Tesi etd-04072008-143031 |
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Tipo di tesi
Tesi di dottorato di ricerca
Autore
BALDASSERONI, ELEONORA
URN
etd-04072008-143031
Titolo
I Pannocchieschi d’Elci in età moderna: le origini, l’ammissione al patriziato senese, il contributo all’Ordine di Santo Stefano ed i personaggi illustri
Settore scientifico disciplinare
SPS/03
Corso di studi
STORIA E SOCIOLOGIA DELLA MODERNITA'
Relatori
Relatore Prof. Marrara, Danilo
Parole chiave
- Età moderna
- Nobiltà
- Ordine di Santo Stefano
- Patriziato
- Siena
- Toscana
Data inizio appello
13/05/2008
Consultabilità
Parziale
Data di rilascio
13/05/2048
Riassunto
Il presente lavoro è volto a ricostruire le vicende della famiglia Pannocchieschi d’Elci in età moderna. Attraverso alcune filze del fondo Pannocchieschi d’Elci ed alcuni manoscritti, conservati presso l’Archivio di Stato di Siena ed alcuni manoscritti serbati nella Biblioteca Comunale degli Intronati nella medesima città, è stato possibile ricostruire le vicende ed i possedimenti di questa illustra consorteria che si stabilì a Siena, provenendo da Volterra, dove avevano avuto supremi incarichi e dignità, intorno alla metà del XIII secolo. Lunghi furono i conflitti fra i membri della casata con il governo cittadino, che mal sopportava il loro dominio nei territori intorno alla città. I conti d’Elci furono ammessi alla cittadinanza senese dopo lunghi conflitti col governo dei Nove, solo il 30 giugno 1329; ascesero poi agli onori della suprema magistratura in rappresentanza del Monte dei Gentiluomini. Bisogna precisare che l’istituto dei Monti, tipico dell’ordinamento senese, affondava le proprie radici nelle vicende del Comune medioevale. Si trattava di raggruppamenti politico-familiari, comprendenti l’insieme delle famiglie che avevano governato la città in un determinato periodo storico. Il più antico era quello dei Gentiluomini, di estrazione feudale, che resse la città fino alla legislazione antimagnatizia del 1277. Quest’ultima non colpì però i Pannocchieschi, dal momento che vennero ascritti alla cittadinanza solo nel 1329 e poterono quindi essere contemplati solo dal successivo provvedimento, del 1337-1338. Vi era poi il Monte dei Nove, di origine popolare, così chiamato dal numero dei componenti la suprema magistratura: governò la città dal 1287 al 1355. In questi decenni Siena conobbe il suo massimo splendore, anche a livello artistico. Caduto il regime novesco si vennero formando il Monte dei Dodici, che resse la città dal 1355 al 1368, quello dei Riformatori, che governò dal 1368 al 1385, e infine quello del Popolo. Con il passare del tempo, i Monti si andarono però distaccando dalle loro originarie matrici sociali, sia in conseguenza del prolungato esercizio del potere, sia per i frequenti vincoli matrimoniali fra persone di raggruppamenti diversi. Le famiglie che li costituivano si indirizzarono verso modelli di vita superiori e a partire dal XVI secolo furono definite tutte quante nobili, a prescindere dalle loro lontane origini, magnatizie o popolari. Un elemento di assimilazione fu rappresentato dagli Statuti dell’Ordine di Santo Stefano eretto da Cosimo I nel 1561 con la sanzione del Papa Pio IV. Questi esigevano infatti che il pretendente l’abito potesse vantare, nelle sue provanze, la nobiltà generosa dei quattro quarti, cioè che i suoi ascendenti, dall’atavo fino al padre, « habbiano avuto, e goduto, o veramente sieno stati atti a potere avere, e godere nella Patria loro quelle maggiori dignità, e gradi, che solo i più nobili Gentiluomini sogliono havere, e godere», che in Toscana consistevano nella suprema magistratura municipale.
