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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-09292009-232709


Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
BONGO, TIZIANA
URN
etd-09292009-232709
Titolo
Sport professionistico e diritto dell'economia
Settore scientifico disciplinare
IUS/05
Corso di studi
DIRITTO PUBBLICO DELL'ECONOMIA, FINANZA E PROCESSO TRIBUTARIO
Relatori
tutor Prof.ssa Bani, Elisabetta
Parole chiave
  • ordinamenti
  • diritto dell'economia
Data inizio appello
30/10/2009
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
30/10/2049
Riassunto
La bisecolare parola inglese sport ha indicato dapprima il passatempo o il divertimento all’aperto, poi l’attività fisica mirante all’efficienza corporale, infine ciascuna delle discipline atletiche o di abilità fisica svolte dagli sportsmen, cioè dalle persone che praticano gli esercizi sportivi sia con intenti meramente ludici sia con finalità agonistiche.
Nel secolo scorso è transitata direttamente nel nostro lessico quotidiano, che l’ha fatta propria, col significato di attività che impegna le attività fisiche e talvolta psicofisiche con fini in origine ricreativi e salutistici, più tardi anche come esercizio professionale remunerato. Da una fatica e da un’applicazione fisica eseguita senza necessità e senza guadagno (a differenza del lavoro), si è giunti quindi alla pratica di un mestiere, passando così da uno sport dilettantistico (vale a dire praticato per diletto, traendo soddisfazione da un’attività marginale rispetto all’occupazione principale e sprovvista di lucro) ad uno sport professionistico, quello praticato con continuità come attività esclusiva remunerata secondo impegni contrattuali non occasionali.
Tutte le attività sportive, comprese quelle amatoriali, hanno una ricaduta economica, ad esempio per gli effetti indotti dalla partecipazione a manifestazioni sportive open (aperte alla partecipazione di professionisti e di dilettanti, quali le più importanti maratone di corsa, o di sci come la Marcialonga o i raduni motociclistici) ovvero perché provocano l’accrescimento di una domanda voluttuaria di attrezzature e di abbigliamento specifico, adoperati solo per la pratica avanzata di un determinata disciplina sportiva (gli scarponi da sci, la tavola da surf, ecc.).
E’ tuttavia con la dilagante estensione della pratica professionale dei vari sport che la valenza economica di questo settore rilevantissimo del c.d. terziario ludico è straordinariamente aumentata per diversi motivi, che passeremo in rassegna di seguito in modo esemplificativo e non esaustivo.
Con la diffusione della radio, della televisione (1954), della televisione a colori (1977), lo sport è diventato sempre più spettacolo, seguendo le logiche di quest’ultimo: si giunge a spostare un evento sportivo di giorno o di ora per coincidere con gli orari di maggior audience, al di là del fatto che sia trasmesso in chiaro o su canali a pagamento. Questo inesorabile slittamento dallo sport puro allo sport-spettacolo, conseguente al dilatarsi del professionismo sportivo (alcune attività oggettivamente di destrezza corporale sono da tempo considerate soltanto mero spettacolo, estraneo allo sport: si pensi all’ ippica - galoppo e quasi per intero il trotto -, all’acrobatismo circense o al wrestling) è frenato non solo dalla cospicua presenza del grande e crescente numero dei praticanti amatoriali organizzati ma soprattutto dall’esistenza degli ordinamenti sportivi, che disciplinano minuziosamente la pratica dei vari sport, non permettendo devianze opportunistiche per fini di spettacolo.
Pur se ogni regolazione dell’esercizio di un’attività sportiva trova il suo primo fondamento nell’ordinamento sportivo internazionale, è dalla legislazione fascista del 1942 (L. n. 426, ora abrogata) che le funzioni organizzative e normative di qualunque attività sportiva tradizionale sono state demandate dallo Stato al CONI, nato nel 1914 con la veste di associazione privata, poi deputato dal regime al controllo ed al coordinamento dell’intero sistema sportivo nazionale ed ora (L. 242/99) dotato di personalità giuridica pubblica ed agente mediante le varie federazioni sportive - una sola per ogni sport – spesso ad esso preesistenti come associazioni private, che operano quali organi impropri di detto Comitato Olimpico Nazionale Italiano.
