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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-10082008-160537


Tipo di tesi
Tesi di laurea vecchio ordinamento
Autore
SIGNORI, GABRIELLA
URN
etd-10082008-160537
Titolo
Interazione madre - bambino nel processo acquisitivo del linguaggio
Dipartimento
LETTERE E FILOSOFIA
Corso di studi
LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
Relatori
Relatore Prof. Berrettoni, Pierangiolo
Parole chiave
  • Nessuna parola chiave trovata
Data inizio appello
03/11/2008
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
03/11/2048
Riassunto
Linguaggio pre verbale


Il bambino per diventare capace di partecipare ai discorsi deve impadronirsi del linguaggio su due versanti: quello della comprensione e quello della produzione.
Occorre cioè che impari a distinguere i suoni fonetici da altri suoni non linguistici, che sappia individuare i fonemi, riconoscere le parole, cogliere le strutture delle frasi, afferrare i significati, infatti, solo così sarà in grado di comprendere perfettamente quello che gli altri dicono. È necessario, inoltre, che il bambino impari ad emettere egli stesso suoni linguistici, dire parole, formare frasi e discorsi.
Vi sono degli studiosi che fanno risalire la prima manifestazione linguistica al primo vagito. Questa affermazione può apparire paradossale anche se non c’è nessun motivo per affermare che vi siano sostanziali differenze tra quel primo vagito ed altri fenomeni di emissione sonore che accompagnano il bambino nelle prime settimane di vita.
Rapidamente tale produzione casuale di suoni, anche estranei alla lingua che viene parlata intorno a lui, diventa per il bambino un gioco con cui compie, contemporaneamente, un esercizio necessario per l’acquisizione dei meccanismi fisiologici che determinano l’articolazione fonica.
Rieder ha effettuato uno studio particolareggiato su una estesa gamma di suoni emessi dal bambino nella fase che precede il linguaggio (dal 17^ giorno al 15^ mese). Egli ha cercato di individuare le relazioni fra le situazioni fisiologiche (attesa del pasto, stanchezza, benessere) e psicologiche (impulso a raggiungere qualche cosa, presenza o assenza degli adulti).
Il bambino ben presto si avvale delle proprie capacità sonore (urla, pianto, vocalizzi, più o meno vaghi)per esprimere le proprie esigenze, per stabilire un primo contatto comunicativo in quanto gli adulti reagiscono alle sue emissioni sonore.
Questi suoni non hanno nulla a che vedere con la voce, ma sono solo conseguenze sonore di attività fisiologiche che si chiamano suoni vegetativi. Fin dalla nascita, i bambini, però, emettono anche altri suoni e lo fanno reagendo automaticamente a stimoli per lo più fastidiosi. A differenza dei vegetativi questi vengono prodotti con la voce e si chiamano suoni vocali e sono di due tipi: gridi e gemiti. Il grido è composto di versi un po’ più lunghi e forti che di solito si ripetono molte volte anche per vari minuti. Il gemito è meno insistente, più discreto, è costituito di versi brevi che si ripetono poche volte.
Intorno ai due mesi i bambini cominciano ad emettere suoni che somigliano a consonanti simili ai fonemi /K/G/C/. Lo fanno abitualmente per rispondere alla madre o ad un adulto, nel complesso intendono esprimere una sensazione di piacere. Questa caratteristica produzione si indica con il termine cooing sound. A questa età i bambini non ridono, in quanto il riso sonoro comparirà verso i quattro mesi e cooing sound è l’unica manifestazione vocale di soddisfazione.
A cinque – sei mesi inizia il balbettio ripetuto. Il bambino costruisce una sillaba costituita da una vocale e da una consonante e va avanti a ripeterla, per lo più la serie parte dalla vocale. Ad esempio “ababa” “anana” . Questa manifestazioni del balbettio sono state argomento di numerose indagini, ma i risultati non sono ancora ben definiti. Il problema che si pone al linguista nell’esaminare questo primo stadio è se l’articolazione è casuale o se risponde a determinati schemi e sequenze diverse da lingua a lingua.
