Tesi etd-06302015-092026 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
PAPANIA, SASHA MARIA
URN
etd-06302015-092026
Titolo
La disciplina delle discriminazioni nel rapporto di lavoro subordinato.
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Albi, Pasqualino
Parole chiave
- disciplina
- discriminazioni
- lavoro
- rapporto
- subordinato
Data inizio appello
20/07/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
Nell'approcciarsi alla trattazione del fenomeno discriminatorio, in ambito lavorativo, non può sfuggire la complessità relativa alle numerose categorie di soggetti, concretamente e potenzialmente, vittime di tali trattamenti, tenuto conto altresì dei vari criteri che, nell’evoluzione sociale, determinano l’appartenenza ad un determinato gruppo di individui.
Nel tentativo di una corretta analisi, non si è potuto prescindere dall’influenza e dalla “necessaria” innovazione apportata dalla diretti-ve Europee, le cd. Direttive di seconda generazione.
Si parla di innovazione necessaria, in quanto il nostro ordinamento, nel quadro della più ampia armonizzazione della normativa interna da parte dell’Unione, ha intrapreso un percorso di apertura e di maggio-re considerazione delle numerose ipotesi di discriminazione, superando la storica discriminazione di genere.
In tale contesto di lento ma costante adeguamento alle Direttive comunitarie, sempre maggiore attenzione hanno assunto le nuove ipotesi di discriminazione, superando così la storica discriminazione di gene-re, che, peraltro, resta immutata nella sua intrinseca attualità e gravità.
Proprio per questo, nella seguente analisi ci si è proposti di affrontare un excursus storico del fenomeno discriminatorio, dall’arcaica disciplina ottocentesca che ricorreva alla manodopera sia di donne che minori, alle prime forme di tutela, come l’esclusione per quest’ultimi di lavorare nelle cave, e ancora il riconoscimento per le donne di una maggiore predisposizione all’adempimento di determinate mansioni (ad esempio contabilità, insegnamento e lavori domestici).
E’ bene comunque tener presente che, a fronte di tale riconoscimento, le donne continuavano a restare escluse dalla possibilità di rivestire cariche pubbliche o lavori che comportassero una certa responsabilità, non tanto per la carenza di requisiti di carattere tecnico o culturale, ma proprio in quanto donne.
Con l’entrata della Costituzione, che ha posto, tra i principi fondamentali, proprio il principio di uguaglianza, e con lo Statuto dei lavoratori, si è giunti ad un riconoscimento sempre maggiore della parità di trattamento tra donne e uomini e di una maggiore protezione da altre importantissime forme di discriminazione, come quella, solo per citare forse la categoria più rappresentativa, dell’appartenenza sindacale, in cui la normativa sovranazionale ha trovato applicazione solo con la sentenza che ha condannato le mancate assunzioni dei lavoratori Fiom.
Sono stati riportati alcuni casi che la Corte di giustizia ha dovuto affrontare, per una corretta interpretazione della norma interna alla luce dei principi sovranazionali.
In conclusione, al terzo capitolo è stato approfondito il tema del licenziamento discriminatorio, è stata posta un’analisi sulla disciplina generale e le relative norme di riferimento, dalla legge 604/1966, alla definizione di licenziamento discriminatorio contenuta all’art.3 legge 108 del 1990, alle modifiche apportate, per quanto riguarda il regime dell’onere della prova dall’art.8 della direttiva 2000/43 e dall’art. 10 della direttiva 78/2000.
Non si è potuto prescindere dal lungo dibattito relativo all’interpretazione delle ipotesi di discriminazione normativamente previste, tra teoria esemplificativa e teoria della tassatività dei casi di discriminazione elencati. Il tutto sorretto dall’ulteriore dibattito sulla corretta interpretazione del motivo illecito determinate, caratterizzato da una incoerenza normativa, poiché se nella novella 92/2012, prevista all'art. 18 Statuto dei lavoratori, tra i casi di licenziamento nullo è stato, chiaramente, citato il licenziamento per motivo illecito determinante (rafforzando la corrente che lo individuava come autonomo, rispetto al licenziamento discriminatorio, ma equiparabile ad esso solo negli effetti), invece con la riforma del Jobs act, prevista durante il governo Renzi, nel D.lgs. 23/2015 recante “disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, come si chiarirà nel terzo capitolo, sembrerebbe mancare qualsiasi riferimento esplicito nei confronti dei licenziamenti determinati da motivo illecito determinante.