Restarono riservate allo Stato (Presidenza del Consiglio) funzioni di vigilanza, indirizzo e programmazione, oltre alle competenze in materia di impiantistica sportiva (L. 203/95) spartite con le Regioni, le quali con la riforma del Titolo V della Costituzione hanno acquisito la potestà legislativa concorrente in tema di “ordinamento dello sport” (rectius: organizzazione), che ha visto così rafforzata la sua struttura piramidale (associazioni -federazioni – CONI).
Ogni fenomeno sportivo appare quindi regolato da un ordinamento sportivo peculiare, consistente in un insieme di regole prefissate ed accettate, che un’organizzazione privata ma dotata di autorità fa rispettare, espungendo chi non le osservi al fine di convalidare la comparabilità dei risultati e le graduatorie (“classifiche”) che ne conseguono.
Appare oggi pacifico che questi autonomi ordinamenti (abbandonata la tesi dell’adesione contrattuale dei praticanti di quella certa disciplina), paralleli a quello statale, ciascuno costituito da un numero plurimo di soggetti (atleti, allenatori, arbitri, associazioni, clubs, ecc.), da un’organizzazione permanente tra i medesimi ed i mezzi occorrenti e infine da un’assetto giuridico minuto e complesso, nel quale si distinguono norme statali (e adesso anche regionali) e norme tecniche autoprodotte da tale struttura per disciplinare lo svolgimento delle gare e i loro punteggi, - prescrizioni che sovente si combinano e talvolta conflittano tra di loro in un rapporto dinamico - configurino un vero e proprio sistema normativo, ancorché prevalentemente tecnico (ma vi sono anche prescrizioni applicative del “principio di lealtà”), raccordato con la legislazione statale per comunanza di fini con interessi, generali e specifici, dello Stato e nel silenzio (originario) della previsione costituzionale.
Quanto all’ organizzazione, l’ente pubblico CONI, atipico in quanto indipendente e federativo, si avvale adesso (L. 178/2002) di una società “legale”, la CONI Servizi S.p.a. , cui delega attività economiche e tecnico-economiche per mezzo di una privatizzazione formale del tutto apparente.
Del resto, la natura privatistica delle federazioni delle associazioni è al presente espressamente sancita dalla citata “legge Melandri”del 1999 (art. 15, 2° c. e art. 18) - pur se nello svolgimento di funzioni attinenti al perseguimento dell’interesse pubblico una loro qualificazione pubblica in senso funzionale, quali enti atipici di tipo associativo, permanga anche per pregresso riconoscimento giurisprudenziale e dottrinale– nella forma dell’associazione riconosciuta ex art. 12 c.c., mentre prima venivano prevalentemente annoverate tra le associazioni non riconosciute.
Le funzioni pubbliche delle federazioni sportive sono assegnate dalla L. 91/81, che tratteremo più avanti, in ordine al potere di affiliazione delle società sportive e di controllo sulle medesime (anche quando svolgono attività imprenditoriale): ciò per delega del CONI e col consenso dello Stato. Esse si configurano come “enti”esponenziali di un ordinamento giuridico non generale, ma di settore, riconosciuto dal diritto dello Stato ma non da esso costituito con legge, la qual cosa consente di escluderlo dal novero degli ordinamenti sezionali di categorie di imprese (creditizie, assicurative, ecc.)
Accanto alle associazioni sportive dilettantistiche a nascita spontanea, che hanno tardivamente trovato una disciplina unitaria con l’art. 90, 17° c. della L. 27 dicembre 2002 n. 289 ( Finanziaria 2003), che distingue le associazioni con o senza personalità giuridica dalle società sportive di capitali o cooperative, tutte prive di finalità di lucro e di ripartizione dei proventi, il crescente peso economico delle attività sportive aveva da tempo imposto il riconoscimento da parte dell’ordinamento della figura della “società sportiva professionistica”, introdotta con L. 23 marzo 1981 n. 91, ampiamente modificata con la L. 586/96.
