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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-10012017-161750


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
LUGARA', ROBERTA
URN
etd-10012017-161750
Titolo
Il giudicato alla prova dell'Europa: uno studio nella prospettiva del diritto costituzionale
Settore scientifico disciplinare
IUS/08
Corso di studi
SCIENZE GIURIDICHE
Relatori
tutor Prof. Romboli, Roberto
Parole chiave
  • limitazioni al giudicato provenienti dal diritto d
  • Statuto costituzionale del giudicato
  • esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburg
Data inizio appello
04/11/2017
Consultabilità
Completa
Riassunto
La ricerca si è proposta di analizzare dal punto di vista del diritto costituzionale le limitazioni al giudicato nazionale provenienti dall’ordinamento dell’Unione europea e dal sistema di protezione dei diritti fondamentali che fa capo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La scelta di trattare il tema assumendo la duplice prospettiva del diritto dell’Unione europea e della CEDU è apparsa necessaria per via dell’elevato grado di integrazione con l’ordinamento interno che i due fenomeni hanno raggiunto e che non è paragonabile, quanto meno relativamente allo specifico tema in esame, ad altre esperienze di diritto internazionale.
Questa scelta ha imposto il metodo di studio, o meglio i metodi, necessari per non tradire la differente natura dei due fenomeni. Si è ritenuto doveroso, infatti, quanto all’Unione europea, assumere il punto di vista del diritto dell’Unione stessa e analizzare sostanzialmente la giurisprudenza della Corte di giustizia che ha delineato casi e modalità in cui il diritto dell’Unione impone, con effetti diretti, il superamento del giudicato. L’analisi del diritto interno si è invece limitata ad alcune considerazioni circa i problemi applicativi che tali effetti diretti producono.
Quanto alla CEDU, viceversa, è apparso necessario assumere principalmente il punto di vista del diritto interno. In particolare, si è in un primo momento cercato di ricostruire il contenuto dell’obbligo internazionale di introdurre limitazioni al giudicato per come tale obbligo è emerso nella giurisprudenza e nella prassi degli organi del Consiglio d’Europa. Successivamente, tale obbligo è stato esaminato dal punto di vista del diritto interno ai fini del suo recepimento. In particolare, il problema delle limitazioni al giudicato è stato ricondotto alla collocazione del diritto convenzionale nel sistema delle fonti, alle questioni concernenti l’esegesi del diritto convenzionale e delle sentenze della Corte di Strasburgo, ai rapporti istituzionali tra le Corti.
Questa differenziazione è sembrata imprescindibile per via della diversa natura dell’ordinamento dell’Unione europea rispetto a quello che ordinamento – almeno allo stato – non è, ovvero il sistema CEDU, per come questa diversa natura è venuta emergendo sia nella giurisprudenza delle Corti di giustizia e di Strasburgo, sia nella consolidata giurisprudenza costituzionale.
Obiettivo della ricerca è stato lo studio delle limitazioni al giudicato volto a comprenderne la ratio e le implicazioni, da un lato, ordinamentali e, dall’altro, relative alla tutela dei diritti. Inoltre, si è inteso verificare se esista uno statuto costituzionale del giudicato e se tali limitazioni siano con esso compatibili.
All’esito della ricerca è emerso che le limitazioni al giudicato provenienti dall’ordinamento dell’Unione europea e dal sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si muovono su strade fondamentalmente già percorse dagli ordinamenti statali all’indomani dell’introduzione delle Costituzioni del secondo dopoguerra.
Anzitutto, né l’ordinamento dell’Unione europea né la CEDU impongono il superamento incondizionato del carattere di stabilità del giudicato. Le limitazioni all’irretrattabilità delle sentenze emesse dai giudici nazionali sono infatti puntuali e subordinate o al ricorrere di una serie di condizioni tutto sommato eccezionali o al riconoscimento, da parte dei competenti organi sovranazionali e convenzionali, dell’ineluttabilità di tale risultato in relazione alle specificità del caso concreto.
Per quanto riguarda l’ordinamento dell’Unione europea, le limitazioni al giudicato nazionale godono dell’effetto diretto, perché mutuano tale carattere dalle norme dei Trattati da cui la Corte di giustizia le ricava in via ermeneutica in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo. La loro efficacia erga omnes e la loro formulazione in termini generali e astratti permette di accostarle, a questi soli fini, a delle “norme” che intendano i) disciplinare in maniera più restrittiva di quanto previsto dal diritto interno le regole sulla formazione del giudicato e sulla sua estensione ovvero, direttamente, ii) travolgere i rapporti coperti da giudicato, imponendone un nuovo trattamento giuridico.
