Tesi etd-05112012-124356 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
RISUCCI, MARZIA
URN
etd-05112012-124356
Titolo
Migrazioni e cambiamenti climatici: il problema aperto dei profughi ambientali
Dipartimento
INTERFACOLTA'
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Della Pina, Marco
controrelatore Prof.ssa Vergara, Mariarosaria
controrelatore Prof.ssa Vergara, Mariarosaria
Parole chiave
- ambiente
- bangladesh
- clima
- fuga
- legislazione
- profugo
- rifugiao
Data inizio appello
07/06/2012
Consultabilità
Completa
Riassunto
Uno dei problemi maggiori nello studio degli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni umane è senza dubbio il carattere fortemente multidisciplinare, che richiede un’analisi del fenomeno che incroci competenze e conoscenze che appartengono a diversi campi del sapere, come le scienze ambientali, per quanto riguarda i fattori scatenanti e le scienze sociali e giuridiche, per quanto riguarda le sue conseguenze.
Alla luce di questi motivi il tema dei profughi climatici rappresenta un campo di ricerca interessante e ricco di molti spunti di riflessione, ma allo stesso tempo un’analisi complessa e non priva di una molteplicità di problemi epistemologici. Le principali difficoltà risiedono nella scarsità di documentazione e di letteratura sull’argomento. Nonostante non manchino gli studi ed i documenti prodotti dalle principali organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente e migrazioni internazionali in tutte le forme e varianti, il mondo scientifico, e in modo particolare quello italiano, non sembra aver ancora preso seriamente in considerazione il tema delle migrazioni internazionali causate dal mutamento delle condizioni climatiche, sia per cause naturali che per il degrado dell’ambiente prodotto dall’inquinamento e da un uso distorto delle risorse terrestri.
La complessità estrema del fenomeno pone una serie di interrogativi riguardo all’individuazione dei soggetti che possono essere ricondotti alla categoria suddetta e in merito alla possibilità di riconoscere una qualche forma di tutela giuridica internazionale a questa categoria di persone, per le quali, sul piano strettamente giuridico è ancora improprio l’utilizzo del termine ‘rifugiati’ per identificarli. Ad aumentare le difficoltà già elencate vi è poi la scarsa attenzione dimostrata sull’argomento dai paesi economicamente sviluppati in genere, ed in particolare i principali inquinatori, e la sempre crescente difficoltà da parte dell’occidente a rispondere ai problemi generati dai movimenti forzati di massa. Il mancato riconoscimento internazionale dei profughi climatici complica ulteriormente la questione. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Il termine ‘rifugiato ambientale’, accettato orami a livello internazionale nel linguaggio comune, appare quindi improprio alla luce di questa considerazione e all’interno della comunità scientifica mondiale non è stato ancora sciolto il nodo di una definizione più propria soprattutto per la difficoltà di stabilire un legame diretto tra fattori ambientali e diversi casi di migrazioni internazionali massive.
D’altra parte il termine “refugee” ha antica origine e diffusa circolazione: il fatto che dal 1951 implichi uno status non crea monopoli linguistici. Si può convenzionalmente accettare il suo utilizzo disciplinare critico e il suo utilizzo istituzionale limitato allo status connesso. Il suo significato resta sinonimo di “displaced”, migrante forzato o costretto, con le sole specificazioni istituzionali dell’aver superato il confine e delle costrizioni previste dalla Convenzione nel 1951. L’aggettivo “environmental” non aiuta la definizione delle migrazioni e soprattutto non aiuta a chiarire la loro dimensione forzata. Rifugiato si, ma non “ambientale”. La difficoltà forse sta proprio nel sostantivo, ambiente, che ha troppi usi e sinonimi nell’insostenibile sviluppo in cui siamo immersi. Le ricerche multidisciplinari sul fenomeno migratorio devono molto rivalutare la dimensione “ambientale” delle migrazioni. Le espressioni “environmental refugee” o “environmental migrants” o “environmental displaced people” possono essere utilizzate per sottolineare o distinguere la spinta a migrare connessa alle varie forme di inquinamento e di degrado ambientale, per le quali il riconoscimento scientifico della costrizione non è certo e il margine di libera scelta dei momenti e delle modalità è parzialmente maggiore. L’espressione “displaced people” diventa quella descrittiva di ogni migrazione forzata, qualunque sia lo Stato entro cui avviene o quanti e quali che siano gli Stati interessati. L’aggettivo “environmental” può invece risultare ridondante o superfluo, non classifica; meglio chiarire quale contesto geografico o climatico e quale specifica contestuale ragione socio ambientale. Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e all’assistenza di profughi climatici.