Queste compagini societarie vengono costituite in forma di s.p.a. o di s.r.l. e possono stipulare contratti non solo con atleti professionisti, ma anche con altre persone fisiche, quali ad esempio allenatori, direttori tecnici e preparatori atletici, i quali tutti esercitano la loro attività prevalente od esclusiva a titolo oneroso e con carattere di continuità nell’ambito di discipline regolamentate dal CONI e dalle federazioni sportive nazionali, in modo distinto dalla pratica per svago dall’attività dilettantistica. (art. 2 e art. 10, 1° c).
All’epoca, a queste “società di diritto speciale” era imposto di reinvestire tutti gli utili nella società stessa per il perseguimento esclusivo della finalità sportiva, con divieto di distribuire alcunché ai soci. Con la citata legge del 1996 è stato poi ammesso che anche le società sportive professionistiche possano perseguire fini di lucro, sia pure con alcuni specifici vincoli (destinazione del 10 per cento degli utili alle scuole giovanili di addestramento; oggetto sociale ristretto allo svolgimento di attività sportive e di attività ad esse connesse o strumentali; procedure complesse di costituzione, di affiliazione federale, di iscrizione al registro delle imprese, di riconoscimento-omologazione da parte del CONI) e che possano finanziarsi anche mediante la quotazione in borsa, seguendo i precetti del TUF e di norme interne federali.
In generale, la particolarità della società sportiva nell’economia sta nel fatto che non ha e non può avere fini monopolistici o oligopolistici, poiché non può auspicare la fuoruscita dal mercato di tutti i suoi rivali né ripromettersi l’eccessivo indebolimento dei medesimi, dal momento che ciò altererebbe il necessario equilibrio agonistico e l’attesa di risultati incerti, che rendano interessante la competizione e lo spettacolo che essa offre agli appassionati.
Le società sportive professionistiche “inquadrano” gli atleti, con i quali hanno stipulato un contratto di prestazioni personali (art. 35 DPR 157/86), ritenuto di lavoro subordinato, sia pure con particolari caratteristiche. E’ opportuno segnalare però che sono sempre più frequenti i casi di esercizio del mestiere sportivo non riferibili ad un rapporto di lavoro dipendente da una società, ma piuttosto di prestazione di servizi per mezzo di collaborazioni libero-professionali, nelle quali l’atleta gestisce in proprio o mediante un procuratore le proprie prestazioni agonistiche. Tra gli sport non olimpici è il caso dei corridori automobilistici e motociclistici; tra quelli federati l’ipotesi riguarda tra l’altro i tennisti e gli sciatori alpini, per i quali il legame con clubs , associazioni o società è praticamente del tutto formale, contando invece l’ingaggio personale diretto da parte dell’organizzatori delle competizioni (tornei, trofei, ecc.).
Si stanno verificando anche casi di conflitto di interessi imprenditoriali, nascente dalla proprietà - da parte di un unico soggetto giuridico – di quote di controllo di più società sportive anche di paesi diversi, che magari solo potenzialmente possano trovarsi in competizione tra di loro, inficiando la credibilità del risultato Lo sport come spettacolo e come occasione di affari segue più le regole del profitto e del mercato e assai meno quelle giuridiche, dalla quali non può però prescindere.