Quanto alle limitazioni sub i), riconducibili alla disciplina del giudicato in sé considerata, l’opera della Corte di giustizia appare una sorta di limatura delle discipline processuali degli Stati membri. Essa è volta a eliminare le asperità dei singoli ordinamenti che non appaiono giustificabili alla luce di una rule of reason che intende soppesare le limitazioni alle possibilità di ripristino della legalità sovranazionale con l’effettivo perseguimento di ineludibili esigenze di certezza dell’ordinamento giuridico. In questo senso, la giurisprudenza della Corte di giustizia è certamente lontana dal possibile travalicamento dei cc.dd. controlimiti, se è vero, com’è, che un’ampia discrezionalità circa l’esatta conformazione dell’istituto del giudicato è pacificamente riconosciuta financo al legislatore ordinario.
Quanto alle limitazioni sub ii), relative al giudicato non come istituto, ma come atto i cui specifici effetti devono essere espunti dall’ordinamento giuridico, la questione appare più delicata. Lo statuto costituzionale del giudicato impone al legislatore ordinario che il travolgimento intrinsecamente provvedimentale dei rapporti giuridici coperti dal giudicato debba trovare giustificazione nel perseguimento di ineludibili princìpi o valori di pregio costituzionale, nel rispetto del principio di proporzionalità tra il fine perseguito e i mezzi predisposti per la sua realizzazione.
L’esigenza che il superamento dell’irretrattabilità delle sentenze definitive non costituisca esercizio arbitrario del potere pubblico è ascrivibile all’essenza stessa di uno Stato costituzionale di diritto ed è dunque opponibile anche al diritto dell’Unione europea. Infatti, la possibilità di individuare caso per caso quali specifici rapporti devono ricevere un nuovo trattamento giuridico sfocerebbe nell’arbitrio se non fosse saldamente ancorata al perseguimento di princìpi o valori di pregio costituzionale, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Il fatto di non riferirsi alla generalità dei consociati e dei rapporti giuridici, ma a fattispecie ben identificate nella loro individualità, è infatti massimamente lesivo della certezza del diritto, perché astrattamente qualsiasi rapporto giuridico, in qualsiasi momento, potrebbe essere rimesso in discussione per il solo fatto che il giudice di Lussemburgo non ne condivida il trattamento giuridico offerto nel merito dal giudice nazionale. Ciò calpesterebbe le legittime aspettative di stabilità che le parti hanno riposto nella perdurante efficacia delle norme sulla formazione del giudicato. In definitiva, l’essenza stessa del loro diritto di difesa sarebbe violato, perché l’agire o il resistere in giudizio sarebbe reso sostanzialmente vano dalla possibilità che il risultato raggiunto nel processo sia nuovamente messo in discussione. Occorre allora valutare se la Corte di giustizia si sia mantenuta entro gli stretti limiti entro cui la Costituzione tollera l’incidenza diretta su specifici rapporti coperti dal giudicato.
La risposta, allo stato attuale, pare dover essere positiva, perché l’unica eccezione alla stabilità di un giudicato legittimamente formatosi è stata individuata nella grave violazione della ripartizione delle competenze tra Stati membri e Unione posta nei Trattati. Non vi è dubbio che, in un ordinamento che trova origine nell’accordo di un gruppo di Stati di creare un’entità giuridica sovranazionale cui demandare l’esercizio di alcune funzioni in cui tradizionalmente si esprime la loro sovranità, il rispetto del confine tracciato tra le competenze dei diversi livelli di governo è principio fondante.
L’esigenza che il riparto di competenze sia osservato è insita nell’idea stessa di un sistema giuridico complesso in cui il potere pubblico è ripartito tra istanze locali e un’istanza centrale. Essa, inoltre, trova saldi appigli nell’esperienza storica, oltre che nel nostro diritto costituzionale positivo. La funzione svolta dalla Corte di giustizia è in questi casi assimilabile a quella di un giudice dei conflitti intersoggettivi.
