Tesi etd-06102017-192930 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
PAUTASSO, SARA
Indirizzo email
sarapautasso@hotmail.it
URN
etd-06102017-192930
Titolo
Etica e passività. La costituzione originaria dell'uomo in Emmanuel Levinas
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE
Relatori
relatore Fabris, Adriano
Parole chiave
- Accoglienza
- Alterità
- Bene
- Bisogno
- Cattiva coscienza
- Creazione
- Desiderio
- Dire
- Donazione
- Ebraismo
- Elezione
- Enigma
- Essere
- Etica
- Evasione
- Godimento
- Hitlerismo
- Il y a
- Illeità
- Impotenza
- Infinito
- Insonnia
- Nudità
- Ostaggio
- Passività
- Persecuzione
- Prigionia
- Relazione
- Responsabilità
- Sofferenza inutile
- Soggettività
- Sostituzione
- Tempo
- Totalità
- Traccia
- Trascendenza
- Umanesimo
- Volto
- Vulnerabilità
Data inizio appello
30/06/2017
Consultabilità
Completa
Riassunto
La presente ricerca si configura come il tentativo di analizzare le diverse declinazioni della passività, sia nel ruolo etico di costituzione del soggetto, sia come paradigma per un ripensamento dello statuto stesso della relazione con l'altro uomo.
L’obiettivo è stato quello di individuare, attraverso un’analisi cronologica delle opere del filosofo, l’evoluzione del concetto di passività, in virtù di un pensiero che è maturato progressivamente.
La successione di livelli in cui si articola la passività procede secondo un percorso di evoluzione-sublimazione. La prima forma di passività si potrebbe definire “passività esistenziale” per sottolineare in che modo il soggetto si trovi coinvolto in una situazione esistenziale che non ha scelto e nella quale non ha potere. Parallelamente a questa passività si delinea quella “corporale” che mette in luce un Io radicato al proprio corpo, dipendente dai propri bisogni, vulnerabile e impotente rispetto alla propria costituzione fisica. Al livello successivo troviamo la vera e propria “passività etica”, che prende avvio dall’incontro con l’altro uomo e dalla quale scaturiscono la responsabilità, la libertà e l’azione concreta, nonché la stessa etica. Tutte dipendono e si generano dalla primaria passività, quella “creaturale”, costitutiva di ciascun uomo e necessaria al superamento della fatticità heideggeriana e alla rottura con la totalità anonima e indistinta.
L’indagine sulla passività mi ha permesso di mettere in luce gli aspetti fondamentali del pensiero di Levinas e di comprendere fino alla radice le critiche mosse dallo stesso ai paradigmi della filosofia occidentale. La scoperta della passività originaria ha consentito al filosofo di spostare il baricentro dall’Io all’Altro, attraverso una strategia di de-costruzione e de-posizione dell’Io stesso. A tale scopo, Levinas cerca di recuperare una soggettività anteriore alla costituzione dell’Io, di oltrepassare l’ontologia heideggeriana, la coscienza intenzionale husserliana e la stessa concettualità occidentale, fino a risalire verso una nuova metafisica essenzialmente etica e a riportare in primo piano il giudaismo e il suo orientamento morale.
Nel primo capitolo si è evidenziata la necessità, richiamata dallo stesso Levinas, di ricercare un punto di partenza alternativo a quello individuato nell’essere e nell’identità del soggetto, con lo scopo di abbandonare definitivamente la concettualità occidentale, accusata di aver favorito, se non addirittura originato, l’hitlerismo.
Il saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) approfondisce in che modo il diverso approccio all’essere condizioni la mentalità e l’avvicinamento all’altro uomo. Emergono principalmente due diversi orientamenti: quello heideggeriano, dietro al quale si cela la stessa filosofia dell’hitlerismo, che esalta la brutalità del fatto d’essere e che culmina nella chiusura identitaria e nell’esaltazione dei legami di sangue, e quello levinassiano, che lo rifiuta e ne reclama un’evasione.
