Tesi etd-04032012-105644 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
BONITO, LAURA
URN
etd-04032012-105644
Titolo
Pietro Paolini e la congiura del Wallenstein: un dipinto tra arte e storia.
Dipartimento
INTERFACOLTA'
Corso di studi
STORIA DELL'ARTE
Relatori
relatore Prof. Farinella, Vincenzo
Parole chiave
- Albrecht von Wallenstein
- caravaggism
- caravaggismo
- congiura
- conspiracy
- Giulio Diodati
- guerra dei trent'anni
- Lucca
- murder of Wallenstein
- Pietro Paolini
- thirty years' war
Data inizio appello
23/04/2012
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
23/04/2052
Riassunto
La tragica fine di Albrecht von Wallenstein si inserì all’interno di un clima di drammatico sospetto scaturito presso la corte asburgica dell’imperatore Ferdinando II e fomentato dai principi elettori tedeschi, durante una delle fasi più complicate della Guerra dei Trent’anni.
Proprio quando era giunto al culmine della sua carriera militare, il generale boemo Wallenstein, personalità di punta all’interno dell’armata imperiale tedesca, non seppe arginare le forti ostilità dei suoi molteplici detrattori e finì con il rimanere prigioniero dell’inappropriata etichetta del condottiero pericoloso per la stabilità del casato asburgico, a causa della grande intraprendenza che caratterizzava il suo agire.
Infatti, nel corso di poco più di un decennio Albrecht von Wallenstein era riuscito ad organizzare, su iniziativa personale, un valido esercito, che fornì un aiuto fondamentale alle truppe dell’imperatore impegnate nell’estenuante conflitto di portata europea.
Ma furono proprio le straordinarie capacità organizzative dell’abile comandante boemo a suscitare in alcuni ambienti legati alla corte viennese una crescente antipatia e un profondo senso di invidia nei suoi confronti. Inoltre, l’azione demolitrice di quel fronte critico trovava spesso un facile terreno di diffusione a causa delle risapute ambiguità e delle numerose ombre caratteriali che contrassegnavano la carismatica personalità del Wallenstein.
Dunque, l’imperatore Ferdinando II decise di metter fine alla vita del suo fedele generale nel momento in cui a corte si fecero sempre più insistenti le voci di coloro che ritenevano che Albrecht von Wallenstein costituisse una seria minaccia per l’integrità dell’impero.
Con la congiura di Cheb del febbraio del 1634, ordita da una schiera di uomini collocati ai vertici dell’armata imperiale, alcuni dei quali, peraltro, avevano combattuto al fianco di Wallenstein per diverso tempo, furono eliminati sia il temuto generale boemo che i suoi ultimi fedelissimi.
L’incredibile violenza con cui si consumò il massacro del generalissimo e dei suoi sottoposti entrò presto nell’immaginario collettivo dell’epoca e, per quanto la figura del Wallenstein abbia subìto ufficialmente un processo di damnatio memoriae, funzionale alla giustificazione del complotto ai suoi danni, tuttavia il ricordo dell’operato politico-militare di Albrecht non si dileguò nel nulla: anzi, con il tempo, nei territori che avevano assistito alla rocambolesca parabola della sua esistenza, quella eliminazione così meschina probabilmente non fece altro che accrescere il mito del Wallenstein, anche sulla scia del malcontento prodotto dalla percezione del degrado in cui era caduta la Boemia dopo la fine del suo prestigioso signore.
Al di là dell’impatto provocato dalla congiura di Cheb soprattutto nelle aree geografiche limitrofe, si può osservare come l’intera esistenza di Albrecht von Wallenstein abbia destato una notevole curiosità presso i contemporanei anche fuori dai confini boemi.
In questa sede si vuole dare soprattutto il meritato risalto ad un episodio pittorico che, per quanto si sia svolto in una città molto lontana dai luoghi del Wallenstein, è riuscito a conservare con incredibile dovizia di dettagli la cruda testimonianza visiva del massacro di Cheb del 1634. Praticamente già all’indomani dell’uccisione del Wallenstein e dei suoi ufficiali, i lucchesi Diodati commissionarono al loro conterraneo Pietro Paolini due grandi tele che illustravano le due rispettive fasi della congiura, una con la rappresentazione della morte del condottiero boemo, l’altra con l’assassinio dei suoi fedelissimi.