Secondo alcuni storici senese, in tempi diversi e non sempre pacificamente, i Pannocchieschi godettero di ben trentasette signorie. Il loro feudo più famoso fu Elci che acquistarono il 3 ottobre del 1219. Da questo acquisto deriva infatti il doppio cognome. Il castello di Montepescali, insieme con Monticiano, fu eretto in feudo, con diploma del 25 luglio 1629, dal Granduca Ferdinando II col titolo di marchesato, a favore del suo maestro di Camera, il conte Orso di Ranieri d’Elci, patrizio senese e ambasciatore per il Granduca alla corte spagnola dal 1608 al 1618, e dei suoi figli e discendenti maschi per ordine di primogenitura per due anni; lo stesso Granduca diede, con rescritto del 13 ottobre, facoltà al medesimo conte Orso di poter vendere Montepescali a Girolamo Tolomei.
L’essere ammessi a ricoprire i seggi della suprema magistratura fu molto importante per la documentazione presentata ai fini dell’iscrizione nei « Libri d’oro», previsti dalla legge del 31 luglio 1750 per regolamento della nobiltà e cittadinanza. Questo provvedimento, promulgato a Vienna da Francesco Stefano di Lorena e pubblicato a Firenze il successivo 1° ottobre, contiene la disciplina definitiva della materia nobiliare ed in particolare la distinzione tra la nobiltà semplice ed il patriziato, concepito come un grado di maggior pregio qualificato dall’antichità delle origini.
La documentazione raccolta dai Pannocchieschi, che si trova nel fondo della Deputazione, presso l’Archivio di Stato di Firenze, presenta una rapida sintesi delle vicende della casata. Per l’ammissione al patriziato era necessario comprovare di essere nobili da almeno duecento anni; ma i discendenti dei tre rami ancora in vita, Orso di Filippo, Cosimo e Giuseppe di Achille ed Emanuele di Uggieri, chiesero a Pietro Bambagini, cancelliere delle Riformagioni di Siena, la compilazione di alberi genealogici e di attestati concernenti le notizie che fosse possibile raccogliere, per ogni generazione, fin dai primordi. Cosimo e Giuseppe ottennero, per sé e per i propri discendenti, l’iscrizione nel «Libro d’Oro» del patriziato senese con decreto del 16 aprile 1753; lo stesso giorno ottennero l’ammissione anche Emanuele di Uggieri ed Orso di Filippo.
Attraverso i documenti conservati nel fondo Ordine di Santo Stefano presso l’Archivio di Stato di Pisa, è stato possibile ricostruire le vicende dei membri della famiglia che si fregiarono delle insegne cavalleresche: le loro suppliche al Gran Maestro, le loro provanze di nobiltà, le apprensioni d’abito e le loro esequie. La consorteria dei Pannocchieschi d’Elci, con ben ventisette cavalieri e tre commende, può essere considerata fra le famiglie senesi che più contribuirono allo sviluppo dell’Ordine. Il primo ad indossare l’abito equestre fu Orazio o Nerazio di Lattanzio di Antonio il 26 febbraio 1563; dopo di lui si susseguirono Carlo di Achille di Arcangelo, Leandro di Marcello di Tommaso e Pirro di Achille di Alessandro, tutti nel 1570. Nella discendenza che si origina dal conte Arcangelo si dipartono due rami: uno dal conte Achille, dal quale nacque Carlo; della sua discendenza si annoverano poi ben undici cavalieri stefaniani; l’altro dal conte Tommaso da cui nacque Marcello; otto furono i Pannocchieschi di questa linea che si fregiarono delle insegne cavalleresche; tre, infine, furono i cavalieri che ebbero origine da rami diversi e quattro furono quelli del ramo fiorentino. La consorteria fondò nell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano due commende, chiamate rispettivamente «Elci prima», fondata dal conte Carlo il 1° luglio 1570, ed «Elci seconda», eretta dal conte Marcello il 6 luglio 1570.
