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Archivio digitale delle tesi discusse presso l'Università di Pisa

Tesi etd-04012016-020525


Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
MAZZA, FRANCESCO
URN
etd-04012016-020525
Titolo
Il sistema cautelare per gli imputati minorenni: specificità e problematiche
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Bresciani, Luca
Parole chiave
  • misure cautelari
Data inizio appello
18/04/2016
Consultabilità
Completa
Riassunto
1.1- Uno sguardo al percorso normativo sovranazionale

Alla metà del XIX secolo, le scienze antropologiche cominciarono a manifestare l'esigenza di riformare la giustizia penale nei confronti dei minori, adattandola alle peculiari caratteristiche di tali soggetti. La particolarità del diritto penale minorile è infatti che i suoi destinatari sono soggetti nei quali le caratteristiche psico-fisiche e la personalità sono ancora in fase di sviluppo. Se da un lato il minore risulta essere educabile con maggiore facilità rispetto all'adulto, dall'altro risulta più incline agli influssi criminogeni che possono scaturire da trattamenti penali non adeguati ad un soggetto con tante peculiarità1.
Prima del secolo scorso il minore era considerato alla stregua dell'adulto dal punto di vista procedimentale ed erano i singoli Stati a disciplinare discrezionalmente la materia: quasi ovunque si riconosceva una potestas assoluta del padre sul figlio minorenne.
Il primo Tribunale per minorenni, chiamato Juvenile Court, fu istituito a Chicago nel 1899: un giudice specializzato che poteva applicare sanzioni correttive o anche soltanto educative, competente a giudicare tutti i minori di anni dieci. Si trattava, comunque, di un istituzione con una marcata impronta paternalistica, che mancava delle garanzie necessarie secondo i criteri della giurisprudenza classica, e per il quale non fu mai prevista una disciplina speciale2.
In seguito altri Tribunali, sull'esempio di Chicago, furono istituiti a Boston e New York. Per quanto riguarda l'Europa, nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, con il quale venne abolita quasi del tutto la pena di morte per i minori e stabilito che nessun minore di 16 anni potesse essere condannato al carcere3.
Seguendo quest'esempio, altri Paesi sentirono il bisogno di istituire un organo giurisdizionale idoneo ad esaminare sia il crimine commesso dal minore sia il contesto sociale e familiare in cui è maturata la sua personalità.
Il primo atto internazionale non vincolante a disciplinare specificatamente la giustizia penale minorile furono le Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile (c.d. Regole di Pechino), adottate dal VI Congresso dell'ONU il 29 Novembre 1985.
Questo atto è stato fonte per tutti i codici penali moderni, compreso quello italiano, poiché per primo disciplinò forme di giustizia specifiche per il minore, che tendessero a rieducare e reinserire il minore, uscendo da una concezione puramente retribuzionistica.
Alcune novità sono così rilevanti che ancora oggi le troviamo nei moderni codici di giustizia penale minorile, quali: la limitazione della libertà personale soltanto come extrema ratio, la quale deve essere sostituita tutte le volte che risulti possibile da misure alternative quali la sorveglianza o l'affidamento alla famiglia o ad una comunità (agenzia educativa); la custodia preventiva disposta in istituti separati dagli adulti o in una parte distinta dell'istituto; la previsione di cure, protezione e assistenza individuale necessari per l'età, il sesso e la personalità; la previsione di sanzioni alternative come multa, risarcimento e restituzione; l'applicazione di misure di probation.
Le Regole di Pechino furono incorporate nella Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, approvata a New York il 20 Novembre del 1989: si tratta di un documento vincolante per gli Stati firmatari che costituisce il trattato in materia di diritti umani con il maggior numero di ratifiche (sono 194 gli Stati firmatari). In Italia fu resa esecutiva con la l. n. 176/91, che, oltre a ribadire ciò che era stato affermati nei precedenti documenti in ambito di giustizia minorile, introduce alcune importanti novità sebbene non inerenti all' ambito processuale.
Le Regole di Pechino, assieme alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R(87)20, del 17 Settembre 1987, sulle risposte sociali alla delinquenza giovanile4, sono espressamente prese in considerazione dal legislatore delegato, come confermato dalla Relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul nuovo processo minorile ove si afferma che questi atti "ribadiscono il diritto del minore a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano il rinforzo".
Per quanto riguarda la collocazione di questi atti nel sistema delle fonti, è stato osservato che anche il processo penale minorile deve "adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale" come stabilito al primo alinea dell'art. 2 della l. 16 Febbraio 1987 n. 81 per il nuovo processo penale, in ragione del riferimento ai principi generali di questo processo espresso per il processo penale minorile dall'art. 3 comma uno l. n. 81 del 1987.
Appare evidente come anche a livello internazionale è mutato profondamente l'approccio nei confronti del minore, inizialmente visto soltanto come soggetto da contenere e correggere nell'ottica della tutela della comunità (che pure non ha perso la sua rilevanza), in seguito come un'identità in piena evoluzione, in capo alla quale sorgono dei diritti, bisognosa di misure ad hoc capaci di rieducarlo allontanandolo da quelle situazioni che sono causa di devianza.