I Diodati avevano sposato la causa imperiale, pur non avendo preso attivamente parte al processo di eliminazione del generalissimo. Infatti, Giulio e Fabio Diodati erano stati sottoposti del Wallenstein, ma gli voltarono le spalle non appena vennero a sapere che Ferdinando II, per soffocare ogni dubbio sull’atteggiamento ambiguo del generale boemo, aveva deciso di farlo uccidere insieme ai suoi fedelissimi. I Diodati, quindi, abbandonarono precipitosamente le loro posizioni nell’armata comandata da Wallenstein e si misero in salvo. La celere committenza lucchese fu con molta probabilità richiesta da Ottavio Diodati, fratello dei due combattenti, per rimarcare con timore reverenziale la sottomissione all’imperatore tedesco, in un delicato clima di diffidenza generale nel quale non risultavano più chiare le posizioni dei singoli comandanti dell’esercito di Ferdinando.
Proprio quando era giunto al culmine della sua carriera militare, il generale boemo Wallenstein, personalità di punta all’interno dell’armata imperiale tedesca, non seppe arginare le forti ostilità dei suoi molteplici detrattori e finì con il rimanere prigioniero dell’inappropriata etichetta del condottiero pericoloso per la stabilità del casato asburgico, a causa della grande intraprendenza che caratterizzava il suo agire.
Infatti, nel corso di poco più di un decennio Albrecht von Wallenstein era riuscito ad organizzare, su iniziativa personale, un valido esercito, che fornì un aiuto fondamentale alle truppe dell’imperatore impegnate nell’estenuante conflitto di portata europea.
Ma furono proprio le straordinarie capacità organizzative dell’abile comandante boemo a suscitare in alcuni ambienti legati alla corte viennese una crescente antipatia e un profondo senso di invidia nei suoi confronti. Inoltre, l’azione demolitrice di quel fronte critico trovava spesso un facile terreno di diffusione a causa delle risapute ambiguità e delle numerose ombre caratteriali che contrassegnavano la carismatica personalità del Wallenstein.
Dunque, l’imperatore Ferdinando II decise di metter fine alla vita del suo fedele generale nel momento in cui a corte si fecero sempre più insistenti le voci di coloro che ritenevano che Albrecht von Wallenstein costituisse una seria minaccia per l’integrità dell’impero.
Con la congiura di Cheb del febbraio del 1634, ordita da una schiera di uomini collocati ai vertici dell’armata imperiale, alcuni dei quali, peraltro, avevano combattuto al fianco di Wallenstein per diverso tempo, furono eliminati sia il temuto generale boemo che i suoi ultimi fedelissimi.
L’incredibile violenza con cui si consumò il massacro del generalissimo e dei suoi sottoposti entrò presto nell’immaginario collettivo dell’epoca e, per quanto la figura del Wallenstein abbia subìto ufficialmente un processo di damnatio memoriae, funzionale alla giustificazione del complotto ai suoi danni, tuttavia il ricordo dell’operato politico-militare di Albrecht non si dileguò nel nulla: anzi, con il tempo, nei territori che avevano assistito alla rocambolesca parabola della sua esistenza, quella eliminazione così meschina probabilmente non fece altro che accrescere il mito del Wallenstein, anche sulla scia del malcontento prodotto dalla percezione del degrado in cui era caduta la Boemia dopo la fine del suo prestigioso signore.
Al di là dell’impatto provocato dalla congiura di Cheb soprattutto nelle aree geografiche limitrofe, si può osservare come l’intera esistenza di Albrecht von Wallenstein abbia destato una notevole curiosità presso i contemporanei anche fuori dai confini boemi.
In questa sede si vuole dare soprattutto il meritato risalto ad un episodio pittorico che, per quanto si sia svolto in una città molto lontana dai luoghi del Wallenstein, è riuscito a conservare con incredibile dovizia di dettagli la cruda testimonianza visiva del massacro di Cheb del 1634. Praticamente già all’indomani dell’uccisione del Wallenstein e dei suoi ufficiali, i lucchesi Diodati commissionarono al loro conterraneo Pietro Paolini due grandi tele che illustravano le due rispettive fasi della congiura, una con la rappresentazione della morte del condottiero boemo, l’altra con l’assassinio dei suoi fedelissimi.
I Diodati avevano sposato la causa imperiale, pur non avendo preso attivamente parte al processo di eliminazione del generalissimo. Infatti, Giulio e Fabio Diodati erano stati sottoposti del Wallenstein, ma gli voltarono le spalle non appena vennero a sapere che Ferdinando II, per soffocare ogni dubbio sull’atteggiamento ambiguo del generale boemo, aveva deciso di farlo uccidere insieme ai suoi fedelissimi. I Diodati, quindi, abbandonarono precipitosamente le loro posizioni nell’armata comandata da Wallenstein e si misero in salvo. La celere committenza lucchese fu con molta probabilità richiesta da Ottavio Diodati, fratello dei due combattenti, per rimarcare con timore reverenziale la sottomissione all’imperatore tedesco, in un delicato clima di diffidenza generale nel quale non risultavano più chiare le posizioni dei singoli comandanti dell’esercito di Ferdinando.
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