Tesi etd-05102013-125104 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
DONATI, FRANCESCA
Indirizzo email
fran.88@libero.it
URN
etd-05102013-125104
Titolo
"Stello" di Alfred de Vigny: tra innovazione e continuità.
Traduzione e commento linguistico-letterario
Dipartimento
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Corso di studi
TRADUZIONE LETTERARIA E SAGGISTICA
Relatori
relatore Prof.ssa De Jacquelot Du Boisrouvray, Hélène Marie
Parole chiave
- Alfred de Vigny
- critica letteraria
- Stello
- Traduzione
Data inizio appello
03/06/2013
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
03/06/2053
Riassunto
Stello è il secondo romanzo di Alfred de Vigny, poeta, drammaturgo e romanziere francese del periodo romantico. Definire quest’opera ‘romanzo’ è in parte riduttivo. Essa è infatti, sì, un romanzo, ma anche molto di più: dialogo filosofico, saggio psicanalitico, riflessione sulla storia e la società. Pubblicata nel 1832, sei anni dopo Cinq-Mars, romanzo storico per il quale Vigny era stato acclamato come il nuovo Walter Scott francese, Stello si fece notare immediatamente per la sua eccentricità e, anche per questo motivo, venne accolto freddamente dal pubblico dell’epoca. L’opera lasciò spiazzati i lettori, fu molto discussa e venne presto messa da parte dalla critica. Dopo un glorioso inizio, la carriera di romanziere di Vigny iniziò quindi il suo declino: anche i due romanzi successivi (Servitude et Grandeur militaire e Daphné, incompiuto e pubblicato postumo) non ebbero grande successo.
In questo lavoro di ricerca non ho intenzione di prendere in esame i motivi per cui il romanzo non raggiunse il successo sperato, quanto piuttosto di soffermarmi sulle caratteristiche che lo rendono un’opera interessante e ricca di spunti innovativi, sia sul piano formale che su quello tematico.
Stello può essere definito un’ ‘opera aperta’. Formata da un dialogo in cui sono presentati tre racconti diversi, venne pubblicata infatti per parti, rimaneggiata e modificata prima della pubblicazione completa e definitiva avvenuta, come si è detto, nel 1832 presso l’editore Gosselin. Il primo racconto, Histoire d’une puce enragée, era apparso sulla Revue des Deux Mondes il 15 ottobre 1831; il secondo, Chatterton, il 1° dicembre dello stesso anno; il terzo, Une histoire de la Terreur, il 1° aprile del 1832. La caratteristica di essere un’opera aperta è legata indissolubilmente alla struttura e alla natura intrinseca del testo che, come detto, si presenta sotto forma di tre racconti incastonati in un dialogo tra due personaggi: Stello, poeta affetto da spleen, e il misterioso Dottor Noir, psicanalista ante litteram, che ha come missione quella di guarire il suo paziente dalla patologia che lo affligge e che paralizza la sua ispirazione.
Il dottore decide di operare attraverso uno strumento del tutto particolare: la narrazione. Infatti il medico racconta al poeta tre storie, ambientate in tre epoche e ambiti politici e sociali differenti (ancien régime e monarchia assoluta, governo borghese e monarchia parlamentare, governo repubblicano e Terrore), che vedono come protagonisti tre poeti diversi, con i quali Stello può identificarsi: Nicolas-Joseph-Laurent Gilbert, Thomas Chatterton e André Chénier. In tutti e tre i casi, i poeti incorrono in un destino di sfortuna e morte a causa dell’atteggiamento ostile che i rappresentanti del potere hanno nei loro confronti. L’esito tragico delle tre storie ha come obiettivo quello di scuotere il protagonista dal suo male interiore, causato dalla crisi legata al suo ruolo all’interno di una società che egli sente ostile poiché essa ripudia la poesia e l’arte. Per il dottore, incarnazione della razionalità e della rassegnazione che si contrappone all’emotività di Stello, non ci sono dubbi: il poeta, ormai ‘paria’ della società e incompatibile con qualsiasi sistema di potere, deve ritirarsi dalle questioni civili e politiche e rifugiarsi in una ‘solitudine santa̕. Alla fine della consultazione, il medico fa delle prescrizioni precise al paziente, con tanto di ricetta, ma il narratore puntualizza che non ci è dato sapere se verranno seguite: la lotta tra razionalità e sentimento è destinata a restare aperta.
