Tesi etd-05012017-195407 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
MILAZZO, FRANCESCA
URN
etd-05012017-195407
Titolo
Women and Guns: le donne e la cultura delle armi negli Stati Uniti
Dipartimento
CIVILTA' E FORME DEL SAPERE
Corso di studi
STORIA E CIVILTA
Relatori
relatore Prof. Testi, Arnaldo
Parole chiave
- autodifesa
- genere
- gun violence
- National Rifle Association
- Secondo Emendamento
- Stati Uniti
- Women and Guns
Data inizio appello
29/05/2017
Consultabilità
Completa
Riassunto
È noto come negli Stati Uniti il problema della violenza causata da armi da fuoco appartenenti a privati cittadini salga pressoché ogni anno agli onori delle cronache internazionali con episodi sconcertanti – risale a solo un anno fa la strage di Orlando in Florida, 12 Giugno 2016 - e costituisca, a ben vedere, un allarmante problema sociale e politico di affatto semplice soluzione. Esiste un dibattito molto complesso che riguarda non solo la legislazione in merito al controllo sull’utilizzo e la circolazione di armi, ma anche l’interpretazione di quello che storicamente costituisce la base giuridica del diritto alle armi negli Stati Uniti: il Secondo Emendamento alla Costituzione, contenuto nel Bill of Rights del 1791. Gli studi storici e giuridici che si occupano di indagare questa pagina di storia costituzionale hanno prodotto almeno tre indirizzi interpretativi: uno “collettivista”, che vede nell’emendamento una prerogativa statale a creare milizie e inquadrarvi un corpo armato di cittadini; uno “individualista” che vede nell’emendamento e nelle sue fondamenta giuridiche risalenti al Bill of Rights inglese del 1689 la proclamazione del diritto individuale di ogni cittadino a “tenere e portare le armi” per propria autodifesa; infine, esiste un’altra corrente interpretativa detta “civic rights school” che tende a superare le visioni precedenti, ponendo una forte connessione tra il diritto individuale a possedere armi da utilizzare, però, non per pura difesa personale, ma nel contesto di una “milizia ben organizzata”. Ad oggi è prevalsa giuridicamente una lettura individualista del Secondo Emendamento, affermata, nel 2008, in una sentenza della Corte Suprema, District of Columbia vs. Heller. Questa vittoria dell’indirizzo individualista può essere connessa con una svolta che avviene dalla seconda metà del XX secolo e che riguarda soprattutto l’universo politico conservatore. Negli anni Settanta si afferma tra le fila dei conservatori la visione del Secondo Emendamento come diritto individuale dei privati cittadini a possedere armi per la propria sicurezza personale, facendosi dunque rappresentante dei cosiddetti “gun rights”, contrapponendosi alle misure di gun control che erano state promosse nel decennio precedente in seguito ai disordini sociali e ai celebri assassinii di Martin Luther King e del presidente J.F. Kennedy. Nella storica organizzazione promotrice delle armi e del loro utilizzo tra i cittadini statunitensi, la National Rifle Association, avviene lo stesso cambio di rotta: se in un primo momento la politica dell’organizzazione è indirizzata a favore del “law and order”, a metà anni Settanta, in concomitanza dell’ascesa politica di Ronald Reagan e della svolta neoliberista in Occidente, comincia a porsi a difesa dei cosiddetti gun rights: lo stato federale non deve porre alcuna restrizione sul possesso di armi private per propria autodifesa. Armi che in passato hanno rappresentato per i padri fondatori il mezzo necessario per liberarsi dal potere tirannico della corona inglese e che, dunque, apparterebbero a una “tradizione di libertà” che non tollera intrusioni statali sulla vita dell’individuo privato, la cui sicurezza è direttamente consegnata nelle sue mani. Una visione che vede nelle armi anche un tratto distintivo della storia americana, fino a costituire un vero e proprio elemento culturale distintivo. In effetti, l’arma da fuoco rappresenta per molti cittadini (e cittadine) l’emblema della lotta per l’indipendenza e della glorificazione della frontiera, lo strumento col quale fu possibile l’espansione verso Ovest durante il XIX secolo. Tuttavia, l’idea che le armi siano da considerare un elemento culturale imprescindibile e immutabile nella storia degli Stati Uniti è, nell’analisi storica odierna, oggetto di dubbio. Le ricerche sulla “gun culture” si sono inoltre arricchite di chiavi interpretative che hanno permesso di indagare questo frangente attraverso la lente del genere. In questa sede, mi sono infatti occupata di seguire il percorso storico delle donne nella “gun culture”, senza affatto esaurire la complessità e la vastità legate a questa tematica. Al contrario, molte altre indagini potrebbero essere fatte in questo ambito (ad esempio, esplorando possibili connessioni della gun culture con le questioni della comunità afroamericana).