Nel balbettio, durante la prima fase, è possibile riconoscere delle sequenze foniche che si ripetono con una certa regolarità. Nel1880 Schulz postulò la legge “del minimo sforzo fisiologico” per produrre certi suoni. Tale legge, però, così postulata è stata respinta in quanto in contrasto con la regola della ricorrenza dei primi suoni infantili.
Altri autori affermano che la produzione di “suoni” avvienga senza regole apparenti. Sembra che il bambino, a partire da un certo momento sviluppi interesse per i suoni prodotti e li ripeta in lunghe serie monotone.
Altre ricerche hanno, invece, notato una certa regolarità nel primo periodo per una successione di suoni dovuta al fatto che il bambino acquista man mano la padronanza di certi muscoli.
È importante ricordare che in questa fase il bambino emette suoni e non fonemi e che quindi tali suoni sono soggetti a leggi psico – fisiologiche e non linguistiche. Pertanto è erroneo parlare di apprendimento e di imitazione del linguaggio adulto.
Gradatamente, intorno agli otto – nove mesi, il balbettio viene sostituito dalla lallazione. Adesso il bambino non ripete la stessa sillaba ma varia, alternando vocali, sequenze di vocali e consonanti. Come già faceva con il balbettio anche con la lallazione il bambino imprime un andamento musicale, come se facesse discorsi.(1)
Possiamo distinguere una prima fase di vocalizzazione indiscriminata che si prolunga per i primi 3 mesi ed una seconda fase, vera e propria di “balbettio” in prevalenza verso i 6 mesi prolungandosi ben oltre l’inizio dell’attività linguistica articolata e venendo sostituito man mano perso gli 8-9 mesi dalla “lallazione”.
Naturalmente non è molto semplice effettuare tali ricerche, per i seguenti motivi:
· I suoni emessi dal bambino, già molto difficili da cogliere, sono filtrati attraverso le abitudini fonetico – fonematiche degli ascoltatori e quindi interpretati dagli stessi ascoltatori.
· Le spiegazioni che gli adulti danno della lallazione non offrono garanzie in quanto essi si attendono determinate riposte. Ad esempio se il bimbo dice a..a gli italiani credono che egli voglia dire mamma.
Molti sono stati i ricercatori, fra i quali Irvine e i suoi collaboratori, che hanno studiato la lallazione e che si sono trovati d’accordo su questi punti.
· Il primo anno di apprendimento linguistico del bambino è caratterizzato dall’emissione di suoni molto vari per qualità e apparentemente prodotti in modo non sistematico.
· Il numero, il tipo di questi suoni e la qualità totale dell’emissione va crescendo con l’età.
Nella prima fase (fino a tre mesi) prevalgono la vocale /a/ ed il suono consonantico di tipo /r/ uvulare.
La seconda fase (fase di lallazione o balbettio) dura fino all’attività pre – linguistica. È la fase in cui si esercitano, spesso in lunghe serie, in cui si afferma la prima attività di riconoscimento di suoni emessi da altri.
Queste prime fasi presentano un interesse per lo psicologo o meglio per lo psico – linguista in quanto rappresentano un momento importante e di rapida maturazione del bambino, considerato nell’insieme della sua attività psichica e fisiologica.
Imparare a parlare è, infatti, soltanto un aspetto di un insieme di sviluppo che comprende la presa di contatto con il mondo, l’adattamento ai molteplici e contrastanti aspetti della realtà.
In questo processo di maturazione trovano posto anche alcuni fattori rilevanti per l’apprendimento linguistico. Il bambino impara:
· a formare un coordinamento fra certi suoi stati (benessere, malessere) e l’emissione di certi suoni.
