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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-08252014-212805


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
CAPONE, ALESSANDRO
URN
etd-08252014-212805
Titolo
Reazione e brigantaggio in Capitanata (1860-1864). Pratiche e linguaggi del ribellismo antiunitario
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E CIVILTA'
Relatori
controrelatore Prof. Baldissara, Luca
relatore Prof. Banti, Alberto Mario
Parole chiave
  • public order
  • prefetti
  • popular legitimism
  • ordine pubblico
  • Mezzogiorno
  • legittimismo popolare
  • italian prefects
  • brigantaggio
  • brigandage
  • banditismo
  • reazione
  • Italian Risorgimento
  • banditism
  • reaction
  • Risorgimento italiano
  • Southern Italy
  • state building
Data inizio appello
29/09/2014
Consultabilità
Completa
Riassunto
Facendo ricorso a un ampio corpus di fonti giudiziarie, prefettizie e militari conservate dagli archivi di Foggia e Lucera, dall'Archivio centrale dello Stato e da quello dello Stato maggiore dell'Esercito, il presente lavoro ricostruisce le vicende del «Grande brigantaggio» postunitario in Capitanata. La tesi discute le interpretazioni avanzate dagli osservatori ottocenteschi e in larga parte confluite nelle opere degli iniziatori della storiografia novecentesca sul brigantaggio, Antonio Lucarelli e soprattutto Franco Molfese, autore della prima e ancora oggi fondamentale trattazione d'insieme del fenomeno. Molfese, servendosi delle categorie analitiche marxiste e gramsciane, sistematizzò la lettura meridionalistica del brigantaggio come espressione del malcontento delle classi contadine del Mezzogiorno, desiderose di ottenere la ripartizione delle terre demaniali, promessa dai governanti sin dalla soppressione della feudalità nel 1806 e mai concretamente attuata. Per Molfese, i motivi politici ravvisabili soprattutto nella prima fase del brigantaggio sarebbero dovuti a una mera opera di strumentalizzazione messa in atto dai maggiorenti della reazione borbonico-clericale nei confronti della protesta sociale contadina, sulla quale, però, il linguaggio della controrivoluzione si sarebbe mostrato incapace di fare presa. Il brigantaggio si sarebbe dunque rivelato nella sua genuina natura di forma primitiva di lotta di classe, destinata a fallire a causa della mancanza di quadri dirigenti rivoluzionari in grado di conferire unità di azione alla violenza distruttrice delle bande armate.
Raccogliendo sollecitazioni provenienti dalla storiografia più recente, queste pagine cercano, invece, di dimostrare l'incompatibilità tra le motivazioni, le forme e i linguaggi delle insurrezioni reazionarie e quelli delle proteste demaniali. Il primo capitolo, analizzando il comportamento delle folle in un campione di moti reazionari verificatisi in Capitanata tra l'estate del 1860 e quella del 1861 e confrontando questi tumulti con quelli aventi per oggetto l'accesso alle risorse terriere, mette in risalto la specificità simbolica e rituale delle reazioni, leggibili come riti di passaggio attraverso i quali le folle operano la restaurazione dell'ordine politico tradizionale sovvertito dalle trasformazioni in senso liberale che hanno riguardato le istituzioni meridionali, prima con la concessione della costituzione da parte di Francesco II, poi con l'annessione al nuovo Regno d'Italia. Gli insorti che prendono parte alle reazioni appaiono mossi non dall'intento di conseguire la proprietà delle terre demaniali, ma da un legittimismo popolare nell'ambito del quale elementi politici e sociali si mescolano e il sovrano borbonico, sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche, appare il garante dei giusti equilibri economici minacciati dall'ordinamento liberale, associato agli interessi dei ceti borghesi. La constatazione delle analogie formali tra le diverse insurrezioni reazionarie non esime, peraltro, dal tentativo di valutare in che modo le logiche degli schieramenti e le violenze che marcano questi moti fossero condizionate dagli annosi contrasti che laceravano le élite municipali in competizione per la gestione del potere locale.