In entrambi i casi il soggetto è passivo: è incatenato e inchiodato all’essere senza potersene in alcun modo liberare, ma i movimenti che si generano sono differenti.
Nella filosofia dell’hitlerismo emerge un attaccamento all’atto di porsi e un’ebbrezza dell’auto-affermazione, che culmina in un movimento orizzontale di chiusura su se stessi. Contrariamente a quanto affiora nel saggio Dell’evasione (1935), in cui il malessere verso l’essere è già movimento di uscita e di ascesa. Nei sentimenti di impotenza, abbandono, soffocamento, disagio, vergogna, disgusto, orrore e nausea, collegati alla stessa “pesantezza” e “vischiosità” con cui si manifesta l’essere, si ritrova concretamente il primario livello di passività: quello esistenziale-corporale.
Il secondo capitolo approfondisce gli anni di prigionia di Levinas: la provvisorietà della vita e la ricerca di un senso nell’insensatezza della Shoah permettono al filosofo di prendere atto della stessa costituzione passiva dell’umano e di scoprirne il significato etico.
Nei Quaderni di prigionia emerge per la prima volta la categoria dell’ebreo come categoria ontologica, come nuova dimensione dell’essere umano, che non nega la propria passività, ma la esalta nella sua funzione salvifica e morale. Nella passività più assoluta della persecuzione, l’ebreo scopre i segni della propria missione ed elezione: ritrova il senso e la dignità dell’essere umano.
Nel saggio pubblicato negli anni immediatamente successivi alla prigionia Dall’esistenza all’esistente (1947) la passività emerge nel carattere anonimo e indeterminato dell’esistenza, l’il y a, che pervade e spersonalizza il soggetto rendendolo impotente; ad esso si accompagna la metafora dell’esperienza-limite dell’insonnia, quale vigilanza passiva e senza scopo che non risponde ai comandi del soggetto di dormire.
Il concetto di il y a permette a Levinas di descrivere anche, e soprattutto, la dinamica attraverso la quale l’esistente si stacca dall’impersonalità dell’essere per ipostatizzarsi, in un processo passivo di nascita-creazione che si rinnova ad ogni istante.
La passività è poi ritrovata in alcuni fenomeni della vita quotidiana, quali la pigrizia, la stanchezza e la fatica. In questi fenomeni si coglie concretamente l’“inibizione” e la “spossatezza” dell’attività ma, la passività che ne deriva, non è passività etica, perché si definisce ancora come opposizione all’attività: come ricettività. In tali esperienze si rivela, dunque, una duplicità del soggetto che, nonostante si dica passivo, è potenzialmente attivo, perché conserva la capacità di trasformare la propria inattività in atto.
La vera passività, quella assoluta e radicale, che nega qualsiasi assunzione di potere, emerge soprattutto ne Il Tempo e l’Altro (1947). Nel saggio affiora per la prima volta il tema dell’ignoto e dell’assolutamente altro della morte, di fronte alla quale il soggetto si ritrova in una condizione di totale inconoscibilità e impotenza: di assoluta passività. Stessa impotenza che l’uomo sperimenta nella sofferenza e nel mistero dell’eros e della paternità-filialità. La passività al cospetto dell’ignoto e del mistero sembra già indirizzarci verso la sua svolta etica: in essa non troviamo più una semplice ricettività di stimoli esterni, né un’opposizione all’attività, ma un al di là della stessa esperienza umana.
Nell’ultimo saggio analizzato, Essere Ebreo (1947), la passività raggiunge la piena significazione etica all’interno della dinamica della creazione, dell’elezione e delle esperienze traumatiche vissute dal popolo eletto.
Nel terzo capitolo, dedicato interamente a Totalità e Infinito (1961), è stata chiarita la differenza tra la passività esistenziale-corporale, identificata nei bisogni e nel godimento e proveniente da stimoli interni collegati alla sensibilità stessa, e la passività etica, proveniente dall’incontro con l’altro uomo, ma già presente nel Desiderio metafisico che ci indirizza ad incontrarlo.
