Tesi etd-10012012-210500 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
BEVILACQUA, IRENE
URN
etd-10012012-210500
Titolo
I papi e le acque. Politiche del territorio nelle paludi pontine (XVI-XVIII)
Settore scientifico disciplinare
M-STO/02
Corso di studi
STORIA
Relatori
tutor Prof. Pult, Anna Maria
Parole chiave
- acqua
- bonifica
- drenaggio
- lazio meridionale
- paludi pontine
- papi
- pesca
- territorio
Data inizio appello
16/11/2012
Consultabilità
Completa
Riassunto
La tesi di dottorato, sul tema “I papi e le acque. Politiche del territorio nelle paludi pontine (XVI-XVIII secolo)”, si articola in un’introduzione e cinque capitoli. Il lavoro cerca di integrare proficuamente i risultati delle indagini archivistiche con la bibliografia esistente, nel tentativo di apportare un contributo innovativo e di rivedere le interpretazione tradizionali. Senza trascurare l’apporto che la cartografia può dare, contributo fondamentale allo studio di questo argomento.
La ricerca parte dalla volontà di ricostruire i tentativi di bonifica delle paludi pontine nel lungo periodo, tra fine Cinquecento e primi del Settecento. Tuttavia, dallo studio della storiografia più recente (anche straniera) e dall’analisi della documentazione archivistica, è emerso sempre più chiaramente come lo studio non potesse limitarsi a ripercorrere le varie, e sfortunate, imprese di alcuni bonificatori ma che dovesse concentrarsi sullo studio del territorio e, soprattutto, sul rapporto del potere centrale con quel territorio periferico, indagando il sistema di relazioni che legavano i suoi abitanti, i conflitti tra comunità, feudatari, proprietari e potere pontificio. Nel capitolo introduttivo, ripercorrendo le posizioni della storiografia in materia, si affronta in particolare il problema della vulgata della bonifica: il peso, cioè, che alcune analisi di parte hanno poi avuto sulle successive ricostruzioni storiche (si pensi alla storiografia fascista che ha tramandato la storia delle paludi come un’epifania di tentativi, in cui gli unici ad avere successo sono i grandi “cesari”: Giulio Cesare, Sisto V e Napoleone, proprio come Mussolini). Da cui nasce – da sollecitazioni molteplici - la volontà di indagare invece anche gli insuccessi, i tentativi falliti. Infine, ho scelto di confrontare il caso laziale con esempi analoghi in Inghilterra e Francia.
Nel I capitolo si ripercorrono quindi le principali vicende che caratterizzarono la storia politica delle comunità pontine, cercando di evidenziare i tratti distintivi delle istituzioni amministrative, con particolare riguardo alle magistrature sulle acque.
Ho poi analizzato l’apparato amministrativo centrale, concentrandomi sulle congregazioni deputate alla gestione delle paludi, su chi ne facesse parte, che formazione avesse e quale ruolo ricoprisse nell’apparato burocratico pontificio. Inoltre ho cercato di sottolineare la costante collaborazione tra i funzionari ecclesiastici e i “tecnici” competenti: architetti, periti e ingegneri metteranno costantemente al servizio delle autorità i propri saperi (II capitolo).
Negli ultimi tre capitoli, ho cercato di ricostruire con documenti archivistici inediti e una puntigliosa analisi della cartografia, i molteplici tentativi di drenaggio della piana pontina tra Cinquecento e Settecento. Nel corso di questi due secoli, i pontefici romani furono impegnati in un vasto tentativo di bonifica delle terre intorno alla città di Roma, in particolare delle paludi pontine, e di valorizzazione delle risorse idriche presenti nella campagna circostante (capitoli III, IV,V).
Infine, nelle conclusioni traccio un bilancio dell’intera ricerca. È chiaro, al termine di questa indagine, come comportamenti e strategie delle comunità non siano riducibili a logiche di ordine economico. La loro “dimensione economica” aveva un’accezione ben più ampia rispetto alla nostra, che includeva componenti di diverso genere. Si trattava, per le comunità, di difendere quello spazio territoriale nel quale potevano determinare in maniera autonoma le proprie attività produttive e, in ultima analisi, le proprie esistenze. Nel volere mantenere le condizioni naturali di impaludamento non va riconosciuta una vocazione ecologica ante litteram quanto piuttosto la volontà di non modificare, non «innovare cosa alcuna» sul proprio territorio. Anche gli interventi del potere statale si profilavano come elementi perturbatori, che avrebbero azzerato le economie locali, dipendenti dalle risorse umide. Nonostante i modi di considerare la palude appaiano antitetici, entrambi i punti di vista – centrale e locale - non rivelano preoccupazioni di ordine “ecologico”, quanto piuttosto una lotta per l’appropriazione o il mantenimento di risorse e territori. Allorché i bonificatori delle paludi pontine, e le istituzioni pontificie, hanno continuato a mantenere attive le peschiere, incompatibili con la bonifica, ma fonte sicura e costante di ottimi rendimenti, emerge chiaramente il ruolo di una razionalità economica che non possiamo valutare con i parametri della nostra. Essa è stata definita «economia morale», per designare un atteggiamento produttivo dei ceti popolari che resisteva alla razionalità capitalistica delle origini. Una indicazione fertile per una migliore comprensione del nostro passato. Nel nostro caso si potrebbe parlare di una “razionalità economica opportunistica” nel rapporto tra le popolazioni e l’habitat naturale. A quel livello di fragile dominio tecnico dell’uomo sulla natura, quel tipo di economia non costituiva un fallimento, al contrario rappresentava la pratica di una sapienza economica, in grado di produrre beni, far crescere la popolazione locale, alimentare le finanze pontificie anche quando i progetti di una superiore valorizzazione produttiva non avevano successo.