Poiché anche una sentenza definitiva può costituire oggetto di un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato o di competenza tra lo Stato e le Regioni innanzi la Corte costituzionale, la limitazione al giudicato nazionale derivante dalla necessità di porre rimedio a gravi violazioni della ripartizione delle competenze tra Stati membri e Unione pare perseguire un principio di pregio costituzionale. Essa, inoltre, rispetta il principio di proporzionalità perché non è imposta dalla Corte di giustizia se non nel caso in cui sia lo stesso giudice nazionale a indicare, in sede di rinvio pregiudiziale, di non avere altri strumenti a sua disposizione per ripristinare la corretta ripartizione delle competenze.
Un discorso a parte meritano le limitazioni al giudicato che la Corte di giustizia trae dalla necessità che sia pienamente assicurata l’operatività del meccanismo pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. Tali limitazioni vanno a incidere, come quelle analizzate sub i), sulla disciplina nazionale del giudicato complessivamente intesa e non sul giudicato come atto, perché si rivolgono a una serie indefinita di procedimenti giudiziari, accomunati soltanto dalla circostanza, peraltro meramente accidentale, che il dubbio sulla corretta interpretazione da dare a una (qualsiasi) norma UE sorga in un momento in cui tale interpretazione non potrebbe essere rimessa in discussione dal giudice nazionale per il vincolo che il diritto processuale interno gli impone al rispetto di quanto statuito da un giudice di grado superiore.
Diversamente dalle ipotesi esaminate sub i), queste limitazioni non sembrano poter essere accostate, dal punto di vista costituzionale interno, alla scelta in favore di una disciplina della formazione del giudicato più attenta alle esigenze della legalità rispetto a quelle della certezza, ma che si muove pur sempre all’interno di un ventaglio di soluzioni tutte astrattamente aperte alla legge ordinaria. La Corte di giustizia, infatti, non si limita a smussare quelle che potrebbero apparire delle eccentricità locali agli occhi di un giudice il cui sguardo si estende al funzionamento di una trentina di diritti processuali nazionali diversi. Il contrasto tra disciplina nazionale del giudicato e diritto UE è qui invece immediato e diretto e opera tra due norme funzionalmente equivalenti, l’art. 267 TFUE, da una parte, e la norma processuale nazionale che vincola il giudice alla statuizione del tribunale di grado superiore, dall’altra. In definitiva, si intende far prevalere il rapporto tra giudice nazionale e giudice sovranazionale a quello tra giudici nazionali di diverso grado.
Se allora, nei casi indicati sub i) e ii), il superamento dell’irretrattabilità del giudicato nazionale era funzionale a un più ampio dispiegarsi della legalità sovranazionale, l’ipotesi qui specificamente in esame pare porsi più sul piano istituzionale che su quello meramente normativo. Il giudicato entra in tensione non tanto con la legalità sovranazionale, che in ipotesi potrebbe addirittura non essere stata violata nel merito dal giudice di grado superiore, quanto con la piena operatività di uno strumento di raccordo istituzionale tra ordinamento interno e ordinamento sovranazionale. Di qui, la giustificabilità sul piano costituzionale della limitazione, in quanto già l’introduzione della giustizia costituzionale impose nel suo momento una ridefinizione dei rapporti tra giudici comuni e la Corte di recente istituzione. Nel nostro ordinamento, in particolare, ciò è avvenuto anche in relazione al problema del riconoscimento in capo a qualsiasi giudice della facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale, ancorché la norma indubbiata fosse stata già interpretata (e ritenuta esente da vizi di costituzionalità) da parte di un tribunale di grado superiore.
Occorre adesso valutare le limitazioni emerse nell’ambito del sistema di protezione dei diritti fondamentali facente capo alla CEDU. In assenza di effetto diretto, tali limitazioni costituiscono oggetto di un obbligo internazionale che penetra nel nostro ordinamento pel tramite della legge di ratifica ed esecuzione. La disciplina del loro regime giuridico all’interno dell’ordinamento statale, pertanto, è posta dal diritto nazionale. Ne deriva che il parametro rispetto al quale valutare la legittimità di tali limitazioni è più ampio di quello che opera nei confronti del diritto UE, perché, a differenza di quest’ultimo, si estende alla Costituzione nel suo complesso, e non soltanto ai cc.dd. controlimiti.
