Tesi etd-05142013-001044 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MARIANI, MARTA
URN
etd-05142013-001044
Titolo
Cesare Pavese: la mitopoiesi, l'infanzia, e il primitivo
Dipartimento
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Corso di studi
LINGUA E LETTERATURA ITALIANA
Relatori
relatore Zatti, Sergio
correlatore Prof.ssa Guidotti, Angela
correlatore Prof.ssa Guidotti, Angela
Parole chiave
- Cesare
- infanzia
- mitopoiesi
- Pavese
- primitivo
Data inizio appello
03/06/2013
Consultabilità
Completa
Riassunto
CONCLUSIONI
E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, nel cui giusto moto consiste la nostra vita.
Giambattista Vico, La scienza nuova
Alla luce delle letture pavesiane qui proposte, si vuole tentare ora di sbozzare un quadro conclusivo e complessivo delle evidenze.
Fin dai capitoli d'apertura di questo lavoro, incentrati sui primi esperimenti narrativi di Pavese, si è visto come prendesse forma e spazio nella produzione dello scrittore un interesse simbolico teso all'adombramento di interpretazioni trasversali e antropocentriche del reale. Già nei Racconti più riusciti, infatti, l'uomo viene visto come creatura complessa e difficile in cui convivono pulsioni bestiali e ferine, insieme con ambizioni razionali - vocazioni protese a disciplinare l'elemento selvaggio, indomito della natura. In questo senso, si è potuta facilmente ravvisare la "cifra etnoantropologica" dei romanzi maggiori: della giovinezza e della maturità. In tali romanzi, la dimensione ormai collaudata del realismo simbolico si pone come compromesso stilistico utile per la rappresentazione di una realtà vista come inesausta metafora di se stessa.
Inoltre, dalla narrativa pavesiana è stato possibile rilevare l'ossessivo ricorrere dei temi del sangue, del sesso, dell'imbestiamento, ossia, dell'indiamento nella belva. Si è quindi cercato di comprendere meglio tale pavesiana insistenza sfruttando gli strumenti ed i paradigmi della psicoanalisi post-freudiana. Guardando al contributo di Melanie Klein (quindi, alla sua fondamentale teoria delle posizioni psichiche, al concetto di integrazione della posizione primitiva schizo-paranoide nella più tarda posizione depressiva) e alle teorie di Donald Winnicott (alla sua nozione di spazio e oggetto transizionali, ai concetti di illusione e di realismo simbolico) si è trovato che il modello kleiniano-winnicottiano sia uno strumento psicoanalitico di notevole applicabilità negli ambiti dell'estetica e della letteratura. Tenendo presente che Klein e Winnicott collocano l'ontogenesi infantile dell'onnipotenza, del pensiero magico e della mitopoiesi nello spazio potenziale della relazione oggettuale tra madre e bambino (lo spazio cioè, dell'illusione - nell'adultità esteso a qualsivoglia relazione oggettuale), questo lavoro ha tentato di valorizzare e di reinterpretare le considerazioni pavesiane sul primitivo, sulla «mitopeìa», sulla natura, sul sacro/illecito e sul compromesso stilistico del realismo simbolico.
I risultati di tale rilettura mostrano un Pavese intento ad una problematizzazione esistenzialistica del reale. La realtà (vista junghianamente come sintesi paradossale di qualità contrapposte, pressoché inconciliabili razionalmente), inesausta e indescrivibile per via di logica, sembra trovare nel mito un tertium dialettico. Il mito, infatti - attuandosi nello spazio infantile e primitivo in cui la fantasia viene riabilitata a meccanismo conoscitivo esperienziale - offre la possibilità di conciliare proprio quelle qualità paradossali del reale che il rigore logico-razionale non riesce a vagliare senza perdite, riduzioni o impoverimenti.
Sotto questa luce, Pavese (accanto alle maggiori auctoritates di Vico e Leopardi) sembra all'altezza di riflessioni di portata antropologica. Egli, in alcune preziose pagine di letteratura (teoriche, in Feria d'agosto; mitiche, nei Dialoghi con Leucò; poetiche, ne La luna e i falò) ha espresso sublimi osservazioni esistenzialistiche incentrate su di una natura che, nel suo respiro epocale, viene percepita dall'uomo come "materna" e "matrigna" insieme, genitrice e assassina, sublime e terrifica, fautrice di vita e di morte. Pavese sembra aver intuito - assecondando la vena mistico-partecipativa di Lévy-Bruhl, imboccando la via dell'Erlebnis junghiana - che l'esistenza, vista come miracolo, come una misteriosa tensione non chiarificabile tra la vita e la morte, debba alla tensione del paradosso tanta parte della sua ricchezza.