Per cominciare, la costruzione degli impianti sportivi necessita dell’impiego di enormi risorse, per lo più pubbliche, anche se nel futuro l’impiantistica per assistere alla manifestazione sportiva dovrà sempre più coinvolgere economicamente le stesse società sportive: all’estero sono numerosi gli stadi di proprietà di un club (magari in leasing immobiliare, a seguito di project financing). Nel settore degli appalti per costruzioni inerenti allo sport, considerevole è stato ed è il bisogno di credito: al proposito va ricordato l’Istituto per il Credito Sportivo (1957), ente pubblico preposto alla concessione di mutui fondiari ai Comuni o a privati per la costruzione, manutenzione,ecc. di edifici e siti attrezzati per lo sport . Col D.M. Beni Cult. 4 agosto 2005, il nuovo statuto dell’ente lo delinea come un vero e proprio istituto bancario di credito speciale (art. 151 TUB), sopravvissuto alla despecializzazione creditizia degli anni ’90 per operare ”prevalentemente” nel settore dello sport (anche professionistico), esercitando il credito sotto qualsiasi forma.
Tra le varie manifestazioni dello sport come business, la più imponente è data oggi dagli alti emolumenti (riesce difficile definirli salari o compensi) degli atleti professionisti in posizione apicale nella scala dei valori agonistici, ma anche degli altri soggetti che gravitano intorno all’esercizio professionale dello sport. Come si è già detto, vi sono particolarità in questo tipo di lavoro, nella sua retribuzione e nel suo svolgimento, che esulano dai confini della presente trattazione.
Rilevante è anche l’impatto economico della pubblicità occasionata dallo sport, veicolata dagli atleti, per conto delle società, mediante diverse scritte, slogans e loghi ovvero ospitata negli impianti e nelle locations dove avviene l’ evento sportivo, per la quale – nonostante l’ imponenza del fenomeno pecuniario - non constano regole e limitazioni giuridiche specifiche, se si eccettuano le restrizioni sulla pubblicità TV delle manifestazioni sportive introdotte dalla L.326/91 (quali la riconoscibilità del messaggio e il divieto di interruzione della ripresa dell’ evento). Un considerevole raccordo tra sport e pubblicità è dato anche dal personale coinvolgimento di molti noti atleti quali testimonials di prodotti assolutamente estranei all’ accadimento sportivo. La mancata attenzione a questo colossale giro d’affari ha fatto sì che in alcuni sport si ravvisino forme pattizie di pubblicità occulta, che sfugge alla pur lieve tassazione sulla pubblicità: ad esempio nel basket i media usano indicare artatamente le squadre solo col nome dello sponsor (la Montepaschi, la Benetton, ecc.) e non con quello della città in cui ha sede l’associazione sponsorizzata.
Connessa al fenomeno pubblicitario è infatti l’estesissima sponsorizzazione sportiva (che ricomprende talvolta anche lo sport dilettantistico, sotto forma di premi, rimborsi, compensi per mancato guadagno, ecc.) delle squadre, la quale assume aspetti parossistici nella pratica di certi sport di alta attrazione popolare, dove .gli sponsors sono plurimi. Vi sono molti casi di unicità dello sponsorizzatore, specie del singolo atleta: ma quest’ultima è piuttosto, come si è già detto, una forma di pubblicità testimoniale. Il ritorno economico di questo investimento massiccio mirato sullo sport consiste nella maggior conoscibilità del prodotto riferibile al finanziatore, che determina un incremento della domanda.
Un aspetto economico significativo è dato pure dal turismo sportivo, cioè dallo spostamento di masse di spettatori (qualche volta anche di atleti) sul luogo dell’evento competitivo, quando coinvolga la ricezione delle persone (alloggio,vitto, servizi igienici, ecc.) specie in occasione di eventi prolungati (dalle Olimpiadi al Giro d’Italia, ai vari campionati europei e mondiali o assimilati, come la Coppa Davis o l’ America’s Cup,). In tal caso si predispongono, accanto alla nuova impiantistica sportiva, anche infrastrutture strumentali (hotel, stazioni,ecc.) con impiego di grandi risorse finanziarie straordinarie (Italia ’90, Olimpiadi di Torino, ecc.). Non risultano regole speciali sul turismo di matrice sportiva, se non norme di pubblica sicurezza concernenti i trasporti e le trasferte brevi dei supporters, le quali peraltro non hanno grande spessore economico anche se collegate al fenomeno del merchandising, economicamente assai significativo, dato dai gadgets (sciarpe, bandiere, distintivi, ecc.), lucrosamente gestito, sovente appunto in forma indiretta, dalle stesse società, previo deposito e tutela del proprio marchio.
