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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-09112021-153854


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
D'AGUANNO, MARTINA
URN
etd-09112021-153854
Titolo
La mafia silente: un nuovo modo di concepire l'intimidazione ex art. 416-bis c.p.
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. De Francesco, Giovannangelo
Parole chiave
  • Mafia silente
Data inizio appello
27/09/2021
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
27/09/2091
Riassunto
L’elaborato, attraverso un’analisi storico-giurisprudenziale, affronta il tema della mafia silente e dei risvolti che tale realtà fenomenica ha generato in seno all’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. La mafia silente è un particolare modo di manifestazione del metodo mafioso, di cui un’associazione si avvale, grazie all’acquisito prestigio criminoso, per cui non ha bisogno di espletare atti violenti e minatori, per ottenere dalla società e dal contesto in cui opera ogni tipo di vantaggio illecito.
La tesi attraverso l’analisi dell’evoluzione giuridica, ed evidenziando i tratti peculiari di questa forma di manifestazione mafiosa, vuole mettere in risalto quelle che sono state le problematiche ermeneutiche che si sono verificate successivamente all’espansione delle mafie storiche in territori ritenuti refrattari, immuni alla realtà mafiosa. Si noterà come questo particolare tipo di sodalizio ha generato non poche questioni di natura giurisprudenziale, tanto da creare un forte, e tutt’ora aperto, dibattito circa la possibilità di far rientrare, esso stesso, nella sfera di punibilità del reato di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p.
Detto articolo rappresenta tutt’oggi una risposta legislativa, dal punto di vista repressivo, all’emergenza costituita dal fenomeno mafioso. Attraverso la sua introduzione, avvenuta con la legge n.646 del 1982 (c.d. Legge Rognoni – La Torre), il legislatore ha voluto mostrare l’intento di perseguire e reprimere talune condotte di natura associativa che avevano, fino ad allora, goduto di un ampio margine di impunità; ciò dovuto sia all’ adeguatezza conclamata in termini di repressione dell’articolo 416 c.p., sia per gli ormai diffusi atteggiamenti di omertà e assoggettamento che i sodalizi mafiosi erano stati in grado di generare negli spazi territoriali in cui cominciavano a vantare le loro pretese illecite.
Il risultato di questo poderoso intervento legislativo è culminato con la giustapposizione del nuovo art. 416- bis c.p. al tradizionale reato di associazione a delinquere. Tutto ciò ha generato un’originale quanto problematica fattispecie associativa a causa della forte matrice sociologica insita nella struttura, che ha portato dottrina e giurisprudenza ad effettuare un poderoso lavoro ermeneutico finalizzato a proteggere, da una parte, le esigenze di repressione derivanti dalla particolare complessità della realtà fenomenica mafiosa; dall’altra, a cercare di ancorare la fattispecie all’interno dell’ottica dettata dal Costituente, rispettando i principi cardini di diritto penale.
Nonostante la conclamata efficienza del reato in questione a punire penalmente le manifestazione mafiose, soprattutto attraverso un’ingente opera repressiva nei confronti delle c.d. mafie storiche, bisogna ammettere che la grande potenza punitiva del nuovo articolo, introdotto nel 1982, se impiegata abusivamente, finirebbe col rappresentare un minaccia ai principi e ai valori costituzionali discendenti dalla Costituzione: dal principio di proporzionalità al principio di tassatività ed offensività della norma penale.
Questi principi cardini, insieme, impongono di attribuire un’interpretazione costituzionalmente orientata all’art. 416- bis c.p., in particolare prendendo in riferimento il suo dettato più importante rappresentata dal terzo comma che delinea i tratti peculiari e tipici del metodo mafioso, caratteristica che dona unicità all’articolo in questione, differenziandolo dall’intera categoria dei semplici reati associativi.
Questo elaborato, pertanto, mira ad evidenziare e mettere in luce le peculiari caratteristiche della fattispecie criminosa ex art.416 c.p., e quindi, le problematiche ermeneutiche generate dalla poco chiara formula normativa del suo terzo comma, ai sensi del quale «associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva […]».
Dunque, se da un lato, la matrice sociologica ha ovviamente munito l’articolo in questione di una straordinaria potenza repressiva, dall’altro, in un’ottica diametralmente opposta, la stessa formulazione della norma fomenterebbe una certa “elasticità ermeneutica”; elemento, quest’ultimo, su cui negli anni ha spesso fatto leva una parte della giurisprudenza al fine di estendere la portata applicativa della disposizione a fenomeni criminali oggettivamente diversi da quelli originariamente presi di mira dallo storico legislatore dell’’82.
Si noterà come dottrina e giurisprudenza siano approdati a due orientamenti diversi e contrapposti: ad un primo indirizzo – che tradizionalmente inquadra la fattispecie criminosa tra gli illeciti associativi “ a struttura mista” che si fonda sulla necessaria esteriorizzazione del metodo mafioso - se ne è da sempre contrapposto un secondo, volto ad inquadrare l’articolo 416-bis c.p. tra gli illeciti “ a struttura semplice” e a considerare, dunque, sufficiente ai fini della configurabilità del reato la mera potenzialità intimidatoria dell’associazione. In poche parole, la diatriba verte sulla concretizzazione, sul piano fattuale, del metodo mafioso intimidatorio, ritenuta necessaria nel primo e meramente eventuale nel secondo orientamento.
Tale dibattito - che verrà ampiamente discusso in questa sede –, proprio quando sembrava ormai del tutto sopito, è riemerso con particolare forza di recente, in diversi procedimenti giudiziari riguardanti le infiltrazioni della mafie al Nord e all’estero; incentrati su quella peculiare forma di manifestazione del fenomeno mafioso, denominata mafia silente. A ben vedere, infatti, il recente dibattito, avvenuto in tal sede, ha mostrato chiaramente quanto sia divenuto particolarmente difficile e problematico, nel corso del tempo, il rapporto fra fattispecie sostanziale e accertamento probatorio. L’avvento della mafia silente, dunque, oltre che a disorientare la dottrina, ha finito per mettere in crisi tutti i paradigmi concettuali ed ermeneutici elaborati storicamente dalla giurisprudenza.
La Cassazione, per cercare di porre rimedio alla diatriba, ha valorizzato un tipo di indirizzo intermedio, dal momento che, da un verso, ha completamente escluso dal raggio di punibilità dell’articolo 416-bis c.p. quelle forme di manifestazione solo potenzialmente intimidatorie. D’altro canto, spostando il baricentro probatorio sull’aspetto organizzativo della stessa struttura mafiosa, la Corte ha avuto cura di precisare che il collegamento organico-funzionale tra la cellula delocalizzata e la casa madre potrà, concretamente, assumere rilievo qualora - per le caratteristiche insite nel sodalizio e attraverso la presenza di comportamenti (sia pur larvanti o silenti)- sappia generare nei terzi estranei alla consorteria, un alone permanente di diffuso timore, tale da determinare atteggiamenti omertosi e situazione di conclamata soggiogazione. Tale tematica sarà oggetto di approfondita analisi nell’ultima parte dell’elaborato.

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