Sulla via del riconoscimento internazionale dei rifugiati climatici si frappone inoltre il timore di compromettere la sensibilità che già è stata acquisita nei confronti dei rifugiati tradizionali e il timore da parte di governi ed istituzioni di trovarsi in difficoltà nel mettere in atto misure di protezione e di reinserimento dei rifugiati provenienti da zone degradate e dovendo provvedere al loro sostentamento economico. Già nel 1999, con la pubblicazione del libro Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena , Norman Myers, professore di economia ambientale e consulente per le Nazioni Unite, metteva il luce le difficoltà incontrate dalla comunità scientifica mondiale sulla via di una definizione sia del fenomeno, sia del livello di tutela giuridica internazionale che dovrebbe essere riservata a questa categoria di persone. In particolare, per quanto riguarda la definizione, egli pone l’accento sulla necessità di soffermarsi sulla differenza tra “ persone in condizioni modeste ma tollerabili in patria che cercano altrove la possibilità di una vita in condizioni economiche migliori” e quelle persone che migrano perché sono “spinte da fattori di base del degrado ambientale” condizione che appare come la caratteristica principale per definire il concetto di rifugiato ambientale. Sono stati proposti numerosi termini alternativi per classificare i rifugiati ambientali, tra cui “persone sfollate per motivi ambientali” e “emigranti costretti da motivi ambientali”, che pur essendo precisi risultano assai meno efficaci e, in effetti, sono quasi ridondanti. Altri suggerimenti spaziano da “eco-migranti” e “eco-evacuati” a “eco-vittime”; però i primi due termini non connotano l’idea di migrazione coatta, mentre l’ultimo non suggerisce affatto l’emigrazione. Ad ogni modo queste persone, comunque le si voglia designare, sono un’ampia componente fra tutti gli altri rifugiati e, entro la prossima metà del secolo, potrebbero addirittura superare di varie volte il numero degli altri rifugiati. Myers propone quindi la seguente definizione: “I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta”. Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico dei sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da errati o mancati interventi dell’uomo. Possono concorrere fattori aggiuntivi che inaspriscono i problemi ambientali e che spesso, in parte, derivano da problemi ambientali: crescita demografica, povertà diffusa, fame e malattie pandemiche. Altri fattori ancora comprendono carenze delle politiche di sviluppo e dei sistemi di governo che ‘marginalizzano’ le persone in senso economico, politico, sociale e legale.
In determinate circostanze, alcuni fattori possono fungere da ‘scatenanti immediati’ della migrazione, per esempio colossali incidenti industriali e costruzioni di dighe smisurate. Molti di questi fattori possono agire in concomitanza, spesso con effetti cumulativi. Di fronte ai problemi ambientali, le persone coinvolte ritengono di non avere alternative alla ricerca di sostentamento altrove, sia all’interno del loro paese che in altri paesi, sia su base semipermanente che su base permanente.
Non c’è alcun motivo di pensare che chi fugge da condizioni di privazione estrema in conseguenza di collassi ambientali su vasta scala abbia una più attenuata percezione della propria marginalità sociale e una disperazione minore rispetto a chi fugge da oppressioni politiche o religiose. Non sta forse anch’egli cercando la stessa forma di sicurezza nel senso più definitivo del termine, ossia una sicurezza in grado di farlo sentire nuovamente accettato dalla società, in qualche luogo? Per decenni la scena è stata dominata dalle categorie di rifugiati che definiamo “convenzionali”, ma ora è giunto il momento di abbandonare formule e definizioni che si rivelano troppo restrittive. Di fronte ai mutamenti che avvengono nel mondo reale non dovrebbero cambiare allo stesso modo anche le nostre categorizzazioni? Alla fine di questo primo approccio a ciò che si connota come un vero e proprio esodo ambientale, siamo già in grado di formulare una considerazione fondamentale: è necessario agire sui sintomi, prima che il problema inizi a causare effetti collaterali cui sarà tremendamente più difficile porre rimedio. Di diversa opinione appare invece il rapporto sul tema pubblicato dall’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che sottolinea l’importanza di non utilizzare il termine rifugiati per indicare categorie di persone diverse da quelle previste nella Convenzione di Ginevra.