· che l’emissione di certi suoni produce delle reazioni da parte degli adulti, che portano come conseguenza il soddisfacimento delle sue esigenze.
· a formare un coordinamento fra l’audizione di certi suoni emessi dagli adulti e certe sue azione che suscitano interventi positivi da parte degli adulti.
· che l’audizione di certe sequenze foniche pronunciate dagli adulti e la presenza o l’assenza di un adulto. Ad esempio “Oggi papà non c’è”.
Con Jakobson, per la prima volta nella linguistica infantile, si studia lo sviluppo del bambino non come semplice giustificazione di elementi isolati ma come un’organica formazione di un sistema destinato a formare il “codice” di cui il bambino si servirà.
Lo studio di Jakobson si limita ad un solo aspetto, quello fonologico. Questa teoria si applica a tutte le lingue del mondo indipendentemente dalle condizioni di tempo e luogo.
Secondo tale teoria, l’acquisizione dei suoni nel linguaggio infantile, è governata dalla legge “del contrasto massimo” secondo la quale si stabilisce una successione cronologica che è sempre la stessa.
Lo svolgimento delineato da Jakobson può essere così riassunto.
Nella 1° fase il vocalismo inizia con una vocale aperta e il consonatismo con una consonante occlusiva.
La 1° vocale è di regola la /a/ e la 1° consonante è generalmente una labiale /p/b/.
Quindi si formano baba o papa come prime parole.
Come 1° contrasto consonantico, si sviluppa il contrasto tra il suono labiale e nasale papa/mama.
A questi 2 contrasti nel campo delle consonanti segue il 1° contrasto vocalico: alla vocale aperta si oppone una vocale chiusa (papa pipi).
Nella tappa seguente del vocalismo infantile avviene o una scissione nella vocale chiusa in anteriore e posteriore (papa, pipi, pupu) o si sviluppa un grado medio di apertura (papa, pipi, pepe).
Ognuna di queste 3 processi conduce un sistema di 3 vocali, esso rappresenta il vocalismo minimo e si riscontra in tutte le lingue viventi del mondo.
Una obiezione mossa a Jakobson è il fatto che l’esperienza linguistica del bambino è condizionata fin dal primo momento alla lingua che il bambino sta imparando, cioè la lingua materna.
Ogni ambiente linguistico impone al bambino esperienze diverse, legate alla lingua propria nell’ambiente stesso.
Il bambino, a sua volta, reagisce imparando appunto la lingua del suo ambiente.
Da notare che la lingua materna è rigorosamente determinata e diretta dall’ambiente dalle sfumature dialettali, dalla formazione e vita delle famiglie se ci sono presenti situazioni di bilinguismo.
Se un sistema fonologico, muovendo da una iniziale condizione indifferenziata, si svolgesse secondo regole proprie, dovrebbe condurre ad un risultato identico per tutti i bambini del mondo, invece le considerazioni fatte concernenti la lingua materna indicano il contrario.
Perciò possiamo dedurre che lo sviluppo del comportamento linguistico infantile è determinato dai seguenti 2 fattori.
· Le leggi tracciate dalla teoria di Jakobson
· Il particolare sistema di “suoni” della lingua materna di ciascun ambiente.
Jakobson ha studiato anche un altro fattore sfuggito ai precedenti osservatori, si era notato che molti bambini, nel momento in cui cominciano l’uso attivo del linguaggio, di solito presentano una specie di sospensione degli abituali esercizi fonici inconsci e una radicale riduzione, o addirittura scomparsa fatale, del grande numero di suoni di cui a quel momento sono stati capaci di servirsi.
Scompaiono tutti i suoni strani e anormali di articolazione complicate e scompaiono praticamente anche gli altri suoni più abituali, tranne una o due consonanti e una vocale, usualmente /a/.