Ciò chiarito, si passa ad analizzare le due macro ipotesi in cui si possono dare limitazioni al giudicato nazionale da parte del diritto convenzionale. La prima attiene al possibile contrasto tra la configurazione che l’istituto assume nel diritto nazionale e il diritto di accesso al giudice ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU. La sua conformità al dettato costituzionale non desta particolari perplessità. Infatti, anche la disciplina sulla formazione e sugli effetti giudicato deve, al pari di qualsiasi altra norma dell’ordinamento, garantire un minimum di protezione al diritto di accesso al giudice e rispettare i princìpi di ragionevolezza e proporzionalità. I risultati cui la Corte di Strasburgo è giunta in materia di processo in contumacia possono accostarsi a quelle pronunce con cui la Corte costituzionale ha allargato le maglie della disciplina processuale delle impugnazioni, ritenendo che in eccezionali casi la formazione del giudicato si ponesse in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e uguaglianza e con il nucleo duro del diritto di difesa.
La seconda ipotesi di limitazione al giudicato proveniente dal sistema convenzionale attiene al procedimento di esecuzione delle sentenze di accertamento di violazione emesse dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia. In questi casi non è la configurazione astratta dell’istituto, ma la singola sentenza passata in giudicato a risultare incompatibile con la Convenzione, perché la sua perdurante efficacia impedisce la restitutio in integrum del diritto violato.
Il superamento dell’irretrattabilità del giudicato è dunque necessario per porre rimedio i) a una violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione europea, ii) ove tale violazione sia stata accertata dall’organo preposto a giudicare i ricorsi individuali promossi ai sensi dell’art. 34 CEDU. L’ipotesi qui in esame si caratterizza dunque per l’intreccio inscindibile tra profilo normativo e profilo istituzionale. Non tutte le volte che sia argomentabile, sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, la violazione del catalogo dei diritti convenzionali potrà essere invocata la “riapertura” o il “riesame” del giudicato, ma solo in quei casi in cui alla necessità di ripristinare la legalità convenzionale violata si accompagni l’esigenza di dare concreta esecuzione a una sentenza del giudice convenzionale resa nei confronti dell’Italia.
La prima domanda da porsi è dunque se la previsione a livello legislativo di ipotesi di superamento dell’irretrattabilità delle sentenze definitive sia compatibile con lo statuto costituzionale del giudicato quando sia stato accertato, da parte di un tribunale internazionale la cui giurisdizione è riconosciuta dallo Stato italiano, che tali sentenze sono state emesse in violazione di un diritto fondamentale di una delle parti. La risposta è in principio positiva, ma con alcune precisazioni.
Il limite che l’efficacia delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale trova nei rapporti esauriti deriva dalla peculiare natura dell’invalidità della norma dichiarata incostituzionale e non da un bilanciamento costituzionalmente necessario tra certezza e legalità costituzionale. Il legislatore gode infatti di un certo margine di discrezionalità in merito ai casi di cedevolezza del giudicato applicativo di norma incostituzionale. Similmente, deve ritenersi che rientri nel ventaglio di possibilità offerte al legislatore la scelta di prevedere ipotesi di superamento dell’irretrattabilità del giudicato per porre rimedio a gravi violazioni dei diritti fondamentali, i cui effetti lesivi non potrebbero altrimenti cessare. La tutela della persona e dei suoi diritti fondamentali nei confronti di un esercizio (convenzionalmente) illegittimo del potere pubblico costituisce infatti un valore di sicuro pregio costituzionale, che legittimamente il legislatore può perseguire introducendo nuove ipotesi di superamento del giudicato.
Non solo. Nei confronti del giudicato penale è la Costituzione stessa a imporre che il bilanciamento tra legalità costituzionale e certezza del diritto sia risolto in favore della prima. Ciò in quanto la tutela della libertà personale e lo statuto costituzionale della pena non tollerano che le conseguenze assai pregiudizievoli sulla vita del condannato possano continuare a prodursi una volta che sia stato accertato che la condanna fu pronunciata sulla base di norma poi dichiarata incostituzionale.
Ebbene: le medesime esigenze di tutela paiono sussistere con riferimento alla condanna pronunciata in violazione della legalità convenzionale. Tanto, con la duplice conseguenza che deve ritenersi costituzionalmente necessario i) prevedere ipotesi di cessazione degli effetti del giudicato penale di cui la Corte EDU abbia accertato il contrasto con la Convenzione e ii) estendere tale cessazione a tutti i soggetti che si trovino nella medesima situazione sostanziale del ricorrente vittorioso a Strasburgo.