A livello italiano, si è parlato del fenomeno in relazione della mancata tutela giuridica di coloro che sono costretti ad emigrare per questo genere di cause e possono essere quindi oggetto di provvedimenti di espulsione, e nel caso dell’Italia del possibile trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione che precedono il rimpatrio. E’ certo che storicamente vi è sempre stata una qualche correlazione tra cambiamenti climatici, disastri naturali, modificazioni del clima e flussi migratori, ma molti sono convinti che il deterioramento dell’ambiente prodotto dal cambiamento climatico porrà negli anni a venire il tema del ‘rifugiato’ climatico al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e degli organismi internazionali. Questo è un elemento di novità che in relazione alla rapidità con la quale si sta evolvendo il processo di cambiamento climatico, rende un fenomeno millenario ricco di spunti di ricerca, di riflessione e di azione mirata.
Le vittime delle conseguenze del surriscaldamento sono una categoria di migranti ancora sconosciuta ai più, priva di uno statuto ufficiale, ma destinata a crescere rapidamente. E a pagarne lo scotto ancora una volta sono i paesi più poveri ed in primis le zone costiere e le isole del Sud-est asiatico, in particolare il Bangladesh come vedremo, così come le aree in via di desertificazione dell’Africa sub sahariana. Senza più casa, costretti ad abbandonare la propria terra perché a rischio o perché modificata nella struttura e composizione, stravolta dai processi di desertificazione, stress idrico o innalzamento del livello del mare, e in attesa di futuro incerto fatto di piani di trasferimento e re-insediamento. La nuova ferita apertasi sulla pelle di questo millennio allarma e fa discutere, per poi scivolare nuovamente nel dimenticatoio mediatico, assecondato da un’opinione pubblica oramai sempre più immune al dramma del disastro.
Si vuole quindi invitare alla presa di coscienza e alla riflessione non solo sul disastro ecologico irrefrenabile ma anche sulle conseguenze che lo stesso sta provocando e quindi su possibili riconoscimenti e nuove possibilità di sopravvivenza per queste persone al fine di permettere loro una vita sicura e dignitosa.
Alla luce di questi motivi il tema dei profughi climatici rappresenta un campo di ricerca interessante e ricco di molti spunti di riflessione, ma allo stesso tempo un’analisi complessa e non priva di una molteplicità di problemi epistemologici. Le principali difficoltà risiedono nella scarsità di documentazione e di letteratura sull’argomento. Nonostante non manchino gli studi ed i documenti prodotti dalle principali organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente e migrazioni internazionali in tutte le forme e varianti, il mondo scientifico, e in modo particolare quello italiano, non sembra aver ancora preso seriamente in considerazione il tema delle migrazioni internazionali causate dal mutamento delle condizioni climatiche, sia per cause naturali che per il degrado dell’ambiente prodotto dall’inquinamento e da un uso distorto delle risorse terrestri.
La complessità estrema del fenomeno pone una serie di interrogativi riguardo all’individuazione dei soggetti che possono essere ricondotti alla categoria suddetta e in merito alla possibilità di riconoscere una qualche forma di tutela giuridica internazionale a questa categoria di persone, per le quali, sul piano strettamente giuridico è ancora improprio l’utilizzo del termine ‘rifugiati’ per identificarli. Ad aumentare le difficoltà già elencate vi è poi la scarsa attenzione dimostrata sull’argomento dai paesi economicamente sviluppati in genere, ed in particolare i principali inquinatori, e la sempre crescente difficoltà da parte dell’occidente a rispondere ai problemi generati dai movimenti forzati di massa. Il mancato riconoscimento internazionale dei profughi climatici complica ulteriormente la questione. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Il termine ‘rifugiato ambientale’, accettato orami a livello internazionale nel linguaggio comune, appare quindi improprio alla luce di questa considerazione e all’interno della comunità scientifica mondiale non è stato ancora sciolto il nodo di una definizione più propria soprattutto per la difficoltà di stabilire un legame diretto tra fattori ambientali e diversi casi di migrazioni internazionali massive.