Successivamente il bambino riprende a parlare ma in modo ben diverso da prima: sono ora gruppi di suoni semplici, identificabili talvolta con le parole “nursery words “ “stanza dei bambini” alle quali sembra evidente che il soggetto attribuisce ora un “significato” o almeno un “valore” stabile.
Le esercitazioni foniche del bambino consistono in ripetizioni insistenti di quel suono o gruppo di suoni e l’arricchimento qualitativo da un giorno all’altro diventa molto lento e sistematico, cioè precede passando per tutte le combinazioni di suoni i quali vengono per così dire di nuovo imparati.
Secondo Katz si passa, in questo periodo, da un’abbondanza di suoni presenti nel periodo di balbettamento ad una carenza fonetica. Egli da un interpretazione psicologica di ciò affermando che il bambino prima aveva la possibilità di effettuare i movimenti muscolari adatti a produrre questo balbettio, questa possibilità di produzione dei suoni è chiaramente rimasta ma in questa fase il bambino cerca di trasformare il suo balbettio caotico nel linguaggio degli adulti. Il bambino cessa di produrre tutti i suoni che gli adulti non producono.
Anche Jakobson afferma che il bambino, in questo periodo, effettua una selezione dei suoni che acquistano un valore, essi diventano parte di un sistema e da suoni caotici si trasformano in fonemi.
Il sistema fonetico degli adulti costituisce il modello secondo il quale il sistema infantile si sta organizzando. È interessante notare che nel linguaggio infantile vi sono dei fenomeni di sostituzione, il bambino sostituisce con dei fonemi più facili quelli più difficili.
Secondo Lewis il bambino comprende che le distinzioni più importanti, necessarie per le comunicazioni linguistiche sono espresse attraverso le caratteristiche fonetiche cioè il bambino afferra immediatamente le opposizioni fonetiche più importanti mentre ha difficoltà ad apprendere quelle che hanno minori opposizioni.
Solo con il raffinarsi della sua sensibilità fonetica il bambino sarà in grado di percepire tutte le sfumature della sua lingua.
Lewin evidenzia che lo sviluppo coerente e graduale della psiche del bambino lo mette in grado di raffinare le proprie capacità molto più di un’esercitazione imposta o suggerita dall’esterno.
Se per la fase chiamata della “lallazione” esiste un punto di vista su cui gli studiosi sono in genere d’accordo si ha una minore convergenza d’opinioni sulla fase “pre – linguistica”.
I fenomeni che caratterizzano la fase pre – linguistica sono:
· La scomparsa di molti suoni, che può coincidere con un periodo di quasi totale silenzio del bambino.
· L’affermarsi di una fase della melodia in cui i significati del contrasto sono collegati con fatti di intonazione.
· Il delinearsi di elementi fonici privilegiati, che si possono chiamare pre – fonemi.
È chiaro che queste 3 categorie di fatti si manifestano in modo molto differente con ampie oscillazioni sia cronologiche che di caratteristiche nei vari soggetti.
Scarse ricerche sono state affrontate sulla fase melodica e infatti vi sono scarsi notizie a tal proposito.
Secondo Volten alcuni bambini acquisterebbero l’intero sistema fonologico prima dell’età di 18 mesi, altri non pronuncerebbero certi fonemi sino al 6 anno di età e oltre.
Egli constata che all’inizio abbiamo le opposizioni consonantiche /p/–/t/ e /f/-/s/ con la vocale /a/. A queste si aggiungono le vocali /i/ e /u/. Occorrono circa 7 mesi dopo la comparsa della /u/ prima che il bimbo inizi a pronunciare parole del tipo CVC.
Quando, verso la fine del primo anno, vengono pronunciate le prime parole la lallazione non scompare immediatamente. La comparsa delle prime parole non compare improvvisamente, ma è preceduta da una fase in cui il bambino non emette più fonemi per esercitarsi con i suoni del linguaggio, ma inizia ad associare ad un determinato gruppo di fonemi un significato, cioè come se fossero dei morfemi (unità minime di significato). Naturalmente è lontano da padroneggiare i morfemi della lingua, ma è come se avesse afferrato che esistono unità dotate di significato che si possono adoperare per farsi capire.