La commenda era una particolare forma di fidecommesso, la cui disciplina era regolata dagli statuti stefaniani; si donava un insieme di beni all’Ordine, che ne acquistava la nuda proprietà mentre l’usufrutto spettava al primo titolare designato dal fondatore e successivamente a coloro che nel contratto erano stati indicati come suoi successori. Il commendatore aveva l’onere di amministrare e mantenere la dote vincolata; il fondo sarebbe stato immune da ogni tassa, dazio, rivendicazione da parte dei creditori, oltre che dai rischi di frammentazioni dovute ad alienazioni o divisioni ereditarie. Le prime commende avevano per lo più ad oggetto terreni, poderi e proprietà fondiarie, che era necessario mantenere con la rendita indicata all’atto della fondazione; solo verso la fine del XVI secolo il Granduca, per assicurare una maggiore liquidità allo Stato, cominciò ad incoraggiare l’investimento in luoghi di Monte. Una volta estinti tutti i successori, la commenda ricadeva all’Ordine, che ne acquistava la piena proprietà. Spesso accadeva che le famiglie più illustri e più antiche, proprio per confermare ed evidenziare la posizione di privilegio goduta dal proprio casato, fondassero commende di padronato, pur indossando l’abito equestre per giustizia. Questo è stato anche il caso dei Pannocchieschi. Ed inoltre, il 9 luglio 1818, Angiolo (Angelo) di Ludovico, bibliofilo, fratello di Orso Maria, ottenne l’erezione in commenda padronale della pensione che gli era stata concessa con motu proprio granducale del 27 febbraio 1818, come riconoscimento per il monumento che di sé lasciò presso la Biblioteca Laurenziana a Firenze.
I Pannocchieschi, nobili di contado, poterono vantare come origine e giustificazione del proprio status nobiliare sia il godimento delle magistrature civiche sia le giurisdizioni feudali sia le dignità ricevute nell’ambito del Sacro Romano Impero. Oltre ai titoli giuridici, poterono gloriarsi di una lunga serie di personaggi che si erano distinti nelle dignità ecclesiastiche, nelle lettre e nei comandi militari. La mia attenzione si è concentrata sullo studio di Orso, Scipione, Francesco e Angelo Maria.
Orso, nato a Siena, il 25 novembre 1569, dal conte Ranieri di Angelo Pannocchieschi d’Elci, del ramo dei conti Fosini, fin da giovinetto si distinse per i suoi talenti e per i suoi studi. Fu residente in Spagna presso la corte cattolica dal 1608 al 1618 e, come si potrà leggere nel prosieguo del lavoro, venne tenuto in tanta stima dal Re Filippo III che volle adoperarlo in negoziati con la corte di Francia. Fu infatti il grande mediatore fra Spagna e Francia circa il «doppio parentado» fra le due corti che portò alle nozze di Luigi XIII con l’infanta spagnola Anna d’Asburgo ed al «casamento» del futuro Re di Spagna Filippo IV con Elisabetta di Borbone, sorella dello stesso Luigi. Quando rientrò in Toscana, nel 1618, il Re Filippo gli rilasciò un solenne attestato della sua grande stima scrivendo al Granduca che gli invidiava un così abile ministro. Fu altresì inviato a Roma nel 1620, 1621 e 1623. Si stabilì a Firenze nel 1621 e fu nominato Maestro di Camera da Ferdinando II nel 1623.