D’altra parte il termine “refugee” ha antica origine e diffusa circolazione: il fatto che dal 1951 implichi uno status non crea monopoli linguistici. Si può convenzionalmente accettare il suo utilizzo disciplinare critico e il suo utilizzo istituzionale limitato allo status connesso. Il suo significato resta sinonimo di “displaced”, migrante forzato o costretto, con le sole specificazioni istituzionali dell’aver superato il confine e delle costrizioni previste dalla Convenzione nel 1951. L’aggettivo “environmental” non aiuta la definizione delle migrazioni e soprattutto non aiuta a chiarire la loro dimensione forzata. Rifugiato si, ma non “ambientale”. La difficoltà forse sta proprio nel sostantivo, ambiente, che ha troppi usi e sinonimi nell’insostenibile sviluppo in cui siamo immersi. Le ricerche multidisciplinari sul fenomeno migratorio devono molto rivalutare la dimensione “ambientale” delle migrazioni. Le espressioni “environmental refugee” o “environmental migrants” o “environmental displaced people” possono essere utilizzate per sottolineare o distinguere la spinta a migrare connessa alle varie forme di inquinamento e di degrado ambientale, per le quali il riconoscimento scientifico della costrizione non è certo e il margine di libera scelta dei momenti e delle modalità è parzialmente maggiore. L’espressione “displaced people” diventa quella descrittiva di ogni migrazione forzata, qualunque sia lo Stato entro cui avviene o quanti e quali che siano gli Stati interessati. L’aggettivo “environmental” può invece risultare ridondante o superfluo, non classifica; meglio chiarire quale contesto geografico o climatico e quale specifica contestuale ragione socio ambientale. Serve uno strumento legale ONU dedicato al riconoscimento, alla prevenzione mirata, alla protezione e all’assistenza di profughi climatici.
Sulla via del riconoscimento internazionale dei rifugiati climatici si frappone inoltre il timore di compromettere la sensibilità che già è stata acquisita nei confronti dei rifugiati tradizionali e il timore da parte di governi ed istituzioni di trovarsi in difficoltà nel mettere in atto misure di protezione e di reinserimento dei rifugiati provenienti da zone degradate e dovendo provvedere al loro sostentamento economico. Già nel 1999, con la pubblicazione del libro Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena , Norman Myers, professore di economia ambientale e consulente per le Nazioni Unite, metteva il luce le difficoltà incontrate dalla comunità scientifica mondiale sulla via di una definizione sia del fenomeno, sia del livello di tutela giuridica internazionale che dovrebbe essere riservata a questa categoria di persone. In particolare, per quanto riguarda la definizione, egli pone l’accento sulla necessità di soffermarsi sulla differenza tra “ persone in condizioni modeste ma tollerabili in patria che cercano altrove la possibilità di una vita in condizioni economiche migliori” e quelle persone che migrano perché sono “spinte da fattori di base del degrado ambientale” condizione che appare come la caratteristica principale per definire il concetto di rifugiato ambientale. Sono stati proposti numerosi termini alternativi per classificare i rifugiati ambientali, tra cui “persone sfollate per motivi ambientali” e “emigranti costretti da motivi ambientali”, che pur essendo precisi risultano assai meno efficaci e, in effetti, sono quasi ridondanti. Altri suggerimenti spaziano da “eco-migranti” e “eco-evacuati” a “eco-vittime”; però i primi due termini non connotano l’idea di migrazione coatta, mentre l’ultimo non suggerisce affatto l’emigrazione. Ad ogni modo queste persone, comunque le si voglia designare, sono un’ampia componente fra tutti gli altri rifugiati e, entro la prossima metà del secolo, potrebbero addirittura superare di varie volte il numero degli altri rifugiati. Myers propone quindi la seguente definizione: “I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta”. Questi fattori comprendono siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo e altre forme di degrado del suolo; deficit di risorse come, ad esempio, quelle idriche; declino di habitat urbani a causa di massiccio sovraccarico dei sistemi; problemi emergenti quali il cambiamento climatico, specialmente il riscaldamento globale; disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni, e anche terremoti, con impatti aggravati da errati o mancati interventi dell’uomo. Possono concorrere fattori aggiuntivi che inaspriscono i problemi ambientali e che spesso, in parte, derivano da problemi ambientali: crescita demografica, povertà diffusa, fame e malattie pandemiche. Altri fattori ancora comprendono carenze delle politiche di sviluppo e dei sistemi di governo che ‘marginalizzano’ le persone in senso economico, politico, sociale e legale.