La comparsa della prima parola si ha fra gli 8 e i 18 mesi, comunque ogni bambino ha i propri tempi. Le prime parole sono formate di norma da una vocale anteriore e da una consonante labiale o dentale spesso ripetuta. Si avrà quindi papa tata ecc. Chiaramente ciò non esclude che alcuni possano utilizzare delle consonanti sonore.
È importante notare, come già visto, che il bambino non è ancora in grado di dare un significato a ciò che pronuncia. Il linguaggio in questo periodo, perciò, ammette un altissimo grado di omofonia al quale viene posto rimedio con gesti.
Jakobson ritiene le prime parole pronunciate dal bambino simili o addirittura identiche in tutte le lingue. Ciò è parzialmente vero in quanto l’adulto interpreta nel contesto in cui vive tali parole e le sequenze foniche pronunciate dal bambino vengono ricollegate al sistema della lingua che gli appartiene.
Lewis fonda la sua indagine sulla ipotesi che il bambino cominci utilizzando il repertorio dei suoi stessi suoni e che poi questi con il passare del tempo si avvicinano sempre più ai suoni che egli sente, cioè quelli degli adulti. Egli constata ancora che la produzione di parole reduplicate, mamma, papà e molto elevata all’inizio, il 30% all’età di un anno e mezzo per poi ridursi al 10% verso i due anni. Ciò testimonia il fatto che il linguaggio infantile è grosso modo uniforme per tutti i bambini.
Il bambino crea il suo sistema di linguaggio per successive approssimazioni attraverso riduzioni ed estensioni fino a definire un sistema equivalente a quello in uso da parte dell’adulto. Si ha quindi un procedimento a salti ogni volta che si ha l’introduzione di una nuova parola si ha il riassetto del sistema. Tale introduzione si ha sotto la spinta del modello dell’adulto.
Sia lo sviluppo della comprensione sia quello della produzione seguono un cammino continuo, non proseguono a salti e si possono identificare tappe o stadi. Ci possono essere entro certi limiti variazioni della durata di ciascuno stadio, ma la successione è caratteristica e si ripete uguale nei bambini di tutto il mondo, a qualunque popolazione o lingua essi appartengano
Generalmente i bambini iniziano a pronunciare vere e proprie parole intorno ai dodici mesi. A volte è come se facessero degli esperimenti, dicono la parola per impadronirsene, per verificare se è esatta, ma anche con l’intento di comunicare qualcosa, trasmettere un messaggio. In questi casi la parola sta al posto di una intera frase o di un periodo, è la cosiddetta olofrase. Con queste il bambino, pur disponendo di una padronanza limitata del linguaggio, riesce a trasmettere agli altri molte informazioni. Dice un gran numero di cose servendosi di una manciata di parole e certamente l’impresa non sarebbe possibile se le persone non collaborassero con lui sforzandosi di interpretare, capire il senso della olofrase.
All’inizio le parole usate sono al massimo quattro o cinque, successivamente il vocabolario attivo del bambino, cioè il numero di parole che sa dire, cresce ad un ritmo di otto, dieci al mese così che alla fine di questo stadio il bambino è capace di usare circa una cinquantina di termini. Il vocabolario delle olofrasi è costituito da termini di portata semantica intermedia, né sono parole che indicano categorie molto vaste e né termini specifici che si riferiscono a gruppi ristretti.
Ad esempio il bambino non dirà “animale” ne “alano” bensì “cane”. Spesso con una stessa parola il bambino impropriamente più cose. È il fenomeno dell’ iperestensione. Potrà infatti usare il termine cane davanti a qualsiasi animale a quattro zampe, sia esso un gatto, una mucca, un cavallo.