Una cultura delle armi che dunque si nutre dell’idealizzazione delle figure rivoluzionarie, dei padri fondatori e dei pionieri e che, almeno in apparenza, sembra non aver spazi di azione e celebrazione di modelli femminili capaci di determinare le sorti individuali e nazionali. È tuttavia poco esaustiva, l’idea di una “gun culture” come appannaggio di un’unica categoria di soggetti che, alla fine del XVIII secolo, acquistano automaticamente cittadinanza formale e sostanziale, vale a dire, cittadini maschi e bianchi. A ben vedere esistono, fin dal XVII e XVIII secolo, numerose narrazioni di soggetti femminili armati e che continuano a essere rappresentati successivamente, fino a essere inglobati nella cultura di massa del XX secolo. Se in alcune fasi e in alcuni contesti la rappresentazione della donna armata tende a mettere in crisi gli stereotipi legati ai ruoli di genere, in altri tale figura è utilizzata, al contrario, per ristabilire una “normatività”, caricando il soggetto, seppur munito di un’arma letale, di qualità “femminili” familiari e rassicuranti.
Contraddicendo l’assunto per cui la National Rifle Association - l’ambiente più rappresentativo della gun culture e anche il più intriso di miti “machisti” e individualisti – riuscirebbe a inquadrare con fatica al suo interno il pubblico femminile, negli ultimi decenni del Novecento le donne hanno assunto al suo interno un certo peso politico, schierandosi a difesa dei gun rights. Con la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’associazione ha aperto le porte della propria membership anche a una fetta presumibilmente crescente di donne interessate alle armi da fuoco e alla promozione e difesa dei gun rights. In questo stesso periodo si è aperto un discorso "post-femminista" che ingloba al suo interno la logica di strenua affermazione del diritto di portare le armi come un diritto individuale, connettendola ai temi dell’emancipazione e dell’autodeterminazione. La pistola costituirebbe per le donne un potente mezzo di autodifesa da aggressioni sessuali, un elemento chiave che farebbe la differenza in ogni situazione a rischio e che vanificherebbe la maggiore forza dell’aggressore portando il soggetto femminile armato in una situazione di parità.