Il secondo capitolo riguarda la composizione e le operazioni delle bande armate che si formarono in seguito alle reazioni del 1860-1861, alimentandosi di coloro che, dopo aver partecipato a tali tumulti, si diedero alla macchia per sfuggire alle ricerche, di ex soldati dell'esercito borbonico che si rifiutavano di servire sotto le armi del nuovo Stato, di renitenti alla leva e disertori, ma anche di gente comune e banditi di lungo corso, alcuni dei quali furono tra i principali capi del brigantaggio foggiano. Il capitolo distingue tre aree di brigantaggio, ricostruendo le azioni delle bande che operano in ciascuna di esse: il Gargano, la Valle del Fortore e il Basso Tavoliere. L'esame condotto in questa sezione mostra come alla pluralità di attori coinvolti nel brigantaggio corrispondesse, secondo dinamiche tipiche delle guerre civili, una pluralità di motivazioni individuali. Nella medesima banda potevano militare convinti partigiani della monarchia borbonica, che conferivano alle proprie violenze un significato esclusivamente politico, ma anche personaggi che nella guerriglia reazionaria potevano scorgere l'occasione di compiere vendette private e arricchirsi facilmente. La debolezza del regime unitario e le concrete possibilità che, come in passato, il sovrano napoletano ritornasse sul trono dispiegavano di fronte a non pochi meridionali orizzonti d'attesa che facevano balenare l'opportunità di sostenere la causa reazionaria per ottenere onori, ricchezze e riconoscimenti in virtù della gratitudine di Francesco II verso coloro che lo avessero appoggiato nella sua lotta per riconquistare il trono delle Due Sicilie. Vecchi banditi come Angelo Maria Del Sambro e Carmine Crocco potevano, allora, mettersi alla testa della reazione nella speranza di riabilitarsi dopo la restaurazione. L'esistenza di un fondo di legittimismo popolare diffuso in alcuni settori della popolazione rurale, oltre a indurre la corte napoletana in esilio a Roma e i circoli borbonici localmente diffusi a progettare piani controrivoluzionari, rendeva possibile ai membri non politicizzati delle bande servirsi del linguaggio reazionario per guadagnare consensi. La collaborazione dei rurali non era acquisita solo in questo modo, ma attraverso una gamma di azioni che comprendevano la distribuzione di generi alimentari ai propri sostenitori e, a scopo deterrente, l'uso della violenza punitiva contro i presunti traditori e gli individui che avevano scelto di aiutare le autorità nella caccia ai briganti.
Nel terzo capitolo lo sguardo si sposta sul ruolo dei prefetti e dei comandi dell'esercito nell'elaborazione della strategia repressiva che, unendo misure amministrative e poliziesche al rafforzamento della presenza militare nel Mezzogiorno, portò alla sconfitta del grande brigantaggio. Particolare attenzione è dedicata alle figure dei prefetti, al loro ruolo di mediatori verso il centro delle richieste – provenienti dai ceti dirigenti locali – di maggior energia nella lotta contro le bande, al non sempre sereno svolgimento dei rapporti tra l'autorità civile e l'autorità militare. Questo esame indica che le esigenze della guerra alle bande armate influirono molto sullo State-building nell'Italia meridionale, favorendo la sedimentazione di pratiche operative che avrebbero per lungo tempo caratterizzato il volto assunto dall'istituto prefettizio e la funzione delle forze armate. La stabilizzazione delle istituzioni unitarie e il miglior controllo da esse conseguito sul territorio, la stanchezza per i danni economici provocati dal prolungato stato d'insicurezza delle campagne, il timore della repressione e le varie forme di gratificazione create dal governo per chi avesse combattuto i briganti finirono per indurre le popolazioni rurali a collaborare con il nuovo Stato. Già attorno alla metà del 1862, prima della proclamazione dello stato d'assedio nel Mezzogiorno e del varo della legislazione eccezionale, le bande armate si trovarono in una condizione di crescente isolamento, rivelata anche dall'aumento della violenza deterrente e punitiva da loro diretta contro esponenti delle fasce più umili della popolazione. Come si evince dai dati quantitativi sulla repressione presentati nella parte finale del capitolo, la gran parte dei briganti della Capitanata venne eliminata prima dell'estate del 1862. Ciò contribuisce a spiegare la relativa mitezza e la breve durata dell'applicazione della legge Pica nella provincia di Foggia. Adottata il 15 agosto 1863, in Capitanata, a differenza di quanto accadde in altre province, la legislazione eccezionale non venne prorogata dopo la sua originaria scadenza del febbraio 1864. A quella data, il brigantaggio appariva ormai gravemente in declino sul Gargano, lungo il corso del Fortore e nelle piane del Tavoliere. Di lì a poco, le ultime grandi bande a cavallo avrebbero lasciato il posto a modesti manipoli di uomini dediti a piccoli atti di criminalità comune.
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