Di solito il significato di una parola non viene esteso in modo casuale, ma seguendo certi criteri. Per lo più i bambini si basano su:
· Somiglianze percettive (di forma, dimensione, struttura, consistenza materiale, caratteristiche sonore).
· Somiglianze funzionali ( relative all’uso che si fa di qualcosa)
· Somiglianze di comportamento.
· Contiguità ( il fatto che alcune cose si presentano insieme).
Ad esempio “palla” può indicare tutto ciò che ha forma sferica e circolare (le mele, le torte, le biglie, la luna) e così “auto” può voler dire ogni cosa che si muove e che non è un animale ( il treno, il sasso che rotola, il trattore.
Durante il periodo delle olofrasi, si può verificare anche il fenomeno delle ipoestensione, cioè una parola può essere usata in un senso più ristretto di quello effettivo. Ad esempio per alcuni bambini il termine “micio” indica solo il gatto di casa e “dottore” è solo un ben determinato medico che magari l’ha visitato un a volta, “bambola” è solo quella con cui gioca.
Tra i diciotto e i ventiquattro mesi i bambini cominciano a mettere insieme all’inizio due parole formando le cosiddette frasi binarie, successivamente arrivano a combinarne anche tre e vengono usate solo parole indispensabili per farsi capire. Si suol dire il bambino produce frasi telegrafiche.
Intorno ai diciotto mesi in media i bambini posseggono circa 50 termini, questo numero di parole aumenterà nei mesi successivi fino al raggiungimento di qualche centinaio alla fine dello stadio telegrafico. La frase telegrafica, di regola, contiene parole piene. Le parole funzionali (articoli, congiunzioni, preposizioni, pronomi, interiezioni) di solito non sono presenti. Spesso è composta da un nome e un verbo. (Guarda-cane) Alle volte al loro posto può esserci un aggettivo, o un avverbio o una proposizione “guarda bello” “là cane”. Comuni anche le frasi con due nomi “bimbo cane”.
La frase telegrafica non è costituita semplicemente da due o tre parole accostate a caso, ma il bambino la costruisce seguendo alcune elementari regole, fa un certo lavoro per organizzarne la forma, applica una grammatica rudimentale chiamata “grammatica binaria” in quanto opera con due parole alla volta. Probabilmente in questa vi è una parola perno che organizza la struttura della frase e una parola funzionale che la completa.
Nelle frase telegrafiche ad un’unica struttura di superficie possono corrispondere più strutture di senso. Da questo punto di vista il linguaggio degli adulti in cui si tende a far coincidere il più possibile la struttura formale e con quella di senso delle frasi.
Già tra il primo e il secondo anno i bambini cominciano a far uso di frasi più lunghe. Aumenta, infatti, il numero delle parole piene e vengono introdotte parole funzionali e compare anche un uso appropriato dei morfemi di flessione. Le frasi diventano più lunghe, composte di un maggior numero di parole e acquistano anche una struttura formale sempre più complessa fino ad assumere le caratteristiche delle frasi ben formate e corrette.
L’espansione progressiva delle frasi telegrafiche dipende da tre fattori:
· La disponibilità di un lessico più ricco.
· L’accresciuta capacità cognitiva (che non si ha prima dei 2-3 anni)
· L’apprendimento delle regole di grammatica.
La critica moderna ha superato tale problematica impostando la distinzione non più fra nomi e verbi, ma fra sostanza ed azione. A prima vista parrebbe che il bambino comprende e utilizzi solo parole nel loro senso lessicale, in realtà ciò non è vero in quanto non è possibile utilizzare solo ed esclusivamente in senso lessicale quindi si ha l’assoluta contemporaneità degli aspetti semantici, grammaticali e lessicali.
Questo errore di considerarli separati è dovuto al fatto che il bambino all’inizio dice parole isolate, ma queste non sono parole isolate ma varrebbero, secondo gli Stern, usate in funzione di frase.
