958 solo il 12 percento delle famiglie italiane possiedono un televisore, nel 1965 la percentuale è già salita al 49, allo stesso modo il possesso di un frigorifero passa dal 13 al 55 per cento, quello di una lavatrice dal 3 al 23 mentre gli italiani che posseggono un’automobile passa da 342000 a 4670000. Cambiano le abitudini alimentari e il modo di vestire degli italiani. Tutto ciò avallato dallo Stato e dal suo lassismo, dalla pigrizia e inamovibilità dei governi che nel ventennio 1950-1960 concedono piena libertà all’iniziativa privata. Fu uno dei pionieri della critica serrata e violenta di questo nuovo stato di cose, sociale e politico e ferventi saranno gli attacchi che lancerà dalle pagine di quotidiani, in particolare il “Corriere della Sera”. A lacerare il velo delle illusioni saranno, in campo politico-sociale, atti di terrorismo e violenza vigliacca che dopo il preludio sessantottino, dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 darà il via alla “strategia della tensione”, allo stragismo nero e al fenomeno delle Br: vicende che tanto avviliranno la nostra democrazia. Il rifiutato è l’irruzione dell’estraneità e della diversità, l’oggetto inerte e passivo del rifiuto. L’essere del rifiutato è la sua povertà e la sua miseria inseparabili e irreparabili.

Pasolini con la sua opera poetica, che contempla non solo la scrittura ma anche il cinema (“la lingua scritta della realtà”), offre al suo pubblico un ampio materiale di riflessione sulla figura del rifiutato, dell’emarginato e sulle sue implicazioni sociali, politiche e morali. Negli anni Sessanta la produzione culturale e artistica si sposta sul cinema perché ha una presa maggiore sul pubblico, è più sensibile alla quotidianità e fedele al paese che cambia. L’avventura del cinema lo porterà a viaggiare costantemente negli anni Sessanta. In Alì dagli occhi azzurri, un volume che raccoglie scritti tra il 1950 e il 1965, c’è un racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, Profezia (1962-1964) in cui riversa la sua speranza nelle potenzialità rivoluzionarie dei popoli sfruttati del terzo mondo,essi sempre umili/essi sempre deboli/essi sempre timidi/essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi/essi sempre piccoli […] deponendo l’onestà/delle religioni contadine, /dimenticando l’onore/della malavita/tradendo il candore/dei popoli barbari, /dietro ai loro Alì/dagli occhi azzurri- usciranno da sotto la terra/per uccidere-/usciranno dal fondo del mare per aggredire/scenderanno dall’alto del cielo per derubare […]distruggeranno Roma/e sulle sue rovine/deporranno il germe/della Storia Antica.
Accanto c’è anche il filone politico, di denuncia: Le mani sulla città di Francesco Rosi,1963, affronta il tema della speculazione edilizia a Napoli, o a Elio Petri, Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) etc. Accanto a questi registi Pier Paolo Pasolini è spinto al cinema dalla volontà di dare plasticità visiva alla sua immaginazione antropologica e poetica. Il suo è un cinema tutt’altro che consolatorio, non è foriero di speranze ed è colmo di rassegnazione e amarezza, sentimenti maturati in seguito al sopravvenire della crisi delle ideologie e allo sfigurarsi del mondo del “piccole patrie”. Una nuova “Bibbia dei poveri”. Un cinema che fa dell’intrattenimento piccolo-borghese una sorta di Moloch e che si staglia contro l’ipocrisia dei benpensanti attraverso l’esibizione del sesso senza veli, almeno finché il consumismo non farà della liberazione dai tabù sessuali un suo imperativo, trasformando lo stigmatizzato Pasolini in corifeo della nuova normalità borghese. In Pasolini il cinema si mostra da subito per ciò che è, “passione per la vita”, un mezzo per portare la poesia nella realtà attraverso la chiarezza della prosa. “[…] Io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. Sempre del biennio 1968-69 sono La sequenza del fiore di carta e Porcile (a detta dell’autore, il suo film “che più tende al cinema di poesia”) mentre successive altre significative produzioni, dall’Edipo Re (1967), a Medea (1969-‘70), da la “Trilogia della vita” (stagione 1970-1974) che contempla Il Decameron I racconti di Canterbury Il fiore delle mille e una notte (una trilogia della “mancanza della vita”, affermazione disperata di qualcosa che non esiste più) alla quale seguirà