1.2- Gli inizi del percorso legislativo in Italia

In Italia un sistema penale autonomo per i minori è giunto con leggero ritardo rispetto ad altri Paesi Occidentali, il primo passo in tal senso fu la Circolare dell'11 Maggio 1908 ad opera del Ministro Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando, con la quale venivano poste le basi per l'affermazione, nell'ambito del diritto minorile, dei principi della specializzazione del giudice dei minorenni, della non pubblicità del processo in cui è coinvolto un minore e della necessità dell'indagine diretta ad acclarare la personalità del minore.
L'importanza di questa circolare, che pure non sortì nell'immediato gli effetti sperati, nel percorso che ha portato all'affermazione del principio di specializzazione del giudice dei Minorenni è stata richiamata anche recentemente dalla Corte di Cassazione (sez. V pen., 16 Settembre 2008, n. 38481): attualmente infatti il giudice dei minori è caratterizzato sì dalla specifica competenza in ambito minorile, ma soprattutto dalla presenza, accanto ai magistrati ordinari, di giudici non togati esperti in psicologia e/o pedagogia.
Nel 1909 ebbe inizio il progetto per la redazione di un Codice dei Minorenni, che prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato, affidato a un'apposita commissione al cui vertice vi era il senatore Quarta. Il progetto non divenne legge, ma costituì la base per i seguenti progetti Ferri e Ollandini.
Nel 1921 Enrico Ferri a capo di un'apposita commissione formulò un progetto di riforma che, prevedendo anch'esso l'istituzione di un giudice specializzato, andasse ad indagare l'insieme delle cause sociali, familiari, psicologiche, ereditarie ed evolutive del minore portato a delinquere. L'approccio particolarmente scientifico alla base della riforma fu forse una delle cause che non lo portò all'approvazione da parte del Parlamento.
Il progetto Ollandini invece prevedeva l'istituzione di un Tribunale specializzato in ogni città con popolazione superiore ai duecentomila abitanti, ma nemmeno questo tentativo legislativo giunse all'approvazione.
Nel 1930 furono approvati il nuovo codice penale (il codice Rocco) e il codice di procedura penale. Fu fissata a 18 anni la piena capacità penale, mentre nei casi riguardanti minori tra i quattordici anni e i diciotto anni il compito di accertare l'eventuale imputabilità veniva rimesso al giudice, in riferimento al possesso della capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui il minore fosse ritenuto non imputabile ma comunque socialmente pericoloso poteva essere applicata una misura di sicurezza come il riformatorio giudiziale o la libertà vigilata.
Per i minori imputabili invece era previsto che scontassero le pene in istituti separati da quelli degli adulti fino al compimento della maggiore età, inoltre la pena doveva essere finalizzata a una rieducazione morale.