Il rapporto col Potere e il ruolo del poeta e dell’artista all’interno della società sono, evidentemente, i temi chiave di questa opera. Tematiche di per sé note al lettore che conosca la letteratura successiva, che le declina in modi molteplici ma, se pensiamo che si tratta di un’opera scritta tra il 1831 e il 1832, il nostro punto di vista cambia radicalmente. È interessante in particolare il modo in cui viene trattato il rapporto del poeta con il resto del mondo: questi, infatti, viene presentato come un emarginato dalla ‘Moltitudine’, come un escluso, un eterno incompreso che si trova a combattere (e spesso a esserne vinto) con un mondo arido e sterile che non riconosce l’importanza dell’immaginazione e della creatività artistica. Tutti questi concetti, in particolare l’emarginazione del poeta e la contrapposizione tra lui e la foule, saranno fatti propri da Baudelaire, il grande innovatore della poesia francese e non solo, e, successivamente, da poeti come Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Si può considerare dunque Vigny un precursore di Baudelaire e della corrente decadentista? Nella mia analisi cercherò anche di rispondere a questa domanda.
Se il ruolo del poeta e il suo rapporto con le forze di potere sono senz’altro il tema principale dell’opera, gli spunti di innovazione non si esauriscono con essi, né sul piano tematico né su quello formale. Per quanto riguarda i contenuti, molto interessante è l’introduzione di un approccio medico che ha dei tratti in comune con la psicanalisi, con almeno sessant’anni di anticipo. A questo è legata la situazione di malinconia e disagio, caratteristica degli scrittori romantici (basti pensare a Chateaubriand, Musset, Constant). Per descrivere la situazione in cui versa il poeta, fin dall’inizio della narrazione Vigny farà suo il termine reso celebre da Baudelaire: spleen. Il tema del disagio psicologico ha una portata assolutamente innovativa per come viene trattato. Vigny si distacca, non senza ironia e sarcasmo, dalle dottrine mediche della frenologia in voga in quel periodo, e opta per un approccio del tutto diverso: il dottore pensa di poter fare stare meglio il suo paziente attraverso il racconto. Il potere salvifico della parola è un tema antichissimo della letteratura mondiale, che trova le sue origini in un’opera come Le mille e una notte, dove la bella Sherazade lotta per salvare la propria vita raccontando una serie infinita di storie al feroce re persiano Shahriyar. In Stello, però, è la vita del paziente a dover essere salvata: egli, grazie all’ascolto delle tre storie, interrotte spesso dai dialoghi col Dottor Noir, riesce a uscire dalla penosa situazione in cui si trova, almeno per il momento.
Il mio commento all’opera si divide in due parti principali, più una terza in cui colloco la mia traduzione.
Nella prima parte prendo in esame il romanzo dal punto di vista critico-letterario, analizzandone i temi e i contenuti, che ho in parte anticipato in questa Introduzione. Parlerò, inoltre, dell’aspetto formale e del genere del romanzo, soffermandomi sulle caratteristiche più originali e interessanti.
Nella seconda parte, dopo avere introdotto e illustrato le caratteristiche letterarie dell’opera e dell’autore, mi dedico all’analisi linguistica e alle questioni legate alle scienze della traduzione. Dopo avere individuato il tipo di testo ed esposto le mie idee riguardo alla traduzione e l’approccio scelto, fornirò una comparazione con le traduzioni precedenti. Come accennato, il romanzo non ha avuto molta risonanza e sono pertanto riuscita a rintracciare solo due traduzioni dell’opera, escludendo quelle italiane: quella in inglese di Irving Massey (McGill University Press, 1963) e quella spagnola, molto più recente, di Alberto Torrego Salcedo (Editorial Gredos, 2004). Il fatto che ci sia una traduzione del 2004 appare un dato interessante, che suggerisce l’idea di un rinnovato interesse nei confronti di questa opera. Nel quadro di una generale scarsezza di traduzioni, è proprio l’italiano ad annoverarne il maggior numero: Stello, infatti, è stato tradotto cinque volte: nel 1835, nel 1918, nel 1919, nel 1931 e nel 1950. La traduzione più recente è, appunto, quella pubblicata nel 1950 da Rizzoli, ad opera di Felice Filippini, scrittore, pittore e traduttore svizzero-italiano, che per la stessa casa editrice di Vigny ha tradotto anche Servitude et Grandeur militaire. Fornisco dunque una comparazione con le versioni precedenti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto lessicale, mettendo così in luce sia gli aspetti che rendono queste traduzioni ormai inadeguate per il lettore odierno, sia le differenze nelle scelte impiegate e nell’uso dell’italiano.