Scipione nacque a Siena, dal suddetto Orso d’Elci e da Lucrezia di Scipione Bulgarini. Il 28 agosto 1631 il Pontefice Urbano VIII lo nominò vescovo di Piacenza, dove fondò un monastero femminile. Morto l’arcivescovo Giuliano de’ Medici, nel 1636 il vescovo di Piacenza diventò arcivescovo di Pisa. Il primo maggio fece il suo ingresso solenne in Duomo: il discorso ufficiale fu tenuto dal canonico Marco Antonio Pieralli che lo dedicò al conte Orso suo padre. Svolse il suo ministero, dal 1636 al 1663, con accuratezza tenendo due sinodi, nel 1639 e nel 1659. Nei suoi ventisette anni di episcopato pisano fu assai attivo per le opere di restauro e abbellimento. Questi portò a compimento il Seminario in piazza dell’arcivescovado e dal 1641 al 1642 fece eseguire i lavori alla villa di Calci per un totale di spesa di 2660 scudi. Scipione godé della stima del Granduca Ferdinando de’ Medici e dei sommi Pontefici; Innocenzo X lo nominò suo legato a Venezia e Alessandro VII legato presso l’imperatore di Germania e nel 1657 lo creò cardinale con il titolo di S. Sabina. Nel 1663 rinuciò, a favore del nipote Francesco, alla sede pisana e si trasferì a Roma.
Questi, era nato a Firenze nel 1626 dal conte Ranieri e dalla nobile Altoviti, fiorentina. Si distinse per la dottrine e per la prudenza tanto da diventare cameriere segreto del Papa e canonico di San Pietro. Nel 1663, a soli 37 anni, venne eletto da Alessandro VII arcivescovo di Pisa. Il 12 dicembre 1663, fece il solenne ingresso in città. Si impegnò moltissimo nella cura della sua diocesi. Infatti compì personalmente quattro visite pastorali, nel 1664-1667, nel 1672-1674, nel 1681-1687 e nel 1689-1701. Due furono le contese che lo videro protagonista. Si aprirono nel 1679: la prima riguardava i contrasti sullo ius visitationis in alcune chiese della diocesi nei confronti dei Priori della chiesa conventuale dell’Ordine di Santo Stefano; la seconda invece si aprì con il collegio dei Legisti, con i Priori e con i Deputati dello Studio universitario circa il conferimento delle lauree, ribadendo Francesco come fosse pieno ed esclusivo privilegio del vescovo pisano di conferirle.
L’ultimo personaggio oggetto di questo studio è Angelo Maria d’Elci. Nato a Firenze, nel palazzo d’Elci, in via di Maggio 28, il 7 dicembre 1754, dal marchese Ludovico e dalla marchesa Lucrezia di Angelo Niccolini, Angelo Maria Giuseppe Ambrogio, conte d’Elci, ricevette una educazione domestica secondo la prassi vigente per un giovane del suo ceto. Per l’educazione dei suoi nipoti Francesco e Roberto, si rivolse, insieme col fratello Orso Maria, al canonico Angelo Maria Bandini considerato fra i maggiori eruditi dell’età leopoldina. Durante il corso della sua vita fece innumerevoli viaggi e visse in luoghi diversi come dimostrano le moltissime lettere che sono conservate nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze. Nel 1783 era a Parigi, Vienna, Praga e Berlino, ma nel 1788 lo ritroviamo ancora a Parigi. Alcuni mesi del 1788 visse a Londra e fra il 1803 e 1805 fece innumerevoli viaggi in Olanda e Germania. Dalla primavera del 1789 fino a quella del 1796 visse a Milano. Nei due anni successivi fu invece a Firenze e dal 1799 fino alla sua morte, avvenuta il 20 novembre 1824, a Vienna. Divenne famoso, per i suoi contemporanei ma anche per i posteri, per la collezione di edizioni rare dei classici che raccolse, come testimoniano le innumerevoli lettere, con passione e grandi sacrifici. Ed il suo grandissimo merito fu quello di aver donato la sua preziosa collezione alla sua città natale, Firenze, anche se, non ebbe mai molta simpatia per i fiorentini. La sua ricchissima raccolta, che comprende le prime edizioni dei classici latini e greci, ai quali si aggiunsero incunaboli biblici in lingua ebraica, le edizioni aldine dell’ancora secca, e nel 1823, il «Memoriale completo di Pannartz e Sweyheym», venne donata ufficialmente il 15 luglio 1818.