1.3- Il r.d.l. n. 1404 del 1934

La creazione di un Tribunale specializzato per i minori arrivò nel 1934 con il r.d.l. n. 14045 (che rappresenta la prima disciplina sistematica del settore), convertito con la l. n. 835 del 1935, in cui trovarono finalmente attuazione tutti i precedenti progetti di riforma esaminati e i movimenti umanitari sviluppatisi negli anni precedenti. Al Tribunale venne attribuita la competenza di giudice di primo grado in materia penale, civile e amministrativa, distinta da quella del giudice ordinario.
Era prevista all'art. 5 la possibilità di proporre appello, nei casi stabiliti dalla legge, presso una sezione specializzata della Corte d'Appello.
Nello stesso edificio dove era situato il Tribunale, era prevista la creazione dei centri di rieducazione dei minori composti da un riformatorio giudiziario, un riformatorio per corrigendi, un carcere per minorenni, uffici di servizio sociale per i minorenne, nonché un centro di osservazione per minorenni.
Una delle particolarità del decreto del '34 fu la possibilità per il giudice, introdotta con l'art. 25, di adottare misure rieducative nell'ambito della propria competenza amministrativa quali l'internamento al riformatorio per corrigendi6, applicabile al minore di diciotto anni che "avesse dato, per abitudini contratte, manifeste prove di traviamento” e risultasse per questo "bisognevole di correzione morale".
Col tempo però i giudici non seguirono più i criteri guida fissati dal testo della legge e finirono con l'applicare l'internamento al riformatorio anche a soggetti non traviati, le cui situazioni familiari denotavano uno stato di degrado e abbandono.
Inoltre, non essendo previsto un limite alla permanenza in questi istituti, essa si concludeva solo quando il soggetto non si mostrasse agli occhi del giudice più necessario di correzione oppure col compimento dei diciotto anni, con conseguente allontanamento prolungato dalla comunità, trasformando i minori in delinquenti veri e propri senza perseguire il fine rieducativo cui in astratto si sarebbe voluto tendere.
Tali istituti si rivelarono avere caratteristiche non difformi da vere e proprie carceri penali: i minori venivano collocati in edifici rigorosamente chiusi e protetti da inferriate e cancelli dai quali non potevano allontanarsi, perdendo ogni contatto con il contesto sociale dal quale provenivano.
Questo decreto, quindi, seppur ideato con nobili fini, rispecchia il difficile contesto politico-sociale in cui venne alla luce, che ne rappresenta il limite più evidente: uno Stato forte come quello fascista, che aveva il pieno controllo su ogni aspetto della vita degli individui, era, in quell'ottica, la prima forma di prevenzione per la devianza dei giovani.
Di fronte al manifestarsi di un'eventuale devianza, lo Stato la affrontava in termini di malattia: la pena, dunque, era vista come una sorta di terapia per il soggetto malato, con la conseguenza che ci si concentrò di più sul controllo e la contenzione del minore, che sul fornire aiuto e sostegno per eliminare le cause devianti.
Con l'entrata in vigore della Costituzione si ha l'introduzione di una serie di nuovi principi che si collocano come fonte primaria nell'ordinamento: tali principi rispecchiano i valori e gli ideali dei Padri Costituenti come reazione al regime fascista.
Per quanto riguarda il processo minorile si fa riferimento all'art. 27, terzo comma e al 31, secondo comma. L'art. 27, terzo comma, afferma il principio rieducativo della pena: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La mancanza, in questa disposizione e nei lavori preparatori, di un esplicito riferimento ai minori è stata colmata successivamente dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale7.
L'articolo 31, secondo comma, dispone invece che la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".
Appare quindi evidente che l'impianto fascista su cui è stata costruita la competenza amministrativa del Tribunale e l'impianto delle misure rieducative necessitavano di essere riviste alla luce dell'entrata in vigore della Costituzione, affinché si potessero realizzare al meglio i principi in essa affermati.