E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, nel cui giusto moto consiste la nostra vita.
Giambattista Vico, La scienza nuova
Alla luce delle letture pavesiane qui proposte, si vuole tentare ora di sbozzare un quadro conclusivo e complessivo delle evidenze.
Fin dai capitoli d'apertura di questo lavoro, incentrati sui primi esperimenti narrativi di Pavese, si è visto come prendesse forma e spazio nella produzione dello scrittore un interesse simbolico teso all'adombramento di interpretazioni trasversali e antropocentriche del reale. Già nei Racconti più riusciti, infatti, l'uomo viene visto come creatura complessa e difficile in cui convivono pulsioni bestiali e ferine, insieme con ambizioni razionali - vocazioni protese a disciplinare l'elemento selvaggio, indomito della natura. In questo senso, si è potuta facilmente ravvisare la "cifra etnoantropologica" dei romanzi maggiori: della giovinezza e della maturità. In tali romanzi, la dimensione ormai collaudata del realismo simbolico si pone come compromesso stilistico utile per la rappresentazione di una realtà vista come inesausta metafora di se stessa.
Inoltre, dalla narrativa pavesiana è stato possibile rilevare l'ossessivo ricorrere dei temi del sangue, del sesso, dell'imbestiamento, ossia, dell'indiamento nella belva. Si è quindi cercato di comprendere meglio tale pavesiana insistenza sfruttando gli strumenti ed i paradigmi della psicoanalisi post-freudiana. Guardando al contributo di Melanie Klein (quindi, alla sua fondamentale teoria delle posizioni psichiche, al concetto di integrazione della posizione primitiva schizo-paranoide nella più tarda posizione depressiva) e alle teorie di Donald Winnicott (alla sua nozione di spazio e oggetto transizionali, ai concetti di illusione e di realismo simbolico) si è trovato che il modello kleiniano-winnicottiano sia uno strumento psicoanalitico di notevole applicabilità negli ambiti dell'estetica e della letteratura. Tenendo presente che Klein e Winnicott collocano l'ontogenesi infantile dell'onnipotenza, del pensiero magico e della mitopoiesi nello spazio potenziale della relazione oggettuale tra madre e bambino (lo spazio cioè, dell'illusione - nell'adultità esteso a qualsivoglia relazione oggettuale), questo lavoro ha tentato di valorizzare e di reinterpretare le considerazioni pavesiane sul primitivo, sulla «mitopeìa», sulla natura, sul sacro/illecito e sul compromesso stilistico del realismo simbolico.
I risultati di tale rilettura mostrano un Pavese intento ad una problematizzazione esistenzialistica del reale. La realtà (vista junghianamente come sintesi paradossale di qualità contrapposte, pressoché inconciliabili razionalmente), inesausta e indescrivibile per via di logica, sembra trovare nel mito un tertium dialettico. Il mito, infatti - attuandosi nello spazio infantile e primitivo in cui la fantasia viene riabilitata a meccanismo conoscitivo esperienziale - offre la possibilità di conciliare proprio quelle qualità paradossali del reale che il rigore logico-razionale non riesce a vagliare senza perdite, riduzioni o impoverimenti.
Sotto questa luce, Pavese (accanto alle maggiori auctoritates di Vico e Leopardi) sembra all'altezza di riflessioni di portata antropologica. Egli, in alcune preziose pagine di letteratura (teoriche, in Feria d'agosto; mitiche, nei Dialoghi con Leucò; poetiche, ne La luna e i falò) ha espresso sublimi osservazioni esistenzialistiche incentrate su di una natura che, nel suo respiro epocale, viene percepita dall'uomo come "materna" e "matrigna" insieme, genitrice e assassina, sublime e terrifica, fautrice di vita e di morte. Pavese sembra aver intuito - assecondando la vena mistico-partecipativa di Lévy-Bruhl, imboccando la via dell'Erlebnis junghiana - che l'esistenza, vista come miracolo, come una misteriosa tensione non chiarificabile tra la vita e la morte, debba alla tensione del paradosso tanta parte della sua ricchezza.
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