Il Desiderio, nella sua valenza pre-gnoseologica e pre-riflessiva, innesca il movimento stesso che dà origine alla relazione etica: ancor prima di incontrare l’Altro, il Medesimo è già predisposto ad accoglierlo, in virtù di una propensione inscritta nella stessa struttura costitutiva dell’uomo. Il volto dell’Altro, nella sua sporgenza di Infinito, apre alla vera e propria Trascendenza, che disarma il Medesimo e che lo costringe a deporre i suoi strumenti conoscitivi. Il Medesimo è coinvolto in una dimensione che non è più quella del potere, ma quella della passività etica: passività che non consiste soltanto nel subire l’influenza dell’Altro, ma nel patire per-l’Altro. Solo la passività permette al Medesimo di subire il subire del povero, di provare la sua sofferenza, di mettere in questione il proprio diritto d’essere e, primariamente, di obbedire al comandamento di non ucciderlo.
Nel primordiale timore del Medesimo di essere l’usurpatore del posto di qualcun altro e nel sentimento di colpevolezza generato da tale timore, la passività assume i connotati del non-intenzionale, espresso nel malgrado-sé dell’accettazione dell’obbligo.
L’intero capitolo cerca di mettere in luce gli aspetti centrali della passività etica che, attraverso specifiche tematiche come quella della responsabilità, della gratuità, della donazione e dell’accoglienza, diviene aiuto e azione concreta: si trasforma in attività per il bene dell’Altro.
Dopo aver analizzato le figure bibliche della passività, è stata presa in esame la passività originata nella relazione erotica e in quella filiale, senza omettere cenni alla fragilità, dolcezza e passività della dimensione stessa della femminilità.
Il capitolo si conclude con il superamento della fatticità dell’essere-per-la-morte heideggeriano attraverso la scoperta di un senso oltre la morte e oltre l’essere: quello che, nel non-ancora, nella pazienza e nell’attesa della morte, spinge il Medesimo a donarsi un’ultima volta all’Altro.
Il quarto capitolo si concentra prevalentemente sull’analisi di Altrimenti che essere (1974), integrata con riferimenti e citazioni di altre opere e saggi della maturità. L’analisi dell’opera è preceduta da un confronto con Totalità e Infinito, necessario per comprendere la differente articolazione che assume la passività nel passaggio da un’opera all’altra.
Infatti, mentre Totalità e Infinito si presenta come un saggio sull’esteriorità, come trascendenza del volto e inafferrabilità dell’Infinito-Altro, Altrimenti che essere si presenta come un saggio sull’interiorità, come gestazione dell’Altro nel Medesimo.
Nel primo caso, l’esteriorità riflette la passività che si produce in presenza dell’Altro, nel secondo, l’interiorità esprime un altro livello di passività, quello primordiale-creaturale, proveniente dal Bene stesso e antecedente l’incontro con l’Altro.
Nel capitolo ho cercato di mettere a fuoco il passaggio dalla struttura ontologica alla struttura etica dell’uomo, passando per un intreccio di tematiche, quale quella dell’ostaggio, del sacrificio, della sostituzione, dell’espiazione, della persecuzione, ecc. in grado di mettere a nudo la soggettività stessa del Medesimo.
La messa a fuoco della soggettività, come innata predisposizione al bene e come inversione dal per-sé al per-altri, fino alla possibilità di sacrificarsi e morire al loro posto, viene specificatamente alla luce nell’approfondimento di altre questioni indissolubilmente concatenate. Il Dire originario, la sincerità, la diacronia assoluta, la giustizia oblativa e la genesi dello Stato, fino al ritorno all’origine ebraica, sono solo alcune delle tante sfaccettature della passività.
