Tesi etd-06092014-201340 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
SABATINO, FRANCESCA
URN
etd-06092014-201340
Titolo
Follia e violenza sulla scena tragica. Variazioni sul tema del personaggio folle nei tre tragici maggiori
Dipartimento
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Corso di studi
FILOLOGIA E STORIA DELL'ANTICHITA'
Relatori
relatore Prof. Medda, Enrico
Parole chiave
- follia
- tragedia
- violenza
Data inizio appello
30/06/2014
Consultabilità
Completa
Riassunto
La parte iniziale di questo lavoro è dedicata al confronto tra alcune scene dell’Iliade nelle quali vengono descritti casi di estasi guerriera che, con la dovuta cautela, potremmo definire di follia. Una simile scelta è stata motivata dalla volontà di mostrare come sin da queste prime testimonianze letterarie la follia fosse strettamente connessa con l’intervento di una divinità e come da questi accessi di furia guerriera scaturissero sempre episodi di violenza. Il dio infatti trasmettendo temporaneamente parte della sua forza divina nell’eroe ne accresce il coraggio e il vigore fisico facendo sì che egli possa compiere sovrumane e mirabili imprese, realizzate nel segno della strage di nemici in battaglia. Nell’Iliade dunque l’azione divina, che spingere l’eroe alla violenza mediante l’aumento della sua forza fisica, è fonte di gloria. Si tratta perciò di una follia benefica per il guerriero che ne viene pervaso.
Il lavoro procede poi con l’analisi del rapporto tra follia e violenza nelle tragedie del V secolo. Nei drammi conservati la pazzia dell’eroe fa la prima comparsa alla conclusione delle Coefore di Eschilo, quando il matricida Oreste vede in uno spaventoso delirio le Erinni vendicatrici della madre uccisa. Le stesse tormentano anche il protagonista dell’Oreste euripideo. In questi casi la follia costituisce un evento episodico, mentre in drammi come l’Aiace di Sofocle o l’Eracle, l’Ippolito e le Baccanti di Euripide essa rappresenta il motivo generatore dell’azione tragica. Diverse sono anche le tipologie di rappresentazione della follia. Il raptus mentale è direttamente riprodotto sulla scena come nei casi di Oreste nelle Coefore e nell’omonimo dramma di Euripide, Fedra e Penteo, oppure viene raccontato da un messo come nell’Eracle e nell’Ifigenia Taurica, o prima descritto e poi rappresentato in atto come nell’Aiace. Ma quel che accomuna tutte queste tragedie è, proprio come nell’Iliade, la strettissima connessione tra follia e violenza omicida: la prima risulta infatti essere sempre causa o conseguenza della seconda. Inoltre ciascuno di questi accessi di follia furiosa si configura come una sorta di stato demoniaco, poiché determinato dall’intervento di una potenza divina, proprio come in Omero.
Ma nei tragici del V secolo la follia assume connotati negativi, del tutto estranei al poema iliadico. Con lo smarrimento della ragione l’eroe talvolta sconta una colpa volontaria e paga con un terribile contrappasso l’errore che ha attirato su di lui l’ostilità del dio, come accade con Oreste, Penteo e Aiace; altre volte invece l’eroe è vittima innocente della vendetta divina, come Eracle e Fedra. In tutti questi casi però la follia rappresenta sempre il dolore a cui l’uomo è condannato, a causa del suo essere mortale, quando è posto di fronte all’irrazionalità del reale.
Le manifestazioni devastanti degli attacchi di pazzia riportate sulla scena tragica costituiscono un elemento di acceso interesse in un’epoca in cui le prime indagini della scienza medica rivolgevano una particolare attenzione alle attività del cervello e alle sue disfunzioni. Ma quello che in questa tesi ho cercato di dimostrare è il come le somiglianze tra i sintomi che caratterizzano le scene di follia in tragedia e quelli tipici di particolari malattie descritti nei trattati di medicina, come l’epilessia o l’isteria, non siano determinate dalla volontà di rappresentare in forma drammatica la natura patologica degli accessi di follia. Ciò che impedisce infatti alla follia degli eroi tragici di essere definita patologica è la sua codificazione culturale, perché essa è in tutto legata ad una dimensione essenzialmente sacra.
