Tesi etd-04152021-160954 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
DE NEGRI, PIA
URN
etd-04152021-160954
Titolo
Una Lex Sumptuaria per la societa' moderna?
Beni posizionali e diritto dei marchi
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof. Giocoli, Nicola
Parole chiave
- beni posizionali
- beni relazionali
- diritto dei marchi
- IP
- lex sumptuaria
- positional goods
- proprietà intellettuale
- relational goods
- trademarks
Data inizio appello
03/05/2021
Consultabilità
Tesi non consultabile
Riassunto
Gli abiti sono spesso descritti come la sintesi di due dimensioni: una “dimensione funzionale”, innanzitutto, con riferimento all’attitudine della stoffa che li compone a coprire il corpo, proteggendo l’indossatore dalle intemperie climatiche e dallo sguardo altrui; una “dimensione ornamentale”, in secondo luogo, con riguardo alla tendenza, comune a tutti gli uomini e le donne sin dalle origini della civiltà, a decorare il proprio corpo attraverso gli abiti. L’abito-ornamento è stato espressione, in ciascuna fase della storia umana, di istanze culturali, sociali e politiche variegate: la decorazione del corpo si è caricata, nel corso dei secoli, di un valore descrittivo idoneo a qualificare gli indossatori in ragione degli ornamenti sfoggiati, distinguendone l’appartenenza sociale.
Gli abiti, poiché idonei a segnalare lo status di chi li indossa, sono beni economici “posizionali”: essi producono uno “snob effect” tale per cui, all’aumentare del “consumo” del medesimo vestito da parte di altri, l’utilità del singolo consumatore decresce poiché l’abito cessa di fungere da efficace indicatore di status. Affinchè i soggetti realizzino un surplus posizionale in ragione dell’acquisto degli abiti, è pertanto necessario che il numero d’individui che consumano il bene posizionale sia compreso fra un minimo s (r) ed un massimo S (r). E’ necessario, altresì, che i benefici per i soggetti che consumano il bene siano maggiori delle perdite subite da quelli che non lo consumano. A fronte dell’incerta generazione di surplus, il consumo di beni posizionali può determinare la produzione di ingenti costi sociali nonché lo spreco di risorse economiche, laddove l’incremento dei consumi “vistosi” sia condiviso fra tutti i membri della società di riferimento: se tutti indossano i medesimi abiti, portatori di un’identica matrice di significato, l’elemento variante è svilito e gli individui non ottengono alcun beneficio in termini di posizionamento sociale.
Per evitare un siffatto spreco di risorse economiche, in passato si faceva ricorso a strumenti normativi denominati “leges sumptuariae”, che imponevano restrizioni precise sul consumo in base allo status, riservando certe fogge di abiti, accessori e decorazioni “lussuose” alle classi sociali dominanti. Riservando l’abbigliamento vistoso e le decorazioni preziose alle classi sociali dominanti, le antiche leges sumptuariae ponevano un limite al consumo di beni posizionali: giacché lo stesso legislatore delimitava il novero dei soggetti legittimati a vestire “posizionalmente”, i destinatari delle proibizioni non potevano che adeguarsi, rinunciando a competere.
A discapito dell’apparente “libertà di abbigliamento” garantita alla generalità dei consociati dagli ordinamenti giuridici moderni, ancora oggi il legislatore si preoccupa di regolare i “consumi vistosi” e le scelte vestimentarie degli individui attraverso leges sumptuariae, in guisa di diritto dei marchi. Il diritto dei marchi, infatti, protegge la funzione “posizionale” dei beni garantendo, attraverso la severa repressione delle attività di copia, che a ciascun marchio corrisponda un preciso significato sociale e che solo alcuni soggetti – quelli in grado di sostenere economicamente l’esborso necessario ad acquistare beni lussuosi e “di marca” – lo sfoggino.