Non va neanche sottaciuta, quanto all’impatto economico, la lunga esperienza (1948) della gestione delle scommesse sportive, occasionate dalle gare cui si riferiscono. Prescindendo dall’esistenza di copiose scommesse clandestine o gestite in sede extranazionale, nell’ ambito del monopolio statale finora detenuto dalla soppressa AAMS, si rammentano le elevatissime risorse movimentate dal Totocalcio per il CONI e dal Totip per l’UNIRE, come occasioni di business (magari virtuoso: la destinazione di parte dei proventi agli sport minori od ai “vivai”) per il gestore pubblico o per il concessionario (SISAL, SNAI, ecc.)
L’ irregolare gestione finanziaria di una compagine sportiva può attentare anche all’equità nello svolgimento delle gare ogni qualvolta la bad company venga favorita per rimediare ai suoi squilibri di bilancio, rispetto ad altri soggetti comunitari correttamente gestiti, distorcendo la competitività in modo anticoncorrenziale. E’ il noto caso degli aiuti di Stato anche allo sport professionistico opulento, sempre posti in discussione dall’UE. Si rammenta in questa sede (ambedue gli esempi non sostanziano erogazioni e sono riferiti al solo calcio), per primo il c.d. decreto “spalmaperdite”(D.L . 20 settembre 1996 n. 845, convertito in L. 18 novembre 1996 n. 586), con il quale – per mitigare gli effetti della notissima sentenza europea del 15 dicembre 1995 sul caso Bosman, che aveva dichiarato illegittima la cosiddetta indennità di addestramento e di formazione tenica, pretesa dalla società cedente in caso di trasferimento – si aggiunsero tre commi all’art. 16 della L. 91/81, consentendo alle s.p.a. sportive la finalità lucrativa soggettiva mediante la distribuzione degli utili ai soci, di conseguenza eliminando la previsione del totale reinvestimento obbligatorio dell’utile, ma soprattutto consentendo di eliminare dall’attivo patrimoniale i crediti maturati in aspettativa della suddetta indennità e improvvisamente spariti, iscrivendo in bilancio un costo pluriennale corrispondente, da ammortizzare in tre anni, anziché istantaneamente e con effetti devastanti per la sopravvivenza stessa di moltissimi clubs professionistici.
Il secondo dei casi più eclatanti è dato dal c.d. decreto “salvacalcio”(D.L. 24 dicembre 2002 n. 282, convertito in L. 21 febbraio 2003 n. 27), che –aggiungendo un art. 18 bis alla legge dell’81 - ha introdotto norme eccezionali, perché deroganti in maniera selettiva a principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, per il fatto di consentire solo alle società calcistiche professionistiche di distribuire appunto, in quote uguali su ben dieci esercizi consecutivi (anziché su quello di effettiva competenza), i debiti derivanti dai diritti stabiliti nei contratti con i giocatori, ancorchè aventi durata usualmente inferiore (due o tre anni). La manifesta violazione di direttive comunitarie sui conti societari annuali e sui rendiconti finanziari e sulla concorrenza intracomunitaria tra clubs ha generato un lungo contenzioso, risolto dapprima ( 26 maggio 2005) con un “accordo” dilatorio fino al 2008 e infine con l’ abrogazione della norma interna derogatoria con L. n.62/2005. E’ da dire che la configurazione come aiuto di Stato di questo favor, sotto la specie dell’agevolazione fiscale si era rivelata più labile, essendo tale facilitazione eventuale ed esigua, quasi un’alterazione temporale dell’onere fiscale, che poteva comunque essere vista come un privilegio (art. 86 Trattato).