Attraverso l'analisi contenutistica di una rivista dedicata alle donne, alle armi da fuoco e ai loro vari utilizzi, "Women and Guns", nel capitolo finale ho cercato di rilevare il tipo di narrazione dispiegato per definire un'identità femminile armata. Se in passato il soggetto femminile munito di pistola costituisce, da un punto di vista storico-culturale una figura talvolta "ibrida", cioè capace di entrare in conflitto con le codificazioni dei ruoli di genere, in questo contesto assistiamo, invece, alla riproposizione di una figura femminile che si vuole sì autonoma nella difesa di se stessa e della propria casa da un'aggressione esterna, ma che non sembra sconvolgere una normatività bianca ed eterosessuale: le protagoniste indiscusse di questa rivista risultano essere, infatti, donne bianche, di mezz'età, madri singole o sposate con uomini. Ad essere celebrato in Women & Guns è il senso di responsabilità individuale che queste donne dimostrano di avere nella decisione di armarsi per proteggere se stesse, la famiglia e la proprietà privata. C'è poi l'idea che l'aggressione sessuale sia, nella maggior parte dei casi, agita da un soggetto maschile, "criminale", esterno alla propria cerchia familiare: questo fa sì che in Women and Guns la dinamica di aggressione venga fortemente individualizzata, facendo risaltare un soggetto femminile armato trionfante, che riesce a prevalere sul proprio aggressore, grazie alle sue abilità con la pistola. Nell’osservare questi materiali e mettendoli in relazione al contesto di riferimento di molte donne che coltivano l’interesse per le armi ( la NRA) mi è sembrato di riscontrare alcuni denominatori comuni non estranei, peraltro, a quelle correnti “post-femministe” di cui ho accennavo sopra: in primo luogo, il “mito individualista” costruito intorno alla storia e all’interpretazione del Secondo Emendamento, reso emblema del diritto alla difesa personale, slegato della sua componente “statale”; secondo, una sfiducia significativa nei confronti di misure legislative di gun control prese a livello federale e delle forze dell’ordine, ritenute incapaci di garantire, da sole, la sicurezza dei cittadini (e cittadine); terzo, una visione “moralizzata” del problema della gun violence in cui una comunità di individui armati e rispettosi della legge – a cui si lede un diritto individuale nel momento in cui si tenta di porre restrizioni e regolamentazioni - si contrappone ai criminali, “bad guys”, la minaccia esterna alla proprietà e all’incolumità contro la quale è necessario non farsi trovare impreparati. Questo si traduce, in Women & Guns, in una visione della violenza di genere slegata da considerazioni più ampie sulle manifestazioni della misoginia e del patriarcato insinuate in ambito pubblico e privato, e in un’ossessiva ripetizione di un leit motiv: con la pistola, se si è in grado di usarla, decade qualunque disparità fisica e, dunque, anche il pericolo di sopraffazione. Una donna, se responsabile, è consapevole di questa opportunità ed è perfettamente in grado di scegliere di armarsi contare in modo autonomo sulle proprie forze e sui propri mezzi, rifiutandosi di essere una “vittima” e neutralizzando in modo esclusivo e individualistico il pericolo di un’intrusione illegittima di un aggressore nel proprio ambito privato e della violenza sessuale.
Una cultura delle armi che dunque si nutre dell’idealizzazione delle figure rivoluzionarie, dei padri fondatori e dei pionieri e che, almeno in apparenza, sembra non aver spazi di azione e celebrazione di modelli femminili capaci di determinare le sorti individuali e nazionali. È tuttavia poco esaustiva, l’idea di una “gun culture” come appannaggio di un’unica categoria di soggetti che, alla fine del XVIII secolo, acquistano automaticamente cittadinanza formale e sostanziale, vale a dire, cittadini maschi e bianchi. A ben vedere esistono, fin dal XVII e XVIII secolo, numerose narrazioni di soggetti femminili armati e che continuano a essere rappresentati successivamente, fino a essere inglobati nella cultura di massa del XX secolo. Se in alcune fasi e in alcuni contesti la rappresentazione della donna armata tende a mettere in crisi gli stereotipi legati ai ruoli di genere, in altri tale figura è utilizzata, al contrario, per ristabilire una “normatività”, caricando il soggetto, seppur munito di un’arma letale, di qualità “femminili” familiari e rassicuranti.