Secondo alcuni storici senese, in tempi diversi e non sempre pacificamente, i Pannocchieschi godettero di ben trentasette signorie. Il loro feudo più famoso fu Elci che acquistarono il 3 ottobre del 1219. Da questo acquisto deriva infatti il doppio cognome. Il castello di Montepescali, insieme con Monticiano, fu eretto in feudo, con diploma del 25 luglio 1629, dal Granduca Ferdinando II col titolo di marchesato, a favore del suo maestro di Camera, il conte Orso di Ranieri d’Elci, patrizio senese e ambasciatore per il Granduca alla corte spagnola dal 1608 al 1618, e dei suoi figli e discendenti maschi per ordine di primogenitura per due anni; lo stesso Granduca diede, con rescritto del 13 ottobre, facoltà al medesimo conte Orso di poter vendere Montepescali a Girolamo Tolomei.
L’essere ammessi a ricoprire i seggi della suprema magistratura fu molto importante per la documentazione presentata ai fini dell’iscrizione nei « Libri d’oro», previsti dalla legge del 31 luglio 1750 per regolamento della nobiltà e cittadinanza. Questo provvedimento, promulgato a Vienna da Francesco Stefano di Lorena e pubblicato a Firenze il successivo 1° ottobre, contiene la disciplina definitiva della materia nobiliare ed in particolare la distinzione tra la nobiltà semplice ed il patriziato, concepito come un grado di maggior pregio qualificato dall’antichità delle origini.
La documentazione raccolta dai Pannocchieschi, che si trova nel fondo della Deputazione, presso l’Archivio di Stato di Firenze, presenta una rapida sintesi delle vicende della casata. Per l’ammissione al patriziato era necessario comprovare di essere nobili da almeno duecento anni; ma i discendenti dei tre rami ancora in vita, Orso di Filippo, Cosimo e Giuseppe di Achille ed Emanuele di Uggieri, chiesero a Pietro Bambagini, cancelliere delle Riformagioni di Siena, la compilazione di alberi genealogici e di attestati concernenti le notizie che fosse possibile raccogliere, per ogni generazione, fin dai primordi. Cosimo e Giuseppe ottennero, per sé e per i propri discendenti, l’iscrizione nel «Libro d’Oro» del patriziato senese con decreto del 16 aprile 1753; lo stesso giorno ottennero l’ammissione anche Emanuele di Uggieri ed Orso di Filippo.
Attraverso i documenti conservati nel fondo Ordine di Santo Stefano presso l’Archivio di Stato di Pisa, è stato possibile ricostruire le vicende dei membri della famiglia che si fregiarono delle insegne cavalleresche: le loro suppliche al Gran Maestro, le loro provanze di nobiltà, le apprensioni d’abito e le loro esequie. La consorteria dei Pannocchieschi d’Elci, con ben ventisette cavalieri e tre commende, può essere considerata fra le famiglie senesi che più contribuirono allo sviluppo dell’Ordine. Il primo ad indossare l’abito equestre fu Orazio o Nerazio di Lattanzio di Antonio il 26 febbraio 1563; dopo di lui si susseguirono Carlo di Achille di Arcangelo, Leandro di Marcello di Tommaso e Pirro di Achille di Alessandro, tutti nel 1570. Nella discendenza che si origina dal conte Arcangelo si dipartono due rami: uno dal conte Achille, dal quale nacque Carlo; della sua discendenza si annoverano poi ben undici cavalieri stefaniani; l’altro dal conte Tommaso da cui nacque Marcello; otto furono i Pannocchieschi di questa linea che si fregiarono delle insegne cavalleresche; tre, infine, furono i cavalieri che ebbero origine da rami diversi e quattro furono quelli del ramo fiorentino. La consorteria fondò nell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano due commende, chiamate rispettivamente «Elci prima», fondata dal conte Carlo il 1° luglio 1570, ed «Elci seconda», eretta dal conte Marcello il 6 luglio 1570.