Sebbene non si siano concretamente verificate fino ad oggi violazioni dello statuto costituzionale del giudicato, è necessario riflettere su alcuni punti di tensione che potrebbero facilmente accendersi con l’ulteriore evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte EDU. Questi profili problematici riguardano essenzialmente la tutela dei terzi nei giudizi civili e amministrativi e la protezione dell’imputato nei giudizi penali. I “terzi” sono coloro che, pur avendo preso parte al giudizio civile o amministrativo all’esito del quale è stata pronunciata la sentenza definitiva, non hanno partecipato al contraddittorio innanzi alla Corte di giustizia o alla Corte di Strasburgo. Essi sono terzi, pertanto, soltanto rispetto al procedimento in cui emerge l’obbligo sovranazionale o convenzionale di superare l’irretrattabilità della sentenza nazionale.
Il problema, per la verità, difficilmente potrebbe porsi nei confronti della Corte di giustizia. Di norma, il procedimento pregiudiziale è incardinato nel corso di un giudizio in cui la perdurante efficacia di un precedente giudicato è oggetto di controversia tra le parti. In principio, pertanto, ai sensi del diritto interno i partecipanti al primo processo sono contraddittori necessari del secondo. Di conseguenza, ricevono la comunicazione di cancelleria circa il deposito dell’ordinanza di rinvio e posso costituirsi nel giudizio innanzi la Corte di giustizia. Quando invece l’identità di parti non si verifica, perché, ad esempio, il rinvio pregiudiziale trova origine in un procedimento per il risarcimento del danno che vede contrapposti il privato leso da una violazione del diritto UE e lo Stato inadempiente, la Corte di giustizia non richiede la cessazione degli effetti del giudicato, che continuerà ad avere forza di legge tra le parti, ma soltanto il pagamento da parte dello Stato – appunto – del risarcimento del danno.
Ben più problematiche sotto questo profilo sono le pronunce della Corte EDU, sia per il meccanismo processuale di accesso alla Corte, sia per la struttura del giudizio convenzionale. Il ricorso individuale, infatti, è proposto nei confronti dello Stato e ha ad oggetto l’accertamento della violazione da parte di quest’ultimo dei diritti fondamentali del ricorrente. Nessun obbligo di notificazione è posto in favore delle altre parti del processo nazionale che pure potrebbero subire le conseguenze di una restitutio in integrum che ne imponesse la “riapertura” o il “riesame”. Il loro intervento è infatti rimesso, ai sensi dell’art. 36, par. 2, CEDU, alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale “può invitare […] ogni persona interessata diversa dal ricorrente, a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze”.
Così stando le cose, deve ritenersi che la tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. impedisca che il superamento dell’irretrattabilità del giudicato sia opponibile a coloro che non hanno potuto contraddire nel giudizio innanzi la Corte di Strasburgo. Né varrebbe sostenere che tale contraddittorio potrebbe essere “recuperato” nella nuova fase nazionale del procedimento giurisdizionale, in sede di revocazione o revisione della sentenza (ormai non più) definitiva. Il problema, infatti, è dato dalla possibilità stessa della “riapertura” o del “riesame”, possibilità che prende forma all’interno del giudizio convenzionale. A ciò si aggiunga che, anche dal punto di vista del merito della controversia, i margini di scostamento dalla soluzione elaborata a Strasburgo sarebbero per il giudice della revocazione o revisione estremamente ristretti, se non del tutto inesistenti. La partecipazione della controparte soltanto in una fase processuale che si limita a recepire puntuali indicazioni aliunde formatisi sarebbe pertanto poco più che decorativa e certamente insufficiente a ritenere tutelato il diritto di difesa.
Anche la Corte costituzionale ha recentemente osservato che l’introduzione di una nuova ipotesi di revocazione delle sentenze civili e amministrative quale strumento di esecuzione delle sentenze della Corte EDU potrebbe realizzarsi soltanto attraverso “una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi”. In un ideale dialogo con i giudici di Strasburgo, la Consulta ha suggerito che “l’invito della Corte EDU potrebbe essere più facilmente recepito in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale” e che “una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte EDU renderebbe più agevole l’opera del legislatore nazionale”.