La ricerca parte dalla volontà di ricostruire i tentativi di bonifica delle paludi pontine nel lungo periodo, tra fine Cinquecento e primi del Settecento. Tuttavia, dallo studio della storiografia più recente (anche straniera) e dall’analisi della documentazione archivistica, è emerso sempre più chiaramente come lo studio non potesse limitarsi a ripercorrere le varie, e sfortunate, imprese di alcuni bonificatori ma che dovesse concentrarsi sullo studio del territorio e, soprattutto, sul rapporto del potere centrale con quel territorio periferico, indagando il sistema di relazioni che legavano i suoi abitanti, i conflitti tra comunità, feudatari, proprietari e potere pontificio. Nel capitolo introduttivo, ripercorrendo le posizioni della storiografia in materia, si affronta in particolare il problema della vulgata della bonifica: il peso, cioè, che alcune analisi di parte hanno poi avuto sulle successive ricostruzioni storiche (si pensi alla storiografia fascista che ha tramandato la storia delle paludi come un’epifania di tentativi, in cui gli unici ad avere successo sono i grandi “cesari”: Giulio Cesare, Sisto V e Napoleone, proprio come Mussolini). Da cui nasce – da sollecitazioni molteplici - la volontà di indagare invece anche gli insuccessi, i tentativi falliti. Infine, ho scelto di confrontare il caso laziale con esempi analoghi in Inghilterra e Francia.
Nel I capitolo si ripercorrono quindi le principali vicende che caratterizzarono la storia politica delle comunità pontine, cercando di evidenziare i tratti distintivi delle istituzioni amministrative, con particolare riguardo alle magistrature sulle acque.
Ho poi analizzato l’apparato amministrativo centrale, concentrandomi sulle congregazioni deputate alla gestione delle paludi, su chi ne facesse parte, che formazione avesse e quale ruolo ricoprisse nell’apparato burocratico pontificio. Inoltre ho cercato di sottolineare la costante collaborazione tra i funzionari ecclesiastici e i “tecnici” competenti: architetti, periti e ingegneri metteranno costantemente al servizio delle autorità i propri saperi (II capitolo).
Negli ultimi tre capitoli, ho cercato di ricostruire con documenti archivistici inediti e una puntigliosa analisi della cartografia, i molteplici tentativi di drenaggio della piana pontina tra Cinquecento e Settecento. Nel corso di questi due secoli, i pontefici romani furono impegnati in un vasto tentativo di bonifica delle terre intorno alla città di Roma, in particolare delle paludi pontine, e di valorizzazione delle risorse idriche presenti nella campagna circostante (capitoli III, IV,V).
Infine, nelle conclusioni traccio un bilancio dell’intera ricerca. È chiaro, al termine di questa indagine, come comportamenti e strategie delle comunità non siano riducibili a logiche di ordine economico. La loro “dimensione economica” aveva un’accezione ben più ampia rispetto alla nostra, che includeva componenti di diverso genere. Si trattava, per le comunità, di difendere quello spazio territoriale nel quale potevano determinare in maniera autonoma le proprie attività produttive e, in ultima analisi, le proprie esistenze. Nel volere mantenere le condizioni naturali di impaludamento non va riconosciuta una vocazione ecologica ante litteram quanto piuttosto la volontà di non modificare, non «innovare cosa alcuna» sul proprio territorio. Anche gli interventi del potere statale si profilavano come elementi perturbatori, che avrebbero azzerato le economie locali, dipendenti dalle risorse umide. Nonostante i modi di considerare la palude appaiano antitetici, entrambi i punti di vista – centrale e locale - non rivelano preoccupazioni di ordine “ecologico”, quanto piuttosto una lotta per l’appropriazione o il mantenimento di risorse e territori. Allorché i bonificatori delle paludi pontine, e le istituzioni pontificie, hanno continuato a mantenere attive le peschiere, incompatibili con la bonifica, ma fonte sicura e costante di ottimi rendimenti, emerge chiaramente il ruolo di una razionalità economica che non possiamo valutare con i parametri della nostra. Essa è stata definita «economia morale», per designare un atteggiamento produttivo dei ceti popolari che resisteva alla razionalità capitalistica delle origini. Una indicazione fertile per una migliore comprensione del nostro passato. Nel nostro caso si potrebbe parlare di una “razionalità economica opportunistica” nel rapporto tra le popolazioni e l’habitat naturale. A quel livello di fragile dominio tecnico dell’uomo sulla natura, quel tipo di economia non costituiva un fallimento, al contrario rappresentava la pratica di una sapienza economica, in grado di produrre beni, far crescere la popolazione locale, alimentare le finanze pontificie anche quando i progetti di una superiore valorizzazione produttiva non avevano successo.
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