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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-05142021-094948


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
ABATE, ANGELICA
URN
etd-05142021-094948
Titolo
Il “mito” del giusto processo nell’esecuzione penale: annotazioni controcorrente sulla giurisdizione rieducativa
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Bresciani, Luca
Parole chiave
  • giurisdizione rieducativa; giusto processo
Data inizio appello
31/05/2021
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
31/05/2091
Riassunto
Nel nostro panorama ordinamentale, il procedimento di sorveglianza, col tempo, è divenuto uno dei settori che ha maggiormente affaticato gli interpreti. In particolar modo, esso si è molto spesso presentato come terreno fertile per funambolismi normativi, altalene interpretative e soluzioni contraddittorie. D’altronde, sin dalla sua creazione come proiezione del finalismo rieducativo operata dalla legge di ordinamento penitenziario del 1975, si è palesata tutta la complessità nell’identificazione della natura più intima di questa singolare giurisdizione. Ed è proprio in risposta a questa estrema difficoltà che il legislatore del 1988 fece una scelta netta, accolta con gran favore dalla dottrina del tempo: l’inserimento del rito nel nuovo codice di procedura penale. In questa operazione, la volontà legislativa è stata chiara: asserire, una volta per tutte, la sua appartenenza alla giurisdizione penale. Tuttavia, se da una parte è da condividere la scelta della sua riconduzione nell’alveo della giurisdizione penale, dall’altra è opportuno chiedersi quali dovrebbero essere i contenuti di questa giurisdizione penale di sorveglianza. Difatti, l’annoso problema è chiarire quale dovrebbe essere l’estensione nonché la qualità delle garanzie nel settore de quo. A tal proposito, il passaggio topografico, in linea con il comune sentire, avrebbe dovuto probabilmente stimolare l’assorbimento degli schemi tradizionalmente legati alla giurisdizione penale – rectius al giudizio di cognizione –. Ed in questa direzione, le stesse letture interpretative si pongono come convinte fautrici di un deciso percorso di assimilazione tra i due giudizi. Un atteggiamento dottrinale oltretutto fomentato dall’ingresso trionfante, nella nostra architettura costituzionale, dei canoni del giusto processo. Ma è davvero appropriato spingere verso questa metabolizzazione e auspicare il trasferimento di garanzie che presentano un evidente substrato cognitivo? I dubbi, a dir la verità, sono diversi. Anzitutto non si può di certo dimenticare che, all’interno della giurisdizione penale, sussista una chiara distinzione tra i procedimenti diretti all’applicazione di una misura latu sensu afflittiva e i procedimenti diretti all’applicazione di una misura latu sensu di favore – a partire dalle misure alternative -. Non sembra paradossale ipotizzare che tale distinzione non abbia solo un valore meramente descrittivo, ma possa suggerire la necessità di soluzioni differenti perché differenti sono i caratteri dei giudizi. Del resto, non è un caso che il recepimento delle logiche cognitive diventi un’operazione più semplice in giudizi in cui si tratta di ricostruire un fatto. A tal proposito, non mancano accertamenti ad appannaggio della magistratura di sorveglianza sicuramente sovrapponibili alla dinamica tipicamente fattuale. Si pensi, su tutti, alla giurisdizione di garanzia attivata per la tutela di una posizione soggettiva del detenuto oppure al procedimento di revoca della misura extramuraria. D’altra parte, sarebbe certamente poco lucida un’analisi che negasse la loro evidente contiguità con la giurisdizione contenziosa e il processo di parti. Ma nel momento in cui il giudice si pone come difensore della rieducazione? Nel momento in cui l’oggetto muta, dal fatto all’uomo? Si tenga sempre a mente che il procedimento di concessione di una misura alternativa ha come obiettivo principale l’accertamento dell’esito positivo di quell’iter rieducativo intrapreso dal soggetto in vinculus. E allora a questo punto, sarebbe più opportuno chiedersi a quali conseguenze dovrebbe condurre l’attenzione sulle sue innegabili specificità. Le sue anomalie e peculiarità consentono di mantenere tutto compatto all’interno delle tradizionali garanzie oppure si può arrivare a scardinare questa convinzione e percorrere strade diverse? Si può modellare un diverso tipo di giurisdizione e, pertanto, pensare di spingersi ad un totale abbandono di questo spasmodico tentativo di assimilazione di certi canoni garantistici nel procedimento di sorveglianza? Si tratterà di verificare se quanto appena detto sia una sensazione o se realmente appare quantomai necessario un deciso cambio di prospettiva. Ciò che sicuramente non si potrà porre in discussione è che qualsiasi analisi, a prescindere dal risultato a cui potrebbe giungere, dovrebbe avere come bussola di riferimento irrinunciabile proprio il principio del finalismo rieducativo ed è ciò che questa trattazione si propone di fare. D’altronde un aspetto appare assodato: siamo dinanzi ad un procedimento che, tanto nell’insieme che nei suoi singoli istituti, ha caratteri tali da mettere a dura prova gli schemi concettuali tradizionali. E allora giunti a questo punto, non resta che vedere, al netto delle sue peculiarità, quali saranno gli approdi di questo tortuoso percorso nello studio della giurisdizione rieducativa e soprattutto nella disamina critica della sua (forzosa?) coabitazione con i canoni aurei del giusto processo.
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