Le “nuove” leggi suntuarie, tuttavia, presentano differenze significative rispetto alle precedenti: in primo luogo, piuttosto che difendere le fogge degli abiti e i loro attributi lussuosi o preziosi, esse tutelano i marchi come portatori di significati sociali. In secondo luogo, esse non proteggono i vestiti né esclusivamente né prevalentemente come insegne di status: l’indebolimento progressivo delle classi sociali e la “democratizzazione” della moda garantita, a partire dal XIX secolo, dall’avvento della produzione di massa, hanno ampliato il novero dei significati sociali meritevoli di tutela. Oggi, gli individui-consumatori guardano alla moda come mezzo di espressione di istanze sociali complesse, variegate e per lo più indipendenti dall’appartenenza “di classe”, peraltro segnatamente affievolita. Nel nuovo gioco delle apparenze, i partecipanti possono “relazionarsi” e “posizionarsi” all’interno e rispetto a innumerevoli gruppi sociali le cui istanze ideologiche ed estetiche trascendono, spesso, lo status.
Gli abiti, poiché idonei a segnalare lo status di chi li indossa, sono beni economici “posizionali”: essi producono uno “snob effect” tale per cui, all’aumentare del “consumo” del medesimo vestito da parte di altri, l’utilità del singolo consumatore decresce poiché l’abito cessa di fungere da efficace indicatore di status. Affinchè i soggetti realizzino un surplus posizionale in ragione dell’acquisto degli abiti, è pertanto necessario che il numero d’individui che consumano il bene posizionale sia compreso fra un minimo s (r) ed un massimo S (r). E’ necessario, altresì, che i benefici per i soggetti che consumano il bene siano maggiori delle perdite subite da quelli che non lo consumano. A fronte dell’incerta generazione di surplus, il consumo di beni posizionali può determinare la produzione di ingenti costi sociali nonché lo spreco di risorse economiche, laddove l’incremento dei consumi “vistosi” sia condiviso fra tutti i membri della società di riferimento: se tutti indossano i medesimi abiti, portatori di un’identica matrice di significato, l’elemento variante è svilito e gli individui non ottengono alcun beneficio in termini di posizionamento sociale.
Per evitare un siffatto spreco di risorse economiche, in passato si faceva ricorso a strumenti normativi denominati “leges sumptuariae”, che imponevano restrizioni precise sul consumo in base allo status, riservando certe fogge di abiti, accessori e decorazioni “lussuose” alle classi sociali dominanti. Riservando l’abbigliamento vistoso e le decorazioni preziose alle classi sociali dominanti, le antiche leges sumptuariae ponevano un limite al consumo di beni posizionali: giacché lo stesso legislatore delimitava il novero dei soggetti legittimati a vestire “posizionalmente”, i destinatari delle proibizioni non potevano che adeguarsi, rinunciando a competere.
A discapito dell’apparente “libertà di abbigliamento” garantita alla generalità dei consociati dagli ordinamenti giuridici moderni, ancora oggi il legislatore si preoccupa di regolare i “consumi vistosi” e le scelte vestimentarie degli individui attraverso leges sumptuariae, in guisa di diritto dei marchi. Il diritto dei marchi, infatti, protegge la funzione “posizionale” dei beni garantendo, attraverso la severa repressione delle attività di copia, che a ciascun marchio corrisponda un preciso significato sociale e che solo alcuni soggetti – quelli in grado di sostenere economicamente l’esborso necessario ad acquistare beni lussuosi e “di marca” – lo sfoggino.
Le “nuove” leggi suntuarie, tuttavia, presentano differenze significative rispetto alle precedenti: in primo luogo, piuttosto che difendere le fogge degli abiti e i loro attributi lussuosi o preziosi, esse tutelano i marchi come portatori di significati sociali. In secondo luogo, esse non proteggono i vestiti né esclusivamente né prevalentemente come insegne di status: l’indebolimento progressivo delle classi sociali e la “democratizzazione” della moda garantita, a partire dal XIX secolo, dall’avvento della produzione di massa, hanno ampliato il novero dei significati sociali meritevoli di tutela. Oggi, gli individui-consumatori guardano alla moda come mezzo di espressione di istanze sociali complesse, variegate e per lo più indipendenti dall’appartenenza “di classe”, peraltro segnatamente affievolita. Nel nuovo gioco delle apparenze, i partecipanti possono “relazionarsi” e “posizionarsi” all’interno e rispetto a innumerevoli gruppi sociali le cui istanze ideologiche ed estetiche trascendono, spesso, lo status.
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