Tesi etd-05282009-204834 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
FRATINI, DONATELLA
URN
etd-05282009-204834
Titolo
Il Parco di Pinocchio a Collodi: storia e fortuna del complesso artistico e suoi rapporti con la genesi dell'arte ambientale
Settore scientifico disciplinare
ICAR/18
Corso di studi
STORIA DELLE ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO
Relatori
Relatore Caleca, Antonino
Relatore Tosi, Alessandro
Relatore Tosi, Alessandro
Parole chiave
- arte ambientale
- Collodi
- Venturino Venturi
Data inizio appello
01/07/2009
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
01/07/2049
Riassunto
Questo studio ha avuto come fondamentale disegno quello di adempiere ad una disamina dei fatti, ripercorrendo le origini, lo svolgimento e le fortune di un’opera fondamentalmente misconosciuta dell’arte del novecento, appunto il monumento poi parco di Pinocchio a Collodi.
La vicenda deve in larga parte la propria popolarità agli innumerevoli articoli di cronaca apparsi su riviste e quotidiani in un arco cronologico piuttosto ampio, dall’annuncio del concorso nel 1953 all’inaugurazione del Paese dei Balocchi nel 1972. Su tale fama si è andata formando nel corso degli anni un’inveterata mitografia che, a discapito di alcuni interventi chiarificatori, si è andata poi lentamente sedimentando nelle monografie critiche, non più verificata sulla documentazione e sulle testimonianze vive. Così, la storia di questo singolare complesso è rimasta isolata dalle vicende del proprio tempo e i casi individuali dei suoi artisti staccati dai problemi della loro età, sino a perdere progressivamente la stessa connotazione di fenomeno artistico e apparire un evento banalmente privo di qualunque rilevanza storica.
Potrà sembrare inoltre pretestuoso voler iscrivere l’intervento di Venturino Venturi a Collodi nel vertice dei capolavori dell’arte italiana del novecento, ripercorrendo in apparenza la posizione ragghiantiana nei confronti dell’artista espressa in occasione delle personali alla Strozzina nel 1960 e all’Istituto di Storia delle Arti dell’Università di Pisa nel 1961. La scarsa popolarità del Venturi si deve soprattutto alla sua vita volontariamente appartata nella natia Loro Ciuffenna (seguendo l’inclinazione alla separazione ascetica tra artista e mondo affine ai propri paradigmi poetici e umani) che lo ha mantenuto a lungo ignoto a un più largo pubblico e a molta critica d’arte accademica, nonostante egli avesse trovato in vita il riconoscimento della propria statura da parte della migliore cultura, non soltanto fiorentina, e che tale élite egli avesse eletto a ideale platea.
La “sfortuna” di Venturino sembra aver inizio nella stessa Collodi, con la soppressione del suo Pinocchio-gnomone al centro della piazza dei mosaici e con la glorificazione della scultura di Emilio Greco, destinata all’opposto a una fama precoce. L’accoglienza di un’opera d’arte, pur non influendo sui valori artistici che essa potenzialmente possiede, può modificarne il riconoscimento collettivo innescando atteggiamenti pregiudiziali che di rado non toccano anche l’oggettività della critica. Se il corpus dell’artista, eccezionale per quantità e altezza di raggiungimenti, è stato in definitiva accettato nelle sintesi sull’arte del XX secolo, ciò è avvenuto pagando il fio di un giudizio prevalentemente parziale e riduttivo, che lo ha collocato tra i “minori” della provincia impegnati a fondere il linguaggio d’avanguardia con i motivi e le espressioni tradizionali della “toscanità”.
Tanto più che Venturino non si è mai lasciato andare a facili atteggiamenti di protesta e denuncia contro il “sistema” dell’arte ma ha perseguito una propria fede morale, una professione di umiltà e rifiuto di quanto era ai suoi occhi esistenzialmente superfluo con la sicurezza di chi sa di parlare a un’udienza, ma favorendo così tuttavia involontarie e rudimentali assimilazioni.
Le accuse di toscanità e provincialismo che gli sono state talvolta mosse si possono in parte considerare la conseguenza della valutazione di Firenze come luogo vitale per la cultura italiana soltanto fino alla seconda guerra mondiale e della considerazione degli anni postbellici come età di declino artistico e intellettuale della città. Giudizio che nel corso di queste ricerche si è rivelato parziale e sempre più riduttivo rispetto ad una situazione culturale che resta invece in produttivo fermento anche grazie all’innesto di forze giovani sulle ricerche avviate negli anni precedenti; occorre piuttosto precisare che la nuova generazione di artisti si sente immune, pur senza arroccarsi su posizioni passatiste, dal miraggio dell’avanguardia a oltranza che seduce invece artisti e critici di altri città. Se assenza c’è stata nell’arte fiorentina, essa sembra piuttosto imputabile alla critica, che ne ha mantenuto la divulgazione entro il perimetro di un pubblico intellettuale ristretto, non favorendone una più ampia divulgazione.