La parola espressa rappresenterebbe l’elemento preminente della frase sottintesa la cui comprensione sarebbe affidata al contesto.
Questa ipotesi degli Stern non è quella corretta in quanto come afferma Froschels l’attività linguistica infantile giunge alla frase quando si produce la prima connessione o accostamento di due parole.
Comunque l’importante elemento del contesto viene sempre a precisare i legami grammaticali ed il valore delle combinazioni delle due parole che il bambino ha pronunciato; esempio: papà-auto il papà parte con l’auto.
Il bambino utilizzando i materiali che gli sono noti, i pezzi di frase li associa in combinazioni sempre più vicine a quelle degli adulti.
Braine afferma che le prime combinazioni di due parole appaiono a circa venti mesi di età.
Il bambino inizialmente utilizzerà parole prese da due differenti categorie ma queste non sono paragonabili a quelle tradizionali sostantivo- verbo.
Conclusioni simili a quelle di Braine, che utilizza la lingua inglese è pervenuto anche lo studioso sovietico Gvozdev pur operando con una lingua molto diversa da quella inglese.Secondo Gvodzdev all’età di tre anni quasi tutti i complicati tipi di frase usati dal russo adulto sarebbero presenti nel linguaggio infantile.
Altri studiosi americani Klima e Bellugi sono partiti dal presupposto che il bambino sviluppi un sistema linguistico proprio e che piano piano si adegui a quello degli adulti.
La sintesi dei precedenti autori può essere così riassunta:
Il linguaggio del bambino è composto di un numero limitato di parole collegate tra loro in sequenze di due o tre parole. Esse sono divise in parole di significato negativo e una classe, che tende a diventare sempre più numerosa, di parole con significato interrogativo che si trovano al primo posto nella frase.
Nei soggetti studiati si ha una certa gradualità di sviluppo che si manifesta in termini di grammatica interna del linguaggio infantile e che lo porterà sempre più ad assomigliare al linguaggio dell’adulto. L’esistenza di un sistema grammaticale infantile è testimoniata dal fatto che i bambini sono in grado di correggere i loro stessi errori e dalla sistematicità di questi.
Il bambino è quindi in grado di rendersi conto della grammaticità delle frasi che produce, naturalmente tale abilità aumenta con l’età. La questione è di stabilire se il sistema grammaticale infantile si basi su regole proprie o se esso sia una riduzione del sistema grammaticale adulto.
Il bambino, infatti, non parla solo come risultato di una fissazione mnemonica di esperienze (non si ricorda solo parole separate) ma in linguaggio va visto un insieme.
Il significato che il bambino apprende in questo modo è generico ed imprecisato, almeno all’inizio, e specialmente se commisurato al linguaggio degli adulti. È interessante notare come il linguaggio infantile può operare restrizioni ed espansioni.
Gregoire afferma che suo figlio nella prima fase dell’apprendimento usava la parola “maman” per indicare mamma, papà e la pappa. (es. Michele con bumba). Il bambino non sente la necessità e non ha la capacità di differenziare da un punto di vista linguistico i due esseri che gli sono più vicini anche se è capace di distinguerli fisicamente.
Il bambino riesce a produrre un numero ridotto di suoni e man mano che si evolve non modifica le parole già esistenti, ma aggiunge di nuove.
Il sistema lessicale del bambino segue 2 legge organizzative:
La legge interna di differenze ed opposizioni del Saussurre (langue e parole).
La legge del graduale adeguamento al contesto situazionale e alla denominazione in uso agli adulti.
Di solito al terzo anno il bambino applica regole di grammatica non rispettando le eccezioni. Ad esempio tratta i verbi irregolari come se fossero irregolari, invece di “fate” dice “facete” oppure “scoprito” per scoperto” e così per i plurali “dito” diverrà “diti” e “uovo” uovi”.