In determinate circostanze, alcuni fattori possono fungere da ‘scatenanti immediati’ della migrazione, per esempio colossali incidenti industriali e costruzioni di dighe smisurate. Molti di questi fattori possono agire in concomitanza, spesso con effetti cumulativi. Di fronte ai problemi ambientali, le persone coinvolte ritengono di non avere alternative alla ricerca di sostentamento altrove, sia all’interno del loro paese che in altri paesi, sia su base semipermanente che su base permanente.
Non c’è alcun motivo di pensare che chi fugge da condizioni di privazione estrema in conseguenza di collassi ambientali su vasta scala abbia una più attenuata percezione della propria marginalità sociale e una disperazione minore rispetto a chi fugge da oppressioni politiche o religiose. Non sta forse anch’egli cercando la stessa forma di sicurezza nel senso più definitivo del termine, ossia una sicurezza in grado di farlo sentire nuovamente accettato dalla società, in qualche luogo? Per decenni la scena è stata dominata dalle categorie di rifugiati che definiamo “convenzionali”, ma ora è giunto il momento di abbandonare formule e definizioni che si rivelano troppo restrittive. Di fronte ai mutamenti che avvengono nel mondo reale non dovrebbero cambiare allo stesso modo anche le nostre categorizzazioni? Alla fine di questo primo approccio a ciò che si connota come un vero e proprio esodo ambientale, siamo già in grado di formulare una considerazione fondamentale: è necessario agire sui sintomi, prima che il problema inizi a causare effetti collaterali cui sarà tremendamente più difficile porre rimedio. Di diversa opinione appare invece il rapporto sul tema pubblicato dall’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che sottolinea l’importanza di non utilizzare il termine rifugiati per indicare categorie di persone diverse da quelle previste nella Convenzione di Ginevra.
A livello italiano, si è parlato del fenomeno in relazione della mancata tutela giuridica di coloro che sono costretti ad emigrare per questo genere di cause e possono essere quindi oggetto di provvedimenti di espulsione, e nel caso dell’Italia del possibile trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione che precedono il rimpatrio. E’ certo che storicamente vi è sempre stata una qualche correlazione tra cambiamenti climatici, disastri naturali, modificazioni del clima e flussi migratori, ma molti sono convinti che il deterioramento dell’ambiente prodotto dal cambiamento climatico porrà negli anni a venire il tema del ‘rifugiato’ climatico al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e degli organismi internazionali. Questo è un elemento di novità che in relazione alla rapidità con la quale si sta evolvendo il processo di cambiamento climatico, rende un fenomeno millenario ricco di spunti di ricerca, di riflessione e di azione mirata.
Le vittime delle conseguenze del surriscaldamento sono una categoria di migranti ancora sconosciuta ai più, priva di uno statuto ufficiale, ma destinata a crescere rapidamente. E a pagarne lo scotto ancora una volta sono i paesi più poveri ed in primis le zone costiere e le isole del Sud-est asiatico, in particolare il Bangladesh come vedremo, così come le aree in via di desertificazione dell’Africa sub sahariana. Senza più casa, costretti ad abbandonare la propria terra perché a rischio o perché modificata nella struttura e composizione, stravolta dai processi di desertificazione, stress idrico o innalzamento del livello del mare, e in attesa di futuro incerto fatto di piani di trasferimento e re-insediamento. La nuova ferita apertasi sulla pelle di questo millennio allarma e fa discutere, per poi scivolare nuovamente nel dimenticatoio mediatico, assecondato da un’opinione pubblica oramai sempre più immune al dramma del disastro.
Si vuole quindi invitare alla presa di coscienza e alla riflessione non solo sul disastro ecologico irrefrenabile ma anche sulle conseguenze che lo stesso sta provocando e quindi su possibili riconoscimenti e nuove possibilità di sopravvivenza per queste persone al fine di permettere loro una vita sicura e dignitosa.
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