1.4- La l. n. 888 del 1956

La risposta a queste esigenze arrivò con la l. n. 888 del 1956 la quale modificò notevolmente il r.d.l. n. 404/1934 attraverso un ampliamento della competenza amministrativa del Tribunale e un sistema di individualizzazione delle misure e del trattamento che limitasse la detenzione carceraria soltanto ai casi in cui risultasse strettamente necessaria.
Fu previsto che le indagini per la personalizzazione delle misure fossero svolte non più dal pubblico ministero ma da un componente del Tribunale e inoltre furono previsti o modificati, all'art. 1, una serie di istituti per l'assistenza al minore, quali: gli istituti di osservazione, i gabinetti medico-psico-pedagogici, le case di rieducazione ed istituti medico-psicopedagogici, gli uffici di servizio sociale per minorenni, i "focolari" di semi-libertà e pensionati giovanili, le prigioni scuola e i riformatori giudiziari8.
La novità più significativa è costituita dalla definitiva creazione dell'ufficio del servizio sociale per i minorenni (già previsto dal r.d. n. 1404/34 ma mai entrati concretamente in funzione), chiamato inizialmente a collaborare con il giudice minorile per l'esecuzione dei provvedimenti amministrativi ed in particolare della misura di rieducazione dell'affidamento ai servizi sociali introdotta con la medesima legge9.
In tal senso è significativa la valorizzazione, all'interno delle case di rieducazione, della figura dell'educatore10 al quale è devoluto il compito di costituire un modello di identificazione positivo affinché il minore possa (ri)costruire la propria personalità e il mondo dei valori e delle norme11. L'intento era quello di limitare al massimo l'internamento del minore, privilegiando un'assistenza nelle forme della libertà assistita, attraverso la previsione e la realizzazione di un progetto educativo che vedeva la collaborazione tra servizi e giudice nel momento di adozione della misura stessa12.
Questa riforma portò a un cambiamento dei presupposti per l'applicazione della misura: non si tratta più di giovani "traviati", bensì di "soggetti irregolari per condotta o carattere", irregolarità che deve essere accertata attraverso "approfondite indagini sulla personalità del minore", esplicate da uno dei componenti del Tribunale per i minorenni designato dal Presidente13: questo cambiamento permise di circoscrivere l'intervento amministrativo a quei minori che esprimevano una concreta devianza con il rischio di incorrere nella commissione di reati.
Vi erano quindi tutti i presupposti per un effettivo mutamento negli interventi amministrativi, grazie ad una adeguata individuazione delle tipologie di soggetti destinatari degli stessi che, con rigore interpretativo andavano circoscritti solo a quelli effettivamente a rischio dimissione di reati ed il cui comportamento fosse espressione di devianza. Ciò avrebbe consentito di distinguere chiaramente gli interventi comunque limitativi della libertà personale finalizzati, oltre che ad una ripresa dei processi educativi del minore, anche a concorrenti esigenze di tutela dell'ordine pubblico, dagli interventi di carattere meramente assistenziale, indirizzati a soggetti in situazioni di carenza familiare e, quindi, bisognevoli esclusivamente di supporto e sostegno14.
Purtroppo però questo sistema non raggiunse i risultati sperati: istituti identici venivano usati per far fronte a situazioni che avrebbero richiesto trattamenti differenziati e inoltre alcuni interventi che il legislatore aveva voluto differenziare si rivelarono sostanzialmente identici fra loro.
Così la richiesta di internamento dei figli da parte della famiglie, prevista dalla l. n. 888/56, finì col supplire alle carenze educative familiari o scolastiche, piuttosto che rappresentare una risposta a irregolarità nella condotta o nel carattere del minore, cancellando di fatto la differenza fra il fine rieducativo e quello assistenziale.
Il risultato fu che, nonostante un'apertura alle necessità ed esigenze del minore, continua non si riuscì a separare nettamente l'assistenza dal controllo con la conseguenza che l'ideologia rieducativa convive di fatto con quella custodiale degli anni passati15.
La crisi del sistema alimentò negli anni '70 un dibattito fra gli stessi operatori incentrato da un lato sull'esigenza di superare l'istituzionalizzazione prolungata e l'internamento in strutture chiuse che nei giovani sono causa della formazione di una identità negativa, di immagini di sé e di ruoli sociali degradanti16, dall'altro di giungere a una completa depenalizzazione delle norme sanzionatorie che portasse a una decarcerizzazione per i minori, sospinta anche dall'approvazione della riforma penitenziaria del 1975 che, seppur sembrò non interessarsi particolarmente allo specifico minorile, ne influenzò il relativo dibattito.