Dopo questa analisi, propongo le principali questioni traduttive in cui mi sono imbattuta, con esempi sia morfosintattici che lessicali, prendendo così in analisi anche alcuni dei principali problemi che si pongono in una traduzione dal francese in italiano. Mi occupo, inoltre, di questioni di pragmatica e di punteggiatura. Dopodiché, illustro l’applicazione di alcuni procedimenti linguistici applicati nel corso del mio lavoro.
Infine, nella terza parte, presento la traduzione di diciannove capitoli del romanzo (I, II, III, IV, VII, IX, X, XIII, XIV, XV, XVII, XX, XXXIV, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLII), scelti tra i più interessanti e significativi.
In questo lavoro di ricerca non ho intenzione di prendere in esame i motivi per cui il romanzo non raggiunse il successo sperato, quanto piuttosto di soffermarmi sulle caratteristiche che lo rendono un’opera interessante e ricca di spunti innovativi, sia sul piano formale che su quello tematico.
Stello può essere definito un’ ‘opera aperta’. Formata da un dialogo in cui sono presentati tre racconti diversi, venne pubblicata infatti per parti, rimaneggiata e modificata prima della pubblicazione completa e definitiva avvenuta, come si è detto, nel 1832 presso l’editore Gosselin. Il primo racconto, Histoire d’une puce enragée, era apparso sulla Revue des Deux Mondes il 15 ottobre 1831; il secondo, Chatterton, il 1° dicembre dello stesso anno; il terzo, Une histoire de la Terreur, il 1° aprile del 1832. La caratteristica di essere un’opera aperta è legata indissolubilmente alla struttura e alla natura intrinseca del testo che, come detto, si presenta sotto forma di tre racconti incastonati in un dialogo tra due personaggi: Stello, poeta affetto da spleen, e il misterioso Dottor Noir, psicanalista ante litteram, che ha come missione quella di guarire il suo paziente dalla patologia che lo affligge e che paralizza la sua ispirazione.
Il dottore decide di operare attraverso uno strumento del tutto particolare: la narrazione. Infatti il medico racconta al poeta tre storie, ambientate in tre epoche e ambiti politici e sociali differenti (ancien régime e monarchia assoluta, governo borghese e monarchia parlamentare, governo repubblicano e Terrore), che vedono come protagonisti tre poeti diversi, con i quali Stello può identificarsi: Nicolas-Joseph-Laurent Gilbert, Thomas Chatterton e André Chénier. In tutti e tre i casi, i poeti incorrono in un destino di sfortuna e morte a causa dell’atteggiamento ostile che i rappresentanti del potere hanno nei loro confronti. L’esito tragico delle tre storie ha come obiettivo quello di scuotere il protagonista dal suo male interiore, causato dalla crisi legata al suo ruolo all’interno di una società che egli sente ostile poiché essa ripudia la poesia e l’arte. Per il dottore, incarnazione della razionalità e della rassegnazione che si contrappone all’emotività di Stello, non ci sono dubbi: il poeta, ormai ‘paria’ della società e incompatibile con qualsiasi sistema di potere, deve ritirarsi dalle questioni civili e politiche e rifugiarsi in una ‘solitudine santa̕. Alla fine della consultazione, il medico fa delle prescrizioni precise al paziente, con tanto di ricetta, ma il narratore puntualizza che non ci è dato sapere se verranno seguite: la lotta tra razionalità e sentimento è destinata a restare aperta.
Il rapporto col Potere e il ruolo del poeta e dell’artista all’interno della società sono, evidentemente, i temi chiave di questa opera. Tematiche di per sé note al lettore che conosca la letteratura successiva, che le declina in modi molteplici ma, se pensiamo che si tratta di un’opera scritta tra il 1831 e il 1832, il nostro punto di vista cambia radicalmente. È interessante in particolare il modo in cui viene trattato il rapporto del poeta con il resto del mondo: questi, infatti, viene presentato come un emarginato dalla ‘Moltitudine’, come un escluso, un eterno incompreso che si trova a combattere (e spesso a esserne vinto) con un mondo arido e sterile che non riconosce l’importanza dell’immaginazione e della creatività artistica. Tutti questi concetti, in particolare l’emarginazione del poeta e la contrapposizione tra lui e la foule, saranno fatti propri da Baudelaire, il grande innovatore della poesia francese e non solo, e, successivamente, da poeti come Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Si può considerare dunque Vigny un precursore di Baudelaire e della corrente decadentista? Nella mia analisi cercherò anche di rispondere a questa domanda.