Il soggetto passivo, modello della non-indifferenza e della non-violenza per eccellenza, ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo prefissato di recuperare la dignità dell’uomo, insita nella sua stessa alterità, e di liberarlo dalla riduzione e dall’assorbimento nell’anonimato del sistema e della totalità. La brutalità dell’hitlerismo non può trovare accoglimento in un’anima che ha recuperato la sua genuina passività: la sua umanità.
Soltanto un’etica fondata sulla passività costitutiva dell’uomo può metter fine alle incomprensioni di senso, alla disumanità dell’Umanesimo moderno e sostituire al criterio dell’assurdo, troppe volte divenuto orientamento, il criterio della non-violenza e della pace.
L’obiettivo è stato quello di individuare, attraverso un’analisi cronologica delle opere del filosofo, l’evoluzione del concetto di passività, in virtù di un pensiero che è maturato progressivamente.
La successione di livelli in cui si articola la passività procede secondo un percorso di evoluzione-sublimazione. La prima forma di passività si potrebbe definire “passività esistenziale” per sottolineare in che modo il soggetto si trovi coinvolto in una situazione esistenziale che non ha scelto e nella quale non ha potere. Parallelamente a questa passività si delinea quella “corporale” che mette in luce un Io radicato al proprio corpo, dipendente dai propri bisogni, vulnerabile e impotente rispetto alla propria costituzione fisica. Al livello successivo troviamo la vera e propria “passività etica”, che prende avvio dall’incontro con l’altro uomo e dalla quale scaturiscono la responsabilità, la libertà e l’azione concreta, nonché la stessa etica. Tutte dipendono e si generano dalla primaria passività, quella “creaturale”, costitutiva di ciascun uomo e necessaria al superamento della fatticità heideggeriana e alla rottura con la totalità anonima e indistinta.
L’indagine sulla passività mi ha permesso di mettere in luce gli aspetti fondamentali del pensiero di Levinas e di comprendere fino alla radice le critiche mosse dallo stesso ai paradigmi della filosofia occidentale. La scoperta della passività originaria ha consentito al filosofo di spostare il baricentro dall’Io all’Altro, attraverso una strategia di de-costruzione e de-posizione dell’Io stesso. A tale scopo, Levinas cerca di recuperare una soggettività anteriore alla costituzione dell’Io, di oltrepassare l’ontologia heideggeriana, la coscienza intenzionale husserliana e la stessa concettualità occidentale, fino a risalire verso una nuova metafisica essenzialmente etica e a riportare in primo piano il giudaismo e il suo orientamento morale.
Nel primo capitolo si è evidenziata la necessità, richiamata dallo stesso Levinas, di ricercare un punto di partenza alternativo a quello individuato nell’essere e nell’identità del soggetto, con lo scopo di abbandonare definitivamente la concettualità occidentale, accusata di aver favorito, se non addirittura originato, l’hitlerismo.
Il saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) approfondisce in che modo il diverso approccio all’essere condizioni la mentalità e l’avvicinamento all’altro uomo. Emergono principalmente due diversi orientamenti: quello heideggeriano, dietro al quale si cela la stessa filosofia dell’hitlerismo, che esalta la brutalità del fatto d’essere e che culmina nella chiusura identitaria e nell’esaltazione dei legami di sangue, e quello levinassiano, che lo rifiuta e ne reclama un’evasione.
In entrambi i casi il soggetto è passivo: è incatenato e inchiodato all’essere senza potersene in alcun modo liberare, ma i movimenti che si generano sono differenti.
Nella filosofia dell’hitlerismo emerge un attaccamento all’atto di porsi e un’ebbrezza dell’auto-affermazione, che culmina in un movimento orizzontale di chiusura su se stessi. Contrariamente a quanto affiora nel saggio Dell’evasione (1935), in cui il malessere verso l’essere è già movimento di uscita e di ascesa. Nei sentimenti di impotenza, abbandono, soffocamento, disagio, vergogna, disgusto, orrore e nausea, collegati alla stessa “pesantezza” e “vischiosità” con cui si manifesta l’essere, si ritrova concretamente il primario livello di passività: quello esistenziale-corporale.