Accuse che poi, sollevando lo sguardo oltre i tradizionali limiti della disciplina per spostare l’analisi sulle altre forme artistiche del secolo scorso e uscendo temporaneamente dai limiti della critica d’arte pittorica e scultorea, non trovano spazio in settori come ad esempio l’architettura e la letteratura, che hanno misurato i giudizi storici su una scala di valori assai più ampia in cui il filone dell’avanguardia progressiva non è considerato l’unica corrente autentica dell’arte contemporanea.
La storia dell’architettura ha fatto ad esempio propria la critica all’innovazione programmatica delle proposizioni razionaliste implicita nella teorizzazione del concetto di organico da parte di Zevi, che attualizzando espressioni dell’architettura e della critica americana ha aperto la strada all’interpretazione dei “regionalismi”, e delle tendenze aperte a un colloquio con le tradizioni architettoniche, senza cadere nell’inutile aporia tra tradizione e rivoluzione.
Così è stato anche nella storia della letteratura che, dopo aver obliterato in fretta l’esperienza ermetica nel dopoguerra, ha poi riconosciuto il carattere non epigono e anzi la musa profonda, specie se paragonata ad altre vocianti pretese di attualità, di ricerche come quella di Mario Luzi, per fare un nome tra i più noti della generazione di Venturino (gli era maggiore di pochi anni), che hanno tentato di attualizzare nel linguaggio del presente un colto bagaglio di esperienze storiche.
Al levarsi di possibili accuse di toscanocentrismo si potrebbe ribattere che l’origine dello schema riduttivo della nascita, evoluzione e decadenza del concetto di avanguardia è insita proprio nella critica d’arte del secondo dopoguerra, quando, facendo perno sui sentimenti della giovane generazione di artisti che si era allontanata dai linguaggi emersi nel ventennio, avevano prevalso le interpretazioni del novecento italiano in chiave di autarchia e provincialismo culturale, interrottosi solo nel 1945.
A ciò si accompagna da parte di alcuni critici un atteggiamento di militanza che detta le regole del mercato artistico e promuove solo quanto appare in continuità con il concetto di avanguardia; concetto che, sia detto per inciso, viene progressivamente plasmato sulle esperienze informali e sugli esempi di spontaneismo materico-gestuale, di espressioni non mediate di stati d’animo, che rifiutano qualunque appiglio tecnico, culturale e storico sentito come limite, come impurità e inautenticità.
La vicenda deve in larga parte la propria popolarità agli innumerevoli articoli di cronaca apparsi su riviste e quotidiani in un arco cronologico piuttosto ampio, dall’annuncio del concorso nel 1953 all’inaugurazione del Paese dei Balocchi nel 1972. Su tale fama si è andata formando nel corso degli anni un’inveterata mitografia che, a discapito di alcuni interventi chiarificatori, si è andata poi lentamente sedimentando nelle monografie critiche, non più verificata sulla documentazione e sulle testimonianze vive. Così, la storia di questo singolare complesso è rimasta isolata dalle vicende del proprio tempo e i casi individuali dei suoi artisti staccati dai problemi della loro età, sino a perdere progressivamente la stessa connotazione di fenomeno artistico e apparire un evento banalmente privo di qualunque rilevanza storica.
Potrà sembrare inoltre pretestuoso voler iscrivere l’intervento di Venturino Venturi a Collodi nel vertice dei capolavori dell’arte italiana del novecento, ripercorrendo in apparenza la posizione ragghiantiana nei confronti dell’artista espressa in occasione delle personali alla Strozzina nel 1960 e all’Istituto di Storia delle Arti dell’Università di Pisa nel 1961. La scarsa popolarità del Venturi si deve soprattutto alla sua vita volontariamente appartata nella natia Loro Ciuffenna (seguendo l’inclinazione alla separazione ascetica tra artista e mondo affine ai propri paradigmi poetici e umani) che lo ha mantenuto a lungo ignoto a un più largo pubblico e a molta critica d’arte accademica, nonostante egli avesse trovato in vita il riconoscimento della propria statura da parte della migliore cultura, non soltanto fiorentina, e che tale élite egli avesse eletto a ideale platea.