Si ha l’impressione che stia disimparando il linguaggio, che l’apprendimento faccia un passo indietro, ma non è così: questi errori commessi dal bambino derivano dal fatto che ha imparato le regole grammaticali e le sta applicando. Prima ripeteva le parole che udiva ora le pronuncia nel rispetto di regole generale, in seguito, poi, apprenderà le eccezioni.
Il fenomeno degli errori commessi nel corso dell’acquisizione delle regole grammaticali è noto come sovrageneralizzazione delle regole o iperregolarizzazione.
Al terzo anno compaiono di solito anche le forme interrogative che cominciano con perché come quando. Fino a tale età, infatti, esistevano solo le domande polari, cioè quelle che prevedevano come riposta un si o un no. Il bambino a tal età inizia a fare frasi complesse; all’inizio la congiunzione più usata è la “e” mentre altre congiunzioni “poi”, “se”, “ma”, “allora” sono più rare. Per quanto riguarda i nessi logici di significato fra le frasi semplici si segue un ordine caratteristico: prima compaiono i nessi aggiuntivi, seguiti dai temporali e dai causali, mentre più tardi arrivano quelli disgiuntivi, oppositivi, di specificazione e di dichiarazione.
Le forme verbali passive il bambino le comprende più tardi, verso la fine dell’età pre scolare. Per i bambini più piccoli è difficile decifrare frasi come “il gatto è inseguito dal cane” , “il cane è inseguito dal gatto” o “l’automobile è urtata dalla moto”. Possiamo vedere come i più piccoli comprendano le frasi passive con un metodo semplice.
Enunciamo loro la frase e chiediamo di riprodurre l’azione che esprime, di farcela vedere, con pupazzi di pezza o con modellini di auto e moto. Finchè non imparano ad interpretare correttamente le forme passive i bambini si basano sulla posizione dei termini della frase concreti di cui si parla. Il nome che viene prima, in linea di massima per loro indica l’agente dell’azione. L’esperienza, poi, suggerisce che, mentre è probabile che il cane insegua il gatto è inverosimile l’inverso. L’esperienza, invece, non insegna nulla sugli urti tra auto e moto: è possibile che un’auto vada contro una moto, come l’opposto. È possibile, perciò, in questo caso che la frase venga fraintesa.
Mentre “il gatto inseguito dal cane” potrà essere interpretata correttamente anche se “gatto” precede cane” perché l’esperienza insegna ciò, la frase “il cane inseguito dal gatto” creerà confusione.
Questo aumento del vocabolario, organizzato dal generale al particolare costituisce il fondamento per un ulteriore sviluppo del bambino fornendogli la capacità di astrazione.
Questo tipo di progresso influisce sull’insegnamento scolastico. Il bambino usa dei suoni che sono in correlazione con la convenzione linguistica della comunità della quale fa parte. Successivamente si ha anche un graduale miglioramento della pronuncia con un perfezionamento dell’articolazione dei suoni già appresi.
Spesso gli studi sul linguaggio del bambino sono stati effettuati da non linguisti, psicologi, medici, educatori, non si è quindi in presenza di risultati certi. L’esperienza insegna, comunque, che l’accrescimento del lessico avviene con l’età del soggetto e con un ritmo molto rapido. Dopo i tre anni non si riesce più a conteggiare il numero di parole presenti nel lessico del bimbo. Indipendentemente dai dati calcolati dagli studiosi ciò che risalta è la grande velocità con cui il bambino nel periodo pre scolastico accresce il numero delle parole.
Chiaramente la maggior parte delle ricerche hanno preso in considerazione le lingue dell’Europa occidentale la cui struttura grammaticale è sempre, almeno nelle grandi linee, una interpretazione della grammatica greco latina.
Nella linguistica infantile classica è stata molto importante la distinzione tradizionale delle parti del discorso in nome verbo e aggettivo e quali di queste il bambino impari per prima
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