Il secondo capitolo approfondisce gli anni di prigionia di Levinas: la provvisorietà della vita e la ricerca di un senso nell’insensatezza della Shoah permettono al filosofo di prendere atto della stessa costituzione passiva dell’umano e di scoprirne il significato etico.
Nei Quaderni di prigionia emerge per la prima volta la categoria dell’ebreo come categoria ontologica, come nuova dimensione dell’essere umano, che non nega la propria passività, ma la esalta nella sua funzione salvifica e morale. Nella passività più assoluta della persecuzione, l’ebreo scopre i segni della propria missione ed elezione: ritrova il senso e la dignità dell’essere umano.
Nel saggio pubblicato negli anni immediatamente successivi alla prigionia Dall’esistenza all’esistente (1947) la passività emerge nel carattere anonimo e indeterminato dell’esistenza, l’il y a, che pervade e spersonalizza il soggetto rendendolo impotente; ad esso si accompagna la metafora dell’esperienza-limite dell’insonnia, quale vigilanza passiva e senza scopo che non risponde ai comandi del soggetto di dormire.
Il concetto di il y a permette a Levinas di descrivere anche, e soprattutto, la dinamica attraverso la quale l’esistente si stacca dall’impersonalità dell’essere per ipostatizzarsi, in un processo passivo di nascita-creazione che si rinnova ad ogni istante.
La passività è poi ritrovata in alcuni fenomeni della vita quotidiana, quali la pigrizia, la stanchezza e la fatica. In questi fenomeni si coglie concretamente l’“inibizione” e la “spossatezza” dell’attività ma, la passività che ne deriva, non è passività etica, perché si definisce ancora come opposizione all’attività: come ricettività. In tali esperienze si rivela, dunque, una duplicità del soggetto che, nonostante si dica passivo, è potenzialmente attivo, perché conserva la capacità di trasformare la propria inattività in atto.
La vera passività, quella assoluta e radicale, che nega qualsiasi assunzione di potere, emerge soprattutto ne Il Tempo e l’Altro (1947). Nel saggio affiora per la prima volta il tema dell’ignoto e dell’assolutamente altro della morte, di fronte alla quale il soggetto si ritrova in una condizione di totale inconoscibilità e impotenza: di assoluta passività. Stessa impotenza che l’uomo sperimenta nella sofferenza e nel mistero dell’eros e della paternità-filialità. La passività al cospetto dell’ignoto e del mistero sembra già indirizzarci verso la sua svolta etica: in essa non troviamo più una semplice ricettività di stimoli esterni, né un’opposizione all’attività, ma un al di là della stessa esperienza umana.
Nell’ultimo saggio analizzato, Essere Ebreo (1947), la passività raggiunge la piena significazione etica all’interno della dinamica della creazione, dell’elezione e delle esperienze traumatiche vissute dal popolo eletto.
Nel terzo capitolo, dedicato interamente a Totalità e Infinito (1961), è stata chiarita la differenza tra la passività esistenziale-corporale, identificata nei bisogni e nel godimento e proveniente da stimoli interni collegati alla sensibilità stessa, e la passività etica, proveniente dall’incontro con l’altro uomo, ma già presente nel Desiderio metafisico che ci indirizza ad incontrarlo.
Il Desiderio, nella sua valenza pre-gnoseologica e pre-riflessiva, innesca il movimento stesso che dà origine alla relazione etica: ancor prima di incontrare l’Altro, il Medesimo è già predisposto ad accoglierlo, in virtù di una propensione inscritta nella stessa struttura costitutiva dell’uomo. Il volto dell’Altro, nella sua sporgenza di Infinito, apre alla vera e propria Trascendenza, che disarma il Medesimo e che lo costringe a deporre i suoi strumenti conoscitivi. Il Medesimo è coinvolto in una dimensione che non è più quella del potere, ma quella della passività etica: passività che non consiste soltanto nel subire l’influenza dell’Altro, ma nel patire per-l’Altro. Solo la passività permette al Medesimo di subire il subire del povero, di provare la sua sofferenza, di mettere in questione il proprio diritto d’essere e, primariamente, di obbedire al comandamento di non ucciderlo.