Se il ruolo del poeta e il suo rapporto con le forze di potere sono senz’altro il tema principale dell’opera, gli spunti di innovazione non si esauriscono con essi, né sul piano tematico né su quello formale. Per quanto riguarda i contenuti, molto interessante è l’introduzione di un approccio medico che ha dei tratti in comune con la psicanalisi, con almeno sessant’anni di anticipo. A questo è legata la situazione di malinconia e disagio, caratteristica degli scrittori romantici (basti pensare a Chateaubriand, Musset, Constant). Per descrivere la situazione in cui versa il poeta, fin dall’inizio della narrazione Vigny farà suo il termine reso celebre da Baudelaire: spleen. Il tema del disagio psicologico ha una portata assolutamente innovativa per come viene trattato. Vigny si distacca, non senza ironia e sarcasmo, dalle dottrine mediche della frenologia in voga in quel periodo, e opta per un approccio del tutto diverso: il dottore pensa di poter fare stare meglio il suo paziente attraverso il racconto. Il potere salvifico della parola è un tema antichissimo della letteratura mondiale, che trova le sue origini in un’opera come Le mille e una notte, dove la bella Sherazade lotta per salvare la propria vita raccontando una serie infinita di storie al feroce re persiano Shahriyar. In Stello, però, è la vita del paziente a dover essere salvata: egli, grazie all’ascolto delle tre storie, interrotte spesso dai dialoghi col Dottor Noir, riesce a uscire dalla penosa situazione in cui si trova, almeno per il momento.
Il mio commento all’opera si divide in due parti principali, più una terza in cui colloco la mia traduzione.
Nella prima parte prendo in esame il romanzo dal punto di vista critico-letterario, analizzandone i temi e i contenuti, che ho in parte anticipato in questa Introduzione. Parlerò, inoltre, dell’aspetto formale e del genere del romanzo, soffermandomi sulle caratteristiche più originali e interessanti.
Nella seconda parte, dopo avere introdotto e illustrato le caratteristiche letterarie dell’opera e dell’autore, mi dedico all’analisi linguistica e alle questioni legate alle scienze della traduzione. Dopo avere individuato il tipo di testo ed esposto le mie idee riguardo alla traduzione e l’approccio scelto, fornirò una comparazione con le traduzioni precedenti. Come accennato, il romanzo non ha avuto molta risonanza e sono pertanto riuscita a rintracciare solo due traduzioni dell’opera, escludendo quelle italiane: quella in inglese di Irving Massey (McGill University Press, 1963) e quella spagnola, molto più recente, di Alberto Torrego Salcedo (Editorial Gredos, 2004). Il fatto che ci sia una traduzione del 2004 appare un dato interessante, che suggerisce l’idea di un rinnovato interesse nei confronti di questa opera. Nel quadro di una generale scarsezza di traduzioni, è proprio l’italiano ad annoverarne il maggior numero: Stello, infatti, è stato tradotto cinque volte: nel 1835, nel 1918, nel 1919, nel 1931 e nel 1950. La traduzione più recente è, appunto, quella pubblicata nel 1950 da Rizzoli, ad opera di Felice Filippini, scrittore, pittore e traduttore svizzero-italiano, che per la stessa casa editrice di Vigny ha tradotto anche Servitude et Grandeur militaire. Fornisco dunque una comparazione con le versioni precedenti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto lessicale, mettendo così in luce sia gli aspetti che rendono queste traduzioni ormai inadeguate per il lettore odierno, sia le differenze nelle scelte impiegate e nell’uso dell’italiano.
Dopo questa analisi, propongo le principali questioni traduttive in cui mi sono imbattuta, con esempi sia morfosintattici che lessicali, prendendo così in analisi anche alcuni dei principali problemi che si pongono in una traduzione dal francese in italiano. Mi occupo, inoltre, di questioni di pragmatica e di punteggiatura. Dopodiché, illustro l’applicazione di alcuni procedimenti linguistici applicati nel corso del mio lavoro.
Infine, nella terza parte, presento la traduzione di diciannove capitoli del romanzo (I, II, III, IV, VII, IX, X, XIII, XIV, XV, XVII, XX, XXXIV, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLII), scelti tra i più interessanti e significativi.
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