La “sfortuna” di Venturino sembra aver inizio nella stessa Collodi, con la soppressione del suo Pinocchio-gnomone al centro della piazza dei mosaici e con la glorificazione della scultura di Emilio Greco, destinata all’opposto a una fama precoce. L’accoglienza di un’opera d’arte, pur non influendo sui valori artistici che essa potenzialmente possiede, può modificarne il riconoscimento collettivo innescando atteggiamenti pregiudiziali che di rado non toccano anche l’oggettività della critica. Se il corpus dell’artista, eccezionale per quantità e altezza di raggiungimenti, è stato in definitiva accettato nelle sintesi sull’arte del XX secolo, ciò è avvenuto pagando il fio di un giudizio prevalentemente parziale e riduttivo, che lo ha collocato tra i “minori” della provincia impegnati a fondere il linguaggio d’avanguardia con i motivi e le espressioni tradizionali della “toscanità”.
Tanto più che Venturino non si è mai lasciato andare a facili atteggiamenti di protesta e denuncia contro il “sistema” dell’arte ma ha perseguito una propria fede morale, una professione di umiltà e rifiuto di quanto era ai suoi occhi esistenzialmente superfluo con la sicurezza di chi sa di parlare a un’udienza, ma favorendo così tuttavia involontarie e rudimentali assimilazioni.
Le accuse di toscanità e provincialismo che gli sono state talvolta mosse si possono in parte considerare la conseguenza della valutazione di Firenze come luogo vitale per la cultura italiana soltanto fino alla seconda guerra mondiale e della considerazione degli anni postbellici come età di declino artistico e intellettuale della città. Giudizio che nel corso di queste ricerche si è rivelato parziale e sempre più riduttivo rispetto ad una situazione culturale che resta invece in produttivo fermento anche grazie all’innesto di forze giovani sulle ricerche avviate negli anni precedenti; occorre piuttosto precisare che la nuova generazione di artisti si sente immune, pur senza arroccarsi su posizioni passatiste, dal miraggio dell’avanguardia a oltranza che seduce invece artisti e critici di altri città. Se assenza c’è stata nell’arte fiorentina, essa sembra piuttosto imputabile alla critica, che ne ha mantenuto la divulgazione entro il perimetro di un pubblico intellettuale ristretto, non favorendone una più ampia divulgazione.
Accuse che poi, sollevando lo sguardo oltre i tradizionali limiti della disciplina per spostare l’analisi sulle altre forme artistiche del secolo scorso e uscendo temporaneamente dai limiti della critica d’arte pittorica e scultorea, non trovano spazio in settori come ad esempio l’architettura e la letteratura, che hanno misurato i giudizi storici su una scala di valori assai più ampia in cui il filone dell’avanguardia progressiva non è considerato l’unica corrente autentica dell’arte contemporanea.
La storia dell’architettura ha fatto ad esempio propria la critica all’innovazione programmatica delle proposizioni razionaliste implicita nella teorizzazione del concetto di organico da parte di Zevi, che attualizzando espressioni dell’architettura e della critica americana ha aperto la strada all’interpretazione dei “regionalismi”, e delle tendenze aperte a un colloquio con le tradizioni architettoniche, senza cadere nell’inutile aporia tra tradizione e rivoluzione.
Così è stato anche nella storia della letteratura che, dopo aver obliterato in fretta l’esperienza ermetica nel dopoguerra, ha poi riconosciuto il carattere non epigono e anzi la musa profonda, specie se paragonata ad altre vocianti pretese di attualità, di ricerche come quella di Mario Luzi, per fare un nome tra i più noti della generazione di Venturino (gli era maggiore di pochi anni), che hanno tentato di attualizzare nel linguaggio del presente un colto bagaglio di esperienze storiche.
Al levarsi di possibili accuse di toscanocentrismo si potrebbe ribattere che l’origine dello schema riduttivo della nascita, evoluzione e decadenza del concetto di avanguardia è insita proprio nella critica d’arte del secondo dopoguerra, quando, facendo perno sui sentimenti della giovane generazione di artisti che si era allontanata dai linguaggi emersi nel ventennio, avevano prevalso le interpretazioni del novecento italiano in chiave di autarchia e provincialismo culturale, interrottosi solo nel 1945.
A ciò si accompagna da parte di alcuni critici un atteggiamento di militanza che detta le regole del mercato artistico e promuove solo quanto appare in continuità con il concetto di avanguardia; concetto che, sia detto per inciso, viene progressivamente plasmato sulle esperienze informali e sugli esempi di spontaneismo materico-gestuale, di espressioni non mediate di stati d’animo, che rifiutano qualunque appiglio tecnico, culturale e storico sentito come limite, come impurità e inautenticità.
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