Speranza nella trattazione dell’istituto è quella di disegnare una articolazione di esso, considerando l’imprescindibile riferimento alla normativa sovranazionale e alle difficoltà di recepimento nell’ordinamento interno causata, a parere di chi scrive, dalla resistenza di quest’ultimo di adeguarsi correttamente. Probabilmente a causa della carenza di un chiaro e innovativo provvedimento normativo che disciplini del tutto tale materia.
Nel tentativo di una corretta analisi, non si è potuto prescindere dall’influenza e dalla “necessaria” innovazione apportata dalla diretti-ve Europee, le cd. Direttive di seconda generazione.
Si parla di innovazione necessaria, in quanto il nostro ordinamento, nel quadro della più ampia armonizzazione della normativa interna da parte dell’Unione, ha intrapreso un percorso di apertura e di maggio-re considerazione delle numerose ipotesi di discriminazione, superando la storica discriminazione di genere.
In tale contesto di lento ma costante adeguamento alle Direttive comunitarie, sempre maggiore attenzione hanno assunto le nuove ipotesi di discriminazione, superando così la storica discriminazione di gene-re, che, peraltro, resta immutata nella sua intrinseca attualità e gravità.
Proprio per questo, nella seguente analisi ci si è proposti di affrontare un excursus storico del fenomeno discriminatorio, dall’arcaica disciplina ottocentesca che ricorreva alla manodopera sia di donne che minori, alle prime forme di tutela, come l’esclusione per quest’ultimi di lavorare nelle cave, e ancora il riconoscimento per le donne di una maggiore predisposizione all’adempimento di determinate mansioni (ad esempio contabilità, insegnamento e lavori domestici).
E’ bene comunque tener presente che, a fronte di tale riconoscimento, le donne continuavano a restare escluse dalla possibilità di rivestire cariche pubbliche o lavori che comportassero una certa responsabilità, non tanto per la carenza di requisiti di carattere tecnico o culturale, ma proprio in quanto donne.
Con l’entrata della Costituzione, che ha posto, tra i principi fondamentali, proprio il principio di uguaglianza, e con lo Statuto dei lavoratori, si è giunti ad un riconoscimento sempre maggiore della parità di trattamento tra donne e uomini e di una maggiore protezione da altre importantissime forme di discriminazione, come quella, solo per citare forse la categoria più rappresentativa, dell’appartenenza sindacale, in cui la normativa sovranazionale ha trovato applicazione solo con la sentenza che ha condannato le mancate assunzioni dei lavoratori Fiom.
Sono stati riportati alcuni casi che la Corte di giustizia ha dovuto affrontare, per una corretta interpretazione della norma interna alla luce dei principi sovranazionali.
In conclusione, al terzo capitolo è stato approfondito il tema del licenziamento discriminatorio, è stata posta un’analisi sulla disciplina generale e le relative norme di riferimento, dalla legge 604/1966, alla definizione di licenziamento discriminatorio contenuta all’art.3 legge 108 del 1990, alle modifiche apportate, per quanto riguarda il regime dell’onere della prova dall’art.8 della direttiva 2000/43 e dall’art. 10 della direttiva 78/2000.
Non si è potuto prescindere dal lungo dibattito relativo all’interpretazione delle ipotesi di discriminazione normativamente previste, tra teoria esemplificativa e teoria della tassatività dei casi di discriminazione elencati. Il tutto sorretto dall’ulteriore dibattito sulla corretta interpretazione del motivo illecito determinate, caratterizzato da una incoerenza normativa, poiché se nella novella 92/2012, prevista all'art. 18 Statuto dei lavoratori, tra i casi di licenziamento nullo è stato, chiaramente, citato il licenziamento per motivo illecito determinante (rafforzando la corrente che lo individuava come autonomo, rispetto al licenziamento discriminatorio, ma equiparabile ad esso solo negli effetti), invece con la riforma del Jobs act, prevista durante il governo Renzi, nel D.lgs. 23/2015 recante “disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, come si chiarirà nel terzo capitolo, sembrerebbe mancare qualsiasi riferimento esplicito nei confronti dei licenziamenti determinati da motivo illecito determinante.
Speranza nella trattazione dell’istituto è quella di disegnare una articolazione di esso, considerando l’imprescindibile riferimento alla normativa sovranazionale e alle difficoltà di recepimento nell’ordinamento interno causata, a parere di chi scrive, dalla resistenza di quest’ultimo di adeguarsi correttamente. Probabilmente a causa della carenza di un chiaro e innovativo provvedimento normativo che disciplini del tutto tale materia.
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