1.5- Il d.p.r. n. 616 del 1977: il decentramento agli enti locali

Fu in questo clima che si giunse al d.p.r. n. 616 del 1977 con il quale si attribuiva la competenza della giurisdizione minorile in campo amministrativo e civile ai servizi sociali dei Comuni (decentralizzazione) e si aboliva la negativa esperienza delle Case di rieducazione.
Si arrivò quindi a una distinzione fra la competenza in campo penale attribuita allo Stato (con finalità punitiva) e quella in campo amministrativo e civile attribuita agli Enti Locali (con finalità rieducativa): l'idea era quella di discostarsi dal precedente modello in cui il minore era rinchiuso all'interno di un istituto lontano dalla società e di agire direttamente sul proprio contesto sociale al fine di rimuoverne quegli ostacoli che erano fonte di devianza.
Questo prevedeva la permanenza del minore all'interno dell'ambito sociale di appartenenza, li dove sarebbero intervenuti i servizi sociali comunali.
Molti Comuni però si trovarono impreparati a fronteggiare la situazione, finendo col fornire le sole misure assistenziali anche di fronte ai comportamenti devianti che avrebbero necessitato invece di risposte rieducative; il vuoto legislativo creatosi comportò per i giudici di trovarsi di fronte alla scelta di rinunciare a qualsiasi intervento o di applicare pene detentive sproporzionate al caso in esame.
Appariva ormai chiara l'ambivalenza sia delle misure di rieducazione che dell'intero sistema penale minorile che oscillava fra provvedimenti meramente clemenziali, quali ad esempio il perdono giudiziale, il quale veniva applicato in modo automatico per fatti di lieve entità, e la risposta meramente retributiva, non marcatamente differenziata rispetto agli adulti, sia per quanto riguarda l'entità della pena inflitta, sia per quanto riguarda le modalità di esecuzione o l'eventuale diversificazione delle risposte sanzionatorie.
Senza dubbio è in questo periodo storico che si ha la presa di coscienza, come evidenziato dalle pronunce della Corte Costituzionale17, in ordine all'esigenza di ridurre al massimo sia la carcerazione, ma soprattutto anche gli interventi rieducativi all'interno di strutture chiuse, limitando l'intervento giudiziario a casi e situazioni ben definiti18.

1.6- Il nuovo processo penale minorile: il d.p.r. 448 del 1988

In seguito alle numerose sentenze della Corte Costituzionale, alle Convenzioni e alle Dichiarazioni internazionali che si susseguirono prese il via in Italia il progetto di redazione di un nuovo processo penale minorile.
Al momento della redazione del provvedimento vennero alla luce due possibili e contrapposte impostazioni: la prima sosteneva la necessità di inserire la normativa del nuovo processo minorile all'interno del codice di procedura penale, la seconda invece riteneva necessaria la predisposizione di un autonomo decreto delegato; questa seconda opinione fu quella prevalente sia per la specificità della materia in oggetto e in–oltre per non “appesantire” in maniera ulteriore un codice di notevole estensione e complessità19.
Il d.p.r. 448, emanato il 22 Settembre del 1988 in seguito alla legge delega n. 81 del 1987, e completato poi dal d.lgs n. 272 del 1989 recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, delinea un sistema di giustizia penale diversificato, dove il momento più significativo è rappresentato dal passaggio del minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di "esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal minore20.
Occorre innanzitutto sottolineare che non fu toccato l’aspetto ordinamentale, e neppure quello sostanziale: si ebbe così un processo penale minorile del tutto nuovo, da celebrarsi però davanti a
un giudice "vecchio", che applicava un sistema sanzionatorio che era stato previsto fin dalla sua origine per gli imputati adulti.
E una conferma a quello che si è appena detto la si trova nei continui richiami, da parte dell'intero d.p.r. n. 448/88, alle esigenze educative del minore, che pongono contrasti con i principi di tassatività della pena e di legalità: un tale sistema pone dubbi di legittimità costituzionale alla luce dell'art. 13 Cost. secondo cui le limitazioni alla libertà personale devono avvenire nei "casi e modi previsti dalla legge".
Ciò si concretizza nell'ampia discrezionalità lasciata al giudice al momento della scelta delle misure cautelari da adottare nei confronti dell'imputato, per le quali egli dovrà tener conto, in aggiunta ai criteri ex art. 275 c.p.p., anche di non interrompere i processi educativi in atto: si faccia riferimento, ad esempio, alla misura delle prescrizioni, il cui contenuto può essere fra i più ampi e disparati dall'obbligo di frequentare attività di volontariato al divieto di stare fuori casa oltre una certa ora. Sarebbe stato più opportuno ridurre i margini di questa discrezionalità attraverso l'introduzione di ulteriori criteri che riflettessero la specificità del processo minorile.

1.7- I principi generali del processo minorile

Il codice processuale minorile contiene una serie di principi che