Contraddicendo l’assunto per cui la National Rifle Association - l’ambiente più rappresentativo della gun culture e anche il più intriso di miti “machisti” e individualisti – riuscirebbe a inquadrare con fatica al suo interno il pubblico femminile, negli ultimi decenni del Novecento le donne hanno assunto al suo interno un certo peso politico, schierandosi a difesa dei gun rights. Con la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’associazione ha aperto le porte della propria membership anche a una fetta presumibilmente crescente di donne interessate alle armi da fuoco e alla promozione e difesa dei gun rights. In questo stesso periodo si è aperto un discorso "post-femminista" che ingloba al suo interno la logica di strenua affermazione del diritto di portare le armi come un diritto individuale, connettendola ai temi dell’emancipazione e dell’autodeterminazione. La pistola costituirebbe per le donne un potente mezzo di autodifesa da aggressioni sessuali, un elemento chiave che farebbe la differenza in ogni situazione a rischio e che vanificherebbe la maggiore forza dell’aggressore portando il soggetto femminile armato in una situazione di parità.
Attraverso l'analisi contenutistica di una rivista dedicata alle donne, alle armi da fuoco e ai loro vari utilizzi, "Women and Guns", nel capitolo finale ho cercato di rilevare il tipo di narrazione dispiegato per definire un'identità femminile armata. Se in passato il soggetto femminile munito di pistola costituisce, da un punto di vista storico-culturale una figura talvolta "ibrida", cioè capace di entrare in conflitto con le codificazioni dei ruoli di genere, in questo contesto assistiamo, invece, alla riproposizione di una figura femminile che si vuole sì autonoma nella difesa di se stessa e della propria casa da un'aggressione esterna, ma che non sembra sconvolgere una normatività bianca ed eterosessuale: le protagoniste indiscusse di questa rivista risultano essere, infatti, donne bianche, di mezz'età, madri singole o sposate con uomini. Ad essere celebrato in Women & Guns è il senso di responsabilità individuale che queste donne dimostrano di avere nella decisione di armarsi per proteggere se stesse, la famiglia e la proprietà privata. C'è poi l'idea che l'aggressione sessuale sia, nella maggior parte dei casi, agita da un soggetto maschile, "criminale", esterno alla propria cerchia familiare: questo fa sì che in Women and Guns la dinamica di aggressione venga fortemente individualizzata, facendo risaltare un soggetto femminile armato trionfante, che riesce a prevalere sul proprio aggressore, grazie alle sue abilità con la pistola. Nell’osservare questi materiali e mettendoli in relazione al contesto di riferimento di molte donne che coltivano l’interesse per le armi ( la NRA) mi è sembrato di riscontrare alcuni denominatori comuni non estranei, peraltro, a quelle correnti “post-femministe” di cui ho accennavo sopra: in primo luogo, il “mito individualista” costruito intorno alla storia e all’interpretazione del Secondo Emendamento, reso emblema del diritto alla difesa personale, slegato della sua componente “statale”; secondo, una sfiducia significativa nei confronti di misure legislative di gun control prese a livello federale e delle forze dell’ordine, ritenute incapaci di garantire, da sole, la sicurezza dei cittadini (e cittadine); terzo, una visione “moralizzata” del problema della gun violence in cui una comunità di individui armati e rispettosi della legge – a cui si lede un diritto individuale nel momento in cui si tenta di porre restrizioni e regolamentazioni - si contrappone ai criminali, “bad guys”, la minaccia esterna alla proprietà e all’incolumità contro la quale è necessario non farsi trovare impreparati. Questo si traduce, in Women & Guns, in una visione della violenza di genere slegata da considerazioni più ampie sulle manifestazioni della misoginia e del patriarcato insinuate in ambito pubblico e privato, e in un’ossessiva ripetizione di un leit motiv: con la pistola, se si è in grado di usarla, decade qualunque disparità fisica e, dunque, anche il pericolo di sopraffazione. Una donna, se responsabile, è consapevole di questa opportunità ed è perfettamente in grado di scegliere di armarsi contare in modo autonomo sulle proprie forze e sui propri mezzi, rifiutandosi di essere una “vittima” e neutralizzando in modo esclusivo e individualistico il pericolo di un’intrusione illegittima di un aggressore nel proprio ambito privato e della violenza sessuale.
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