Il secondo nodo problematico è quello relativo alla tutela dell’imputato. Il problema del superamento del giudicato penale non si è ancora mai posto in relazione al diritto dell’Unione europea. Tuttavia non sembra potersi escludere che la Corte di giustizia venga chiamata a occuparsi anche di norme processuali nazionali sulla formazione del giudicato penale. La materia penale, infatti, è stata recentemente al centro del citato caso Taricco, relativo alla compatibilità con il diritto dell’Unione del regime italiano della prescrizione. Ivi la Corte ha applicato i princìpi di equivalenza ed effettività in chiave repressiva, nel senso cioè di chiedere al giudice nazionale di verificare se la disciplina italiana i) provocasse “in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva” o ii) attribuisse alla frode in materia di IVA un trattamento penale non equivalente, perché meno repressivo, di quello previsto per i “casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana”. La medesima ratio decidendi potrebbe dunque essere utilizzata, mutatis mutandis, nei confronti della disciplina italiana sulla formazione del giudicato.
Dal punto di vista del diritto convenzionale, invece, la necessità di “riaprire” o “riesaminare” le sentenze definitive si è posta anzitutto proprio nei confronti dei procedimenti penali. Ciò è avvenuto per consentire all’imputato, ricorrente vittorioso a Strasburgo, di veder cessare le conseguenze pregiudizievoli di condanne pronunciate in violazione dei suoi diritti fondamentali. Tuttavia, a fronte dell’emergere nella giurisprudenza della Corte EDU di obblighi positivi di tutela penale dei diritti sanciti dalla Convenzione e della progressiva diffusione del riconoscimento alle vittime (persone offese dal reato o costituitesi parti civili nei procedimenti penali) del diritto di ottenere nell’ordinamento interno una punizione dei colpevoli “proporzionata” all’offesa subita, non può escludersi che la Corte di Strasburgo arrivi a individuare la riapertura delle indagini e dei processi passati in giudicato quale modalità di esecuzione delle sentenze di condanna per difetto di tutela penale delle vittime.
Deve ritenersi che il superamento della stabilità del giudicato penale a detrimento della posizione dell’imputato costituisca un risultato costituzionalmente precluso dal divieto di bis in idem. Nel caso del diritto convenzionale, inoltre, violato sarebbe altresì il diritto di difesa e il principio del giusto processo, giacché le sorti del processo penale subito dall’imputato sarebbero decise nell’ambito di un giudizio, quello innanzi alla Corte EDU, al quale egli non ha potuto neanche prendere parte.
In definitiva, la tutela dei terzi nei procedimenti civili e amministrativi e la protezione dell’imputato nei procedimenti penali segnano i confini che la Costituzione impone alle nuove limitazioni al giudicato nazionale emerse nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione europea e del sistema convenzionale.
Sotto diverso profilo, deve ritenersi che le tensioni sul giudicato interno esaminate nel secondo e terzo capitolo vadano ricostruite come fenomeno tipico dell’introduzione di nuovi sistemi normativo-istituzionali, in assenza di adeguati meccanismi di pacificazione e razionalizzazione dei loro rapporti con il sistema giuridico sul quale vanno a innestarsi. In questo senso, si è cercato di dimostrare come le dinamiche osservate all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione siano in larga parte assimilabili a quelle cui si assiste oggi per effetto dell’evoluzione del diritto dell’Unione europea e della CEDU.
Non può però sottacersi che, accanto al problema tecnico-giuridico di far convivere la stabilità degli accertamenti giurisdizionali con le esigenze della legalità di recente introduzione e con l’esercizio delle funzioni degli organi istituiti per l’interpretazione e applicazione del nuovo diritto oggettivo, emerge altresì, nella spinta verso il superamento dell’irretrattabilità del giudicato, il perseguimento dei fini latamente politici che ciascuno di questi sistemi normativo-istituzionali si propone. La definitività del giudicato costituisce infatti un limite all’esercizio del potere pubblico e può come tale essere percepito, dal detentore di quest’ultimo, come un ostacolo da abbattere.
Il superamento del giudicato nazionale consente alla Corte di giustizia di perseguire l’uniformità e l’effettività dell’applicazione del diritto dell’Unione. Nel sistema convenzionale, tale superamento è strumentale a una più ampia protezione dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU e a una maggiore incisività negli ordinamenti interni del meccanismo di ricorso individuale.
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