La commenda era una particolare forma di fidecommesso, la cui disciplina era regolata dagli statuti stefaniani; si donava un insieme di beni all’Ordine, che ne acquistava la nuda proprietà mentre l’usufrutto spettava al primo titolare designato dal fondatore e successivamente a coloro che nel contratto erano stati indicati come suoi successori. Il commendatore aveva l’onere di amministrare e mantenere la dote vincolata; il fondo sarebbe stato immune da ogni tassa, dazio, rivendicazione da parte dei creditori, oltre che dai rischi di frammentazioni dovute ad alienazioni o divisioni ereditarie. Le prime commende avevano per lo più ad oggetto terreni, poderi e proprietà fondiarie, che era necessario mantenere con la rendita indicata all’atto della fondazione; solo verso la fine del XVI secolo il Granduca, per assicurare una maggiore liquidità allo Stato, cominciò ad incoraggiare l’investimento in luoghi di Monte. Una volta estinti tutti i successori, la commenda ricadeva all’Ordine, che ne acquistava la piena proprietà. Spesso accadeva che le famiglie più illustri e più antiche, proprio per confermare ed evidenziare la posizione di privilegio goduta dal proprio casato, fondassero commende di padronato, pur indossando l’abito equestre per giustizia. Questo è stato anche il caso dei Pannocchieschi. Ed inoltre, il 9 luglio 1818, Angiolo (Angelo) di Ludovico, bibliofilo, fratello di Orso Maria, ottenne l’erezione in commenda padronale della pensione che gli era stata concessa con motu proprio granducale del 27 febbraio 1818, come riconoscimento per il monumento che di sé lasciò presso la Biblioteca Laurenziana a Firenze.
I Pannocchieschi, nobili di contado, poterono vantare come origine e giustificazione del proprio status nobiliare sia il godimento delle magistrature civiche sia le giurisdizioni feudali sia le dignità ricevute nell’ambito del Sacro Romano Impero. Oltre ai titoli giuridici, poterono gloriarsi di una lunga serie di personaggi che si erano distinti nelle dignità ecclesiastiche, nelle lettre e nei comandi militari. La mia attenzione si è concentrata sullo studio di Orso, Scipione, Francesco e Angelo Maria.
Orso, nato a Siena, il 25 novembre 1569, dal conte Ranieri di Angelo Pannocchieschi d’Elci, del ramo dei conti Fosini, fin da giovinetto si distinse per i suoi talenti e per i suoi studi. Fu residente in Spagna presso la corte cattolica dal 1608 al 1618 e, come si potrà leggere nel prosieguo del lavoro, venne tenuto in tanta stima dal Re Filippo III che volle adoperarlo in negoziati con la corte di Francia. Fu infatti il grande mediatore fra Spagna e Francia circa il «doppio parentado» fra le due corti che portò alle nozze di Luigi XIII con l’infanta spagnola Anna d’Asburgo ed al «casamento» del futuro Re di Spagna Filippo IV con Elisabetta di Borbone, sorella dello stesso Luigi. Quando rientrò in Toscana, nel 1618, il Re Filippo gli rilasciò un solenne attestato della sua grande stima scrivendo al Granduca che gli invidiava un così abile ministro. Fu altresì inviato a Roma nel 1620, 1621 e 1623. Si stabilì a Firenze nel 1621 e fu nominato Maestro di Camera da Ferdinando II nel 1623.