Lo scopo di questo mio lavoro è inoltre quello di illustrare in che modo i tre tragediografi si siano serviti della follia per rappresentare sulla scena l’enorme distanza che intercorre tra umano e divino. L’eroe tragico, quando è colpevole, pecca di hybris nel credere di poter essere autore del proprio destino, nell’opporsi alla divinità o nel non curarsi di essa. Per lui la follia che giunge a sconvolgere la mente è allora un amaro castigo. La punizione divina mette così a nudo l’inesorabile debolezza e precarietà dell’uomo.
Il lavoro procede poi con l’analisi del rapporto tra follia e violenza nelle tragedie del V secolo. Nei drammi conservati la pazzia dell’eroe fa la prima comparsa alla conclusione delle Coefore di Eschilo, quando il matricida Oreste vede in uno spaventoso delirio le Erinni vendicatrici della madre uccisa. Le stesse tormentano anche il protagonista dell’Oreste euripideo. In questi casi la follia costituisce un evento episodico, mentre in drammi come l’Aiace di Sofocle o l’Eracle, l’Ippolito e le Baccanti di Euripide essa rappresenta il motivo generatore dell’azione tragica. Diverse sono anche le tipologie di rappresentazione della follia. Il raptus mentale è direttamente riprodotto sulla scena come nei casi di Oreste nelle Coefore e nell’omonimo dramma di Euripide, Fedra e Penteo, oppure viene raccontato da un messo come nell’Eracle e nell’Ifigenia Taurica, o prima descritto e poi rappresentato in atto come nell’Aiace. Ma quel che accomuna tutte queste tragedie è, proprio come nell’Iliade, la strettissima connessione tra follia e violenza omicida: la prima risulta infatti essere sempre causa o conseguenza della seconda. Inoltre ciascuno di questi accessi di follia furiosa si configura come una sorta di stato demoniaco, poiché determinato dall’intervento di una potenza divina, proprio come in Omero.
Ma nei tragici del V secolo la follia assume connotati negativi, del tutto estranei al poema iliadico. Con lo smarrimento della ragione l’eroe talvolta sconta una colpa volontaria e paga con un terribile contrappasso l’errore che ha attirato su di lui l’ostilità del dio, come accade con Oreste, Penteo e Aiace; altre volte invece l’eroe è vittima innocente della vendetta divina, come Eracle e Fedra. In tutti questi casi però la follia rappresenta sempre il dolore a cui l’uomo è condannato, a causa del suo essere mortale, quando è posto di fronte all’irrazionalità del reale.
Le manifestazioni devastanti degli attacchi di pazzia riportate sulla scena tragica costituiscono un elemento di acceso interesse in un’epoca in cui le prime indagini della scienza medica rivolgevano una particolare attenzione alle attività del cervello e alle sue disfunzioni. Ma quello che in questa tesi ho cercato di dimostrare è il come le somiglianze tra i sintomi che caratterizzano le scene di follia in tragedia e quelli tipici di particolari malattie descritti nei trattati di medicina, come l’epilessia o l’isteria, non siano determinate dalla volontà di rappresentare in forma drammatica la natura patologica degli accessi di follia. Ciò che impedisce infatti alla follia degli eroi tragici di essere definita patologica è la sua codificazione culturale, perché essa è in tutto legata ad una dimensione essenzialmente sacra.
Lo scopo di questo mio lavoro è inoltre quello di illustrare in che modo i tre tragediografi si siano serviti della follia per rappresentare sulla scena l’enorme distanza che intercorre tra umano e divino. L’eroe tragico, quando è colpevole, pecca di hybris nel credere di poter essere autore del proprio destino, nell’opporsi alla divinità o nel non curarsi di essa. Per lui la follia che giunge a sconvolgere la mente è allora un amaro castigo. La punizione divina mette così a nudo l’inesorabile debolezza e precarietà dell’uomo.
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