Nel primordiale timore del Medesimo di essere l’usurpatore del posto di qualcun altro e nel sentimento di colpevolezza generato da tale timore, la passività assume i connotati del non-intenzionale, espresso nel malgrado-sé dell’accettazione dell’obbligo.
L’intero capitolo cerca di mettere in luce gli aspetti centrali della passività etica che, attraverso specifiche tematiche come quella della responsabilità, della gratuità, della donazione e dell’accoglienza, diviene aiuto e azione concreta: si trasforma in attività per il bene dell’Altro.
Dopo aver analizzato le figure bibliche della passività, è stata presa in esame la passività originata nella relazione erotica e in quella filiale, senza omettere cenni alla fragilità, dolcezza e passività della dimensione stessa della femminilità.
Il capitolo si conclude con il superamento della fatticità dell’essere-per-la-morte heideggeriano attraverso la scoperta di un senso oltre la morte e oltre l’essere: quello che, nel non-ancora, nella pazienza e nell’attesa della morte, spinge il Medesimo a donarsi un’ultima volta all’Altro.
Il quarto capitolo si concentra prevalentemente sull’analisi di Altrimenti che essere (1974), integrata con riferimenti e citazioni di altre opere e saggi della maturità. L’analisi dell’opera è preceduta da un confronto con Totalità e Infinito, necessario per comprendere la differente articolazione che assume la passività nel passaggio da un’opera all’altra.
Infatti, mentre Totalità e Infinito si presenta come un saggio sull’esteriorità, come trascendenza del volto e inafferrabilità dell’Infinito-Altro, Altrimenti che essere si presenta come un saggio sull’interiorità, come gestazione dell’Altro nel Medesimo.
Nel primo caso, l’esteriorità riflette la passività che si produce in presenza dell’Altro, nel secondo, l’interiorità esprime un altro livello di passività, quello primordiale-creaturale, proveniente dal Bene stesso e antecedente l’incontro con l’Altro.
Nel capitolo ho cercato di mettere a fuoco il passaggio dalla struttura ontologica alla struttura etica dell’uomo, passando per un intreccio di tematiche, quale quella dell’ostaggio, del sacrificio, della sostituzione, dell’espiazione, della persecuzione, ecc. in grado di mettere a nudo la soggettività stessa del Medesimo.
La messa a fuoco della soggettività, come innata predisposizione al bene e come inversione dal per-sé al per-altri, fino alla possibilità di sacrificarsi e morire al loro posto, viene specificatamente alla luce nell’approfondimento di altre questioni indissolubilmente concatenate. Il Dire originario, la sincerità, la diacronia assoluta, la giustizia oblativa e la genesi dello Stato, fino al ritorno all’origine ebraica, sono solo alcune delle tante sfaccettature della passività.
Il soggetto passivo, modello della non-indifferenza e della non-violenza per eccellenza, ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo prefissato di recuperare la dignità dell’uomo, insita nella sua stessa alterità, e di liberarlo dalla riduzione e dall’assorbimento nell’anonimato del sistema e della totalità. La brutalità dell’hitlerismo non può trovare accoglimento in un’anima che ha recuperato la sua genuina passività: la sua umanità.
Soltanto un’etica fondata sulla passività costitutiva dell’uomo può metter fine alle incomprensioni di senso, alla disumanità dell’Umanesimo moderno e sostituire al criterio dell’assurdo, troppe volte divenuto orientamento, il criterio della non-violenza e della pace.
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