La peculiarità della speculazione nel settore sportivo balza evidente agli occhi nel caso in cui si ammetta che a controllare una società sportiva sia un’impresa operante nel settore audiovisivo, che possa riservarsi la trasmissione degli spettacoli sportivi della propria partecipata, con la sola raccomandazione del rispetto dell’ “interesse generale”, al quale si ricollega quello dell’utente-consumatore, che è poi quello degli appassionati di quel certo sport e dei “tifosi” dei clubs”coinvolti. L’osservazione impone anche un fugace accenno al complicatissimo problema della cessione dei diritti di trasmissione televisiva degli eventi sportivi. Basti qui ricordare l’esperienza del calcio professionistico, con il dilemma della contrattazione “collettiva”, per tutte le squadre di una certa serie o lega, tra emittenza e federazione (e per essa La Lega Calcio), in alternativa all’accordo tra le singole emittenti televisive ovvero i networks come RTI di Mediaset e ciascuna società sportiva, vicenda che ha visto alterne e confuse scelte, a partire dalla L. 78/99 che limitò al 60 per cento la vendita dei diritti codificati ad un unico acquirente (ma esistono oggi, tra le due parti, agenzie di intermediazione plurimandatarie), seguite da provvedimenti delle autorità indipendenti, sintetizzabili in permessi di contrattazione generale o per sottogruppi quanto alle trasmissioni in chiaro (dirette o differite), per le quali il business si restringe alla pubblicità richiamata dall’audience; nonché nella cessione singolare dei programmi criptati, per giungere oggi alle deleghe legislative (in scadenza il 25 gennaio 2008) della L. 19 luglio 2007 n. 106, miranti ad una disciplina generale della titolarità, dell’esercizio e della commercializzazione dei diritti televisivi “ in forma centralizzata” da parte dei sodalizi sportivi e alla garanzia normativa della libera concorrenza (anche con misure di sostegno), dell’accesso all’informazione (sportiva) e della parità di trattamento dell’ offerta e della domanda, allo scopo di incentivare e fornire tutela alle compagini professionistiche “minori” e delle categorie “inferiori” e a garantire l’incertezza dei risultati agonistici, anche riservando una quota delle risorse derivanti dalla commercializzazione centralizzata “a pacchetti” dei diritti di ripresa a dei non meglio identificati “fini di mutualità generale del sistema”
La nuova disciplina necessiterà di continui aggiustamenti legati alle innovazioni tecnologiche delle emittenti ed alla moltiplicazione degli eventi sportivi generatori di profitti.
Il dilagante fenomeno della pratica sportiva e della fruizione degli eventi sportivi da parte degli spettatori tende a prescindere dalle regole giuridiche, ampliandosi solo secondo le regole del mercato. Tuttavia, non vi è dubbio che le regole comunitarie della concorrenza trovino applicazione anche nei confronti delle società recanti l’esercizio dello sport nell’oggetto sociale, anche se appare chiaro che esse valgono solo quando la dimensione economica del fenomeno sociale diventa prevalente rispetto a quella ludica, giungendo a modificare l’ organizzazione stessa della pratica sportiva e a condizionare l’eccellenza dei risultati. In altri termini, il diritto della UE si interessa alla pratica sportiva soltanto se la prestazione si configuri oggettivamente come attività economica (art. 2 Trattato).
La connotazione affaristica dello sport è correlata alla sua enorme diffusione: Le regole “pure” poste di comune accordo, adoperate, fino a quasi un secolo fa, dalle persone agiate che avevano il tempo ed il denaro per divertirsi a duellare, non potevano non subire una certa contaminazione dall’estensione di queste pratiche ludiche ad un numero crescente di persone anche non abbienti, che dalla loro abilità si riproponevano di ricavare proventi, oltre alla gloria. Non si può che prendere atto, come già si è detto, che l’espansione sia della pratica attiva che della fruizione passiva dello sport ha seguito esclusivamente logiche economiche e che il diritto si è accorto tardi del cambiamento, con interventi successivi ed insufficienti per sventare del tutto le insidie del profitto, della corruzione e della degenerazione competitiva, connaturate allo sport-show.
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