Scipione nacque a Siena, dal suddetto Orso d’Elci e da Lucrezia di Scipione Bulgarini. Il 28 agosto 1631 il Pontefice Urbano VIII lo nominò vescovo di Piacenza, dove fondò un monastero femminile. Morto l’arcivescovo Giuliano de’ Medici, nel 1636 il vescovo di Piacenza diventò arcivescovo di Pisa. Il primo maggio fece il suo ingresso solenne in Duomo: il discorso ufficiale fu tenuto dal canonico Marco Antonio Pieralli che lo dedicò al conte Orso suo padre. Svolse il suo ministero, dal 1636 al 1663, con accuratezza tenendo due sinodi, nel 1639 e nel 1659. Nei suoi ventisette anni di episcopato pisano fu assai attivo per le opere di restauro e abbellimento. Questi portò a compimento il Seminario in piazza dell’arcivescovado e dal 1641 al 1642 fece eseguire i lavori alla villa di Calci per un totale di spesa di 2660 scudi. Scipione godé della stima del Granduca Ferdinando de’ Medici e dei sommi Pontefici; Innocenzo X lo nominò suo legato a Venezia e Alessandro VII legato presso l’imperatore di Germania e nel 1657 lo creò cardinale con il titolo di S. Sabina. Nel 1663 rinuciò, a favore del nipote Francesco, alla sede pisana e si trasferì a Roma.
Questi, era nato a Firenze nel 1626 dal conte Ranieri e dalla nobile Altoviti, fiorentina. Si distinse per la dottrine e per la prudenza tanto da diventare cameriere segreto del Papa e canonico di San Pietro. Nel 1663, a soli 37 anni, venne eletto da Alessandro VII arcivescovo di Pisa. Il 12 dicembre 1663, fece il solenne ingresso in città. Si impegnò moltissimo nella cura della sua diocesi. Infatti compì personalmente quattro visite pastorali, nel 1664-1667, nel 1672-1674, nel 1681-1687 e nel 1689-1701. Due furono le contese che lo videro protagonista. Si aprirono nel 1679: la prima riguardava i contrasti sullo ius visitationis in alcune chiese della diocesi nei confronti dei Priori della chiesa conventuale dell’Ordine di Santo Stefano; la seconda invece si aprì con il collegio dei Legisti, con i Priori e con i Deputati dello Studio universitario circa il conferimento delle lauree, ribadendo Francesco come fosse pieno ed esclusivo privilegio del vescovo pisano di conferirle.
L’ultimo personaggio oggetto di questo studio è Angelo Maria d’Elci. Nato a Firenze, nel palazzo d’Elci, in via di Maggio 28, il 7 dicembre 1754, dal marchese Ludovico e dalla marchesa Lucrezia di Angelo Niccolini, Angelo Maria Giuseppe Ambrogio, conte d’Elci, ricevette una educazione domestica secondo la prassi vigente per un giovane del suo ceto. Per l’educazione dei suoi nipoti Francesco e Roberto, si rivolse, insieme col fratello Orso Maria, al canonico Angelo Maria Bandini considerato fra i maggiori eruditi dell’età leopoldina. Durante il corso della sua vita fece innumerevoli viaggi e visse in luoghi diversi come dimostrano le moltissime lettere che sono conservate nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze. Nel 1783 era a Parigi, Vienna, Praga e Berlino, ma nel 1788 lo ritroviamo ancora a Parigi. Alcuni mesi del 1788 visse a Londra e fra il 1803 e 1805 fece innumerevoli viaggi in Olanda e Germania. Dalla primavera del 1789 fino a quella del 1796 visse a Milano. Nei due anni successivi fu invece a Firenze e dal 1799 fino alla sua morte, avvenuta il 20 novembre 1824, a Vienna. Divenne famoso, per i suoi contemporanei ma anche per i posteri, per la collezione di edizioni rare dei classici che raccolse, come testimoniano le innumerevoli lettere, con passione e grandi sacrifici. Ed il suo grandissimo merito fu quello di aver donato la sua preziosa collezione alla sua città natale, Firenze, anche se, non ebbe mai molta simpatia per i fiorentini. La sua ricchissima raccolta, che comprende le prime edizioni dei classici latini e greci, ai quali si aggiunsero incunaboli biblici in lingua ebraica, le edizioni aldine dell’ancora secca, e nel 1823, il «Memoriale completo di Pannartz e Sweyheym», venne donata ufficialmente il 15 luglio 1818.
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