un documento scritto nel giugno 1975 (Abiura dalla Trilogia della vita) dove giustifica il suo gesto dell’abiura con la costatazione della scomparsa di quella gioventù capace di libertà e trasgressione a cui quasi lui inneggiava attraverso questi film. L’innocenza che lui aveva perseguito qui è cancellata dal meccanismo di emulazione dei modelli veicolati dalla televisione, figli della società capitalista che tutto ciò che tocca corrompe; alla violenza disarmante e demistificante di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui la rievocazione in chiave sado-masochista di un episodio della Repubblica fascista di Salò fa da metafora della situazione dell’Italia democratico-repubblicana; a cui avrebbe dovuto seguire Porno- Teo- Kolossal, progetto interrotto, insieme al suo romanzo Petrolio, dalla tragica fine dell’autore all’Idroscalo di Ostia. Riservandoci un’analisi più puntuale in un secondo momento, possiamo tuttavia cogliere la sua convinzione che sia in atto un mutamento socio- antropologico devastante, che oscura la prospettiva popolare della Storia spogliandola così del suo carattere “assoluto”. Intuibile è, a questo punto, la sua netta condanna del movimento studentesco del 1968, da cui prende le distanze dichiarandosene estraneo perché avvertito come volontà di emancipazione piccolo- borghese. Lo stato d’animo del Pasolini degli ultimi anni è di “disperata vitalità”: sa di non essere compreso. I suoi interventi si fanno sempre più numerosi e appassionati, ruotano intorno a ciò che Pasolini dice soggiacere alla base di questa drammatica realtà: l’esiziale vuoto democristiano, partito arroccato nel Palazzo per semplice tornaconto personale, l’inamovibilità del progressismo e gli errori tattici del Pci, la dissoluzione del mondo proletario- contadino. L’ingordigia dei governi di centro- sinistra che dominano la scena dal 1962 al 1968, rende sordi e ciechi i politici di fronte alle esigenze di un’Italia in rapido cambiamento. Le ragioni salienti del movimento studentesco vanno ricercate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta: con l’introduzione (1962) della scuola media dell’obbligo fino ai quattordici anni, si incentiva un livello di istruzione di massa oltre la scuola primaria ma contemporaneamente vengono alla luce le gravi carenze: dalla mancanza dei libri di testo alle gravissime lacune nella preparazione degli insegnanti, mai aggiornati. Il Sessantotto italiano nasce nelle università con la richiesta di un serio esame di coscienza alla cultura. Nel frattempo, nelle maglie comuniste torna in auge il pensiero marxista con la sua attenzione per i coni d’ombra aperti dallo sviluppo economico e la conseguente condizione della classe operaia. A completare il quadro, si aggiungono presto le influenze “terzomondiste” provenienti dall’America del Sud, a partire dalla morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967 che diviene così il martire simbolo della rivolta. Siamo nell’autunno del 1967 e investe gli atenei a partire dalla facoltà di sociologia di Trento a cui seguono quelli di Milano, Torino, Pisa. La nuova lettura che viene data nel Sessantotto è libertaria e iconoclastica del materialismo storico. I lasciti saranno vari, non tutti della medesima natura: innegabile il forte impulso alla democratizzazione, alla modernizzazione e alla partecipazione con l’affermazione del primato dell’assemblea a detrimento della delega. Gli atti dimostrativi, provocatori, violenti e il disprezzo per le regole furono alla base del fallimento. Ebbero però l’intuizione della necessità di avere al proprio fianco gli operai, classe sociale sclerotizzata in una situazione intollerabile. La propaganda incendiaria inibisce qualsiasi istanza modernizzatrice, le modalità di rivendicazione sono corrotte da una torsione del marxismo e del leninismo, per cui la coronazione della lotta di classe si può ottenere solo per mezzo di un furore iconoclasta e casinista. Gli anni dal 1968 al 1972 vedranno un susseguirsi di tiepidi e brevi governi di coalizione, perlopiù di centro-sinistra, che tentano di mediare la protesta con una scialba politica riformatrice che favorirà l’istituzione delle Regioni, la regolamentazione del referendum abrogativo; in campo sociale la regolamentazione delle pensioni, la nascita (maggio 1970) per merito del socialista Giacomo Brodolini dello Statuto dei Lavoratori di cui si comincia da subito a fare largo uso, la conclusione della lunga lotta del Lid per l’introduzione del divorzio in Italia, intrapresasi dopo il progetto di legge del 1965 presentato dal socialista Fortuna, il cui iter parlamentare però venne bloccato dalla Democrazia cristiana. Una condizione di assoluta precarietà su cui si abbatterà la più grave crisi economica dopo quella del 1929 e che influirà sulle politiche economiche internazionali per tutti gli anni Settanta, conosciuta come crisi petrolifera perché generata dalla decisione dei paesi dell’Opec di aumentare del 70 per cento il prezzo del petrolio facendolo schizzare alle stelle e mostrando nella sua drammaticità la totale dipendenza dei paesi occidentali dall’esportazione del petrolio. Questa crisi si abbatte su una situazione internazionale già fortemente problematica: la rottura del sistema Bretton Woods con la conseguente incertezza sui mercati finanziari internazionali, la svalutazione del dollaro, l’esplosione dei tassi salariali europei, un eccesso di offerta sul mercato del lavoro e il rapido declino dei profitti. Interessante è l’analisi che fa dei motivi che soggiacciono a questo estremismo della “nuova sinistra” Silvio Lanaro. Si è molto discettato sull’anomalia del “bipartitismo imperfetto”, sul blocco ultradecennale del quadro politico e sul “revisionismo” del Pci, accompagnato dalla tattica terzinternazionalista del far terra bruciata alla propria sinistra: e tuttavia non si è posto l’accento sullo scotoma idiomatico di cui soffre chi vive in un paese privo nel lungo periodo di tradizioni liberali, e dunque costretto ad articolare le proprie concettualizzazioni (e le proprie azioni) a seconda di quanto gli offre il mercato delle idee e dei linguaggi. Immediata l’accusa da parte di polizia e governo alle frange anarchiche con l’individuazione dei responsabili nel ballerino Valpreda (che dopo aver trascorso tre anni in galera, solo nel 1985 sarà prosciolto da ogni accusa) e nel ferroviere Pinelli che “cadrà” dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi durante l’interrogatorio. Alla strage del 12 dicembre e alla tensione successiva si richiamerà il primo documento del Collettivo Politico metropolitano, da cui nasceranno le Brigate Rosse, gruppo che rimarrà isolato fino alle elezioni del 1972, quando il terrorismo si colora anche di rosso con l’incruento ma emblematico sequestro di un dirigente della Sit- Siemens. Nel marzo del 1972, al XIII Congresso del partito, viene eletto segretario Enrico Berlinguer. Alla strage di Piazza Fontana se ne aggiungono presto altre: Piazza della Loggia a Brescia, attentato al treno “Italicus” nel 1974 e attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. L’unico argine, nell’opinione di Berlinguer, sarebbe stata allora una grande alleanza che si concretizzasse politicamente in un accordo con la Dc, presentandolo come una strategia in cui comunisti e cattolici avrebbero condiviso un medesimo codice morale con il quale risollevare le sorti del paese. Questa strategia avrebbe avuto il merito indiscutibile di porre il Pci al centro della scena politica dopo anni di evanescenza. La sensazione che si ha è di essere di fronte alla nemesi del Partito democristiano, come si coglie dall’esigenza pasoliniana di un “Processo etico” al “Potere”, ossia al partito che lo ha incarnato, al fine di riscrivere delle regole civili universali e inviolabili. A Pasolini il “coraggio intellettuale della verità” non manca:
Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Colpa da cui discende la necessità di un processo, un “Processo come metafora” con cui “determinare nel paese una nuova coscienza politica” sancendo definitivamente la fine di “un’epoca millenaria di un certo potere”, rendendo preclara una verità fondamentale, “che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere”, ossia alle esigenze etiche della collettività civile. Le successive elezioni politiche, 20 giugno 1976 -le prime aperte anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni-, confermano la salita del Pci che con il 34,4 per cento dei voti si avvicina alla Dc che resta stabile al 38,7 per cento, grazie alla grande borghesia che fa quadrato intorno al partito (storico l’invito del più famoso giornalista conservatore italiano e direttore del “Giornale Nuovo”, Indro Montanelli, a votare Dc “turandosi il naso”) mentre il Psi esce indebolito (nel 1976 il segretario De Martino verrà sostituito da un esponente dell’ala destra del partito, Bettino Craxi). I due governi Andreotti che si susseguono tra il 1976 e il 1978 e che includono il Pci nell’area di governo, passeranno alla storia come governi di “solidarietà nazionale” all’interno dei quali si appannerà la diversità comunista, grazie anche all’abilità del fine statista Aldo Moro, che con l’ambiguità e la sottigliezza del suo linguaggio, favorisce il graduale inserimento del Pci nelle logiche del sistema dei partiti, processo vissuto come un tradimento da quegli elettori che avevano riposto vitali speranze in un partito per cui Pasolini spende queste parole:
la presenza di un grande partito di opposizione come il Partito Comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
A provocare il fallimento della “solidarietà nazionale” è proprio l’assenza del soggetto “nazionale” con cui unanimemente si indica un agglomerato sociale relativamente uniformato da comportamenti e valori comuni. Questo avvenimento scuote le fondamenta del sistema spingendo alla riflessione parte della società civile sull’importanza di beni immateriali usurati fino a quel momento. La presa di coscienza di Berlinguer del fallimento del “compromesso storico”, si ha a Genova dove, nel settembre 1978, durante la festa nazionale dell’“Unità” rivolgendosi alla folla dirà che è giunto il momento in cui “si possono e si devono cambiare” gli equilibri politici del paese. Tuttavia, la rottura della solidarietà nazionale segnerà anche il declino del Pci. Nelle manifestazioni giovanili del 1968, diviene inviso agli studenti, e a larga parte del Pci, per la netta posizione che assume. Individua una forte ambiguità nel movimento, all’interno del quale scorge elementi piccolo-borghesi. La polemica contro/il Pci andava fatta nella prima metà/del decennio passato. siamo ovviamente d’accordo con l’istituzione/della polizia.//a Valle Giulia ieri, si è così avuto un frammento/di lotta di classe: e voi cari (benché dalla parte/della ragione) eravate i ricchi/mentre i poliziotti (che erano dalla parte/del torto)erano i poveri. /Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, /o bandire dalla sua anima, una volta per sempre/l’idea del potere. Il “perturbatore della quiete” Pasolini, ospite scomodo della cultura italiana, negli ultimi anni della sua vita sente il bisogno cocente di confrontarsi con l’opinione pubblica, atterrito da ciò che vede: un’omologazione incalzante di costumi e moralità cui si doveva celermente fuggire e contro cui doveva lanciare i suoi strali anche a costo di attirarsi critiche aspre, come fu. Nel frattempo, prende a scrivere caustici pamphlet politici nella prima pagina del “Corriere della sera” (possibilità che gli è data dalla successione a Giovanni Spadolini come direttore di Piero Ottone, più liberale e pronto a violare il moderatismo borghese a favore di una più vivace dialettica politica, al cui fine venne creata una “Tribuna aperta”). I bersagli di Pasolini sono il consumismo, l’esercizio democristiano del potere, il permissivismo nei giovani e la linea ufficiale dei comunisti. Il fine è quello di provocare accese polemiche, assumendo anche posizioni inaspettate, come nel caso del referendum sull’aborto del maggio 1974 la cui vittoria viene aspramente criticata da Pasolini perché dissolve definitivamente l’identità contadina, lasciando un vuoto riempito dalla “borghesizzazione”, dai valori vacui ed effimeri di un consumismo sfrenato. La vertiginosa salita del Pci alle elezioni amministrative del giugno 1975, offre a un Pasolini galvanizzato da questa novità politica, da quella che sembra una nuova primavera nata da una restaurazione della sinistra -favorito anche dal consenso accordatogli dai ceti medi, i quali sembrano rispondere a quel sentimento di legittimità costituzionale che suscita nei confronti del Pci il terrorismo di destra-, l’occasione per delineare un suo personale progetto di riforma che prevede l’abolizione immediata della scuola media dell’obbligo e della televisione. Nei confronti del successo elettorale comunista però Pasolini tiene un atteggiamento di distacco . I “fascisti di sinistra” dal punto di vista della prassi, sono frange attive all’interno del partito e simili impurità rischiano di far perdere di vista le necessità della Storia. “Io mi sono sempre opposto al Pci con dedizione, aspettandomi una risposta alle mie obiezioni. Accanto alle passioni, l’eros e le abitudini sono recidive. Nei suoi vagabondaggi notturni si riverbera il deragliamento della società italiana. Sarà vittima di aggressioni, conati di violenze e intolleranza fino al triste epilogo: l’alba del 2 novembre 1975 consegna al mondo il corpo di Pasolini abbandonato su un anonimo terreno dell’Idroscalo di Ostia. Ogni società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue fila. Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, […] ha fatto una serie di film alcuni dei quali sono ispirati al suo realismo che io chiamo romantico ossia, un realismo arcaico, gentile e al tempo stesso misterioso; altri ispirati ai miti, al mito di Edipo ad esempio, poi ancora al mito del sotto-proletariato il quale è apportatore […] di una umiltà che potrebbe portare ad una palingenesi del mondo. Lì si vede questo schema del sottoproletariato. Lo schema dell’umiltà dei poveri Pasolini l’aveva esteso in fondo al Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. […] Allora il saggista era una novità (che) corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene ad un altro aspetto di Pasolini cioè, benché fosse uno scrittore con dei frammenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico tuttavia aveva un’attenzione profonda per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese.

Gli anni del boom economico italiano vedono un’incontrollabile e apparentemente solida crescita industriale a cui si accompagna un decisivo aumento del reddito e il conseguente espandersi dei consumi privati. Questa visione idilliaca è turbata tuttavia da alcune degenerazioni del sistema. La deflagrazione industriale, l’impennata della produzione settoriale e la diffusione del benessere hanno come contraltare una serie di sovvertimenti sociali che si manifestano sempre in maniera più evidente e che vanno dall’abbandono delle terre nel Meridione alla convivenza coatta nelle città industrializzate tra culture antitetiche e sconosciute sino a quel momento l’una all’altra al vuoto etico generato dalla perdita di quei valori diacronici, consolidati e comuni che informavano la vita relazionale. dove non c’è libertà ma un nuovo “dentro”: il “penitenziario del consumismo” i cui “personaggi principali” sono i giovani. Il fenomeno della perdita non risarcita dei valori è devastante sui giovani, è l’ipoteca più amara che grava sul loro futuro e la caduta del prestigio irrelato dei valori culturali non poteva non produrre una mutazione antropologica, una crisi. È un sostituto della magia […] Ernesto De Martino lo chiama “paura della perdita della propria presenza” e i primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. Nel mondo moderno, l’alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall’alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l’alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall’idea della perdita della propria presenza . Alla distruzione anomica del mondo popolare, sottoproletario e delle borgate che favorisce certi fenomeni di alienazione psichica, è imputabile il clima di criminalità brutale che si diffonderà in Italia. La crisi della cultura fa sì, infatti, che molti giovani siano letteralmente ignoranti.
La società viene reificata dalla nuova realtà economica. In una lettera al suo amico Alberto Moravia esprime tutto il suo disagio esistenziale, la sua rabbia e la sua disperazione fisica di fronte al cataclisma che sta investendo la società italiana,
Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Nel delineare il profilo strutturale della nuova società edonistica e consumistica si serve molto della descrizione delle relazioni individuali e del significato che queste acquistano.
Pasolini parla di “genocidio” richiamandosi a Marx, intendendo dunque una totale sostituzione di valori,
il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un’affermazione totalmente eretica e eterodossa. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia- la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese- hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia .
La dignità della povertà, elemento caratteristico del mondo contadino e che racchiude quasi in una dimensione sacra il mito pasoliniano, si perde nelle borgate romane degli anni Settanta (unica consolazione per lui sarà la realtà contadina del Terzo Mondo). Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. È attratto dal sottoproletariato di cui delinea il profilo in una delle riflessioni fatte nel corso di una serie di incontri tenutesi nel 1975 con il giornalista inglese Peter Dragadze e che lui stesso definisce un “testamento spirituale- intellettuale”,
mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura(mentre quella del borghese è volgare); perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente); perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda); perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta); perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca) .
Pasolini non volge la tua attenzione alla caotica realtà del Nord dove le borgate sono popolate da immigrati spuri, fagocitati dal sistema neocapitalista industriale al quale hanno volontariamente aderito abbandonando le loro terre al Sud. Piuttosto trova analogie tra la cultura del sottoproletariato meridionale e la cultura contadina di quello che chiama Terzo Mondo. Individua l’errore dell’Italia nella rapidità del cambiamento e ricorda spesso nei suoi scritti come il passaggio nel secondo dopoguerra dalla società preindustriale agricola e commerciale a quella industriale sia avvenuta in soli venti anni. Il neocapitalismo è includente, unificante, tende ad inglobare creando una “unità del mondo”. Tutto questo perché
il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l’applicazione tecnologica della scienza. Sicché l’unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un’unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi . (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo) .
Per Pasolini appare di precipua importanza rifondare i modelli culturali, teorici rinnovando l’analisi marxista e della sinistra del tempo. Il capitalismo cui si riferisce Pasolini non è più quello statico, meno interessato dagli effetti della tecnologia che caratterizzò la prima fase industriale; non a caso lui parla di “neocapitalismo”, dominato da una classe borghese almeno potenzialmente egemone, che informa la società dei suoi peculiari valori e caratterizzato, a differenza del vecchio capitalismo, dalla mercificazione della cultura attraverso l’industria culturale e favorito in questo dalla nascita e dalla rapida diffusione su larga scala di mezzi di comunicazione di massa, tra cui domina la televisione. La crescita industriale schizofrenica non permette dunque alle classi sociali di sedimentarsi ma al contrario le obbliga a formarsi in brevissimi lassi temporali. Giulio Sapelli nel suo testo marca la distanza della realtà italiana sia da quella inglese dove, come Engels testimonia nella sua celebre opera del 1845, Condizione della classe operaia in Inghilterra, la formazione del proletariato prende corpo già nell’Ottocento, sia da quella francese e tedesca dove il proletariato è concomitante all’espansione della borghesia. Non siamo di fronte ad una lenta trasformazione culturale, dice Pasolini, ma ad una vera e propria rivoluzione, una “rivoluzione antropologica”. Il rifiuto della modernizzazione è assoluto e disperato. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell’esistenziale, nel concreto. La tolleranza è l’aspetto più atroce della falsa democrazia . Quello messo in atto dall’edonismo interclassista è in realtà un subdolo razzismo che ha il volto della discriminazione per cui l’unico modello accettato è quello della normalità piccolo- borghese veicolato dalla pubblicità. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico- mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. […] Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace . Ecco allora cosa rimpiange Pasolini, non l’ “Italietta” ma l’universo gaio dei contadini e degli operai prima dello Sviluppo. Io credo che non solo sia la salvezza della società: ma addirittura dell’Uomo. Una orrenda “Nuova Preistoria” sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell’antropologia classica, ora agonizzante. L’industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia .
È un marxista sui generis Pasolini, non possiede l’elemento principale dei marxisti: la fede nel progresso sociale. “Illuminismo culturale”. Il sacro è
l’elemento dell’esperienza sottratto alla materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante […] una “sospensione della ragione” che affida l’uomo ad una potenza spirituale più grande e da lui separata […] rappresenta qualcosa di diverso dalla religione, che è diffusa a livello di massa .
La crisi della chiesa diventa crisi del sacro. L’ideologia illuministica del capitalismo fa vacillare una delle due uniche possibili resistenze al suo trionfo, l’atavico sentimento cattolico italiano. Richiamandosi al concetto di Engels (Antiduhring, 1878) per cui il socialismo è l’affermazione del passaggio dell’umanità dalla preistoria alla storia, Pasolini ribatte al giudizio espresso dal suo intervistatore Alberto Arbarsino che valuta la diffusione della ricchezza e l’accesso di larghi strati popolari al benessere mai conosciuto prima un fatto positivo perché segna la “liberazione dal bisogno, dalla paura, dal ricatto della fame”, con queste parole:
Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione, e i vicini, vedendo l’antenna, dicono, come pronunciando il capoverso di una legge “Sono ricchi! Stanno bene!”.
Alla domanda di Arbasino “Tu cosa vedi?”, la risposta è illuminante:
Due Preistorie: la Preistoria arcaica del Sud, e la Preistoria nuova nel Nord. La consistenza delle due Preistorie (e la lenta fine della Storia, che si identifica ormai soltanto nella razionalità marxista), mi rende un uomo solo, davanti ad una scelta egualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione. La marxista liberazione dell’uomo non avviene a seguito della serie di cambiamenti che l’avvento della tecnologia mette in atto, non si entra nella Storia ma in una nuova preistoria, quella del cupio dissolvi, dello stillicidio culturale ben rappresentato dalla televisione e voluto dal capitalismo “caro ai liberali”, depositari di un’ideologia tipicamente borghese.
Tutti i mali del mondo si identificano per me nella borghesia, intendendo naturalmente non il singolo individuo, ma la classe nel suo insieme e per quello che essa rappresenta .
Questa borghesia per la prima volta nella storia della società italiana si pone non più come classe dominante, ma come classe egemonica. Per cui si forma una classe borghese avulsa dalle altre, contraddittoria in se stessa perché mentre dovrebbe essere protestante e liberale, nasce nel segno della Controriforma, in un mondo di contadini. Durante un intervento al congresso del partito liberale, delinea il profilo degli “sfruttatori” della seconda rivoluzione industriale, quella tecnologica, consumistica, che non sono più identificabili come coloro che semplicemente producono merci ma “nuova umanità”, nuovi rapporti sociali. b) è un medium di massa […] è manipolata per ragioni extra- culturali, e la sua diffusione deve tenere anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli.
Non può che dire, da intellettuale, “no” alla televisione (eccetto una collaborazione a Tv 7 che accetta perché la ritiene una forma di contestazione alla televisione fatta dall’interno) perché non individua in questo strumento un’autonomia propria, concreta tipica invece del giornalismo o del cinema o dell’insegnamento (in realtà Pasolini individua un momento autonomo della televisione, la “presa diretta”, il cui linguaggio però stenta ad affermarsi). L’idiosincrasia di Pasolini è totale, viscerale. È per questo che Pasolini sente su di sé il dovere civico e intellettuale di proporre una radicale riforma al sistema televisivo e al suo “culturame”:
Bisogna rendere la televisione partitica e cioè, culturalmente, pluralistica. Ogni Partito avrebbe diritto alle sue trasmissioni […], al suo telegiornale […] e dovrebbe gestire anche altri programmi .
La televisione inoltre mette in atto un altro cambiamento: avvia un processo di reificazione al ribasso della koinè linguistica. Pasolini si sofferma molto su questo aspetto perché nella sua analisi la lingua è un elemento imprescindibile dal momento che è dall’ordito del linguaggio che si studia la società nella sua immediatezza. L’ethos borghese tende ad essere introiettato dalla nuova società e ad informare di sé lavoro, disciplinamento sociale e selezione culturale.
La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell’esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle elites) è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita .
Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria- in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx)- e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggior repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini .
Afasia intellettuale, falsa tolleranza, interclassismo edonista: questo il risvolto drammatico della nuova società neocapitalistica che si presenta inerme, come un re nudo agli occhi di Pasolini. Il pessimismo storico di Pasolini è totale (“ […] sono disperatamente pessimista”). Nei teppisti meridionali non c’è un’inconscia protesta moralistica, ma un’inconscia protesta sociale: essi non appartengono […] alla classe borghese […] ma al popolo o al sottoproletariato […] non commettono reati gratuiti, ma reati ben giustificati dalla necessità economica e dalla diseducazione ambientale .
Il più emblematico cambiamento nelle abitudini degli italiani, il più lento ma al contempo più parossistico, riguarda la sessualità, fino ad allora il più forte tabù sociale. Non si può tornare indietro, la tradizione ha ceduto alla modernizzazione, all’edonè consumista: Pasolini è apocalittico.
Un’analisi dettagliata e chiara ce la offre Sapelli che ci richiama alla memoria l’“economia delle aspettative” scoperta dai grandi classici dell’economia, tra cui spicca Keynes i cui studi sulla logica del consumo descrivono a livello teorico i mutamenti individuati da Pasolini. Oggi, la mancanza di determinati beni privati porta addirittura ad una sorta di isolamento all’interno della società” . Troppo manichea, la posizione di Pasolini a tratti si lascia andare forse troppo al catastrofismo, la sua visione apocalittica inficia l’oggettività dell’analisi.
Turba il sistema produttivo, è di ostacolo all’affermazione del neocapitalismo nelle sue diverse accezioni, “anzitutto l’omosessualità è totalmente distaccata dalla produttività puramente umana, quella della specie, nel senso che influirebbe piuttosto negativamente sullo sviluppo demografico se si generalizzasse” . Questo fomenta il disprezzo di Pasolini verso la borghesia, lo assolutizza. Il borghese non subisce questa anomia, non partecipa della sofferenza della classe proletaria e contadina, del disagio dei borgatari ma al contrario “non hanno fatto altro che aggiornare i loro modelli culturali” per cui può affermare stentoreamente di non nutrire alcuna pena per una classe sociale che non ha fatto altro, come afferma Marx nel Manifesto del 1848, che mostrare la sua natura solipsistica tesa ad assimilare tutto a se stessa. L’assoluta (apparente) libertà sessuale, ossia il libero arbitrio sul nostro corpo, è alla base di un pensiero complesso, se vogliamo anche distorto, di Pasolini che parte dall’analisi della “nuova donna” calata all’interno della rivoluzione delle classi medie: l’essere-nel-mondo è esattamente questo, sperimentare le nuove realtà e “codificarle” per farne, conformisticamente, delle abitudini. Il meccanismo di codificazione normativa che un tempo era della matrona, della padrona di casa, ora è della “nuova donna”, istruita e colta, borghese e libera nelle sue scelte politiche e sessuali. Ecco il cambiamento antropologicamente drammatico indicato da Pasolini: la piccola borghesia fa propri i comportamenti tipici della destra più gretta e intollerante. Nel corso di un dibattito con la redazione di “Roma giovani” del 1974 alla domanda sul ruolo del Sessantotto nella sua critica all’alienazione della società capitalistica e di conseguenza sulla costruzione di un nuovo discorso politico e culturale, Pasolini risponde con un secco “no”.
La scissione avvenuta, per opera della classe dominante, tra “progresso” e “sviluppo” viene imputata da Pasolini anche alla sinistra e alla cultura cattolica le quali avrebbero dovuto assumere su di loro la responsabilità del momento, avvertirne l’urgenza e impegnarsi al fine di tutelare i valori.
Questa esortazione si collega ad uno degli interventi più dissacratori e oracolari di Pasolini, intitolato “Bologna, città consumista e comunista”, contenuto nelle Lettere Luterane, una raccolta di articoli e saggi politici molto pugnaci e demistificatori del sistema di potere italiano, usciti di volta in volta sul “Corriere della Sera”, su “Mondo” e su “Vie Nuove” nel corso del 1975. Nel saggio sopracitato descrive il suo strazio nel constatare come anche sull’ Emilia, e sulla sua amata Bologna nello specifico, si sia diffuso lo spettro della modernizzazione capitalistica che con la sua furia distruttrice ha demolito alla base la possibilità (ai suoi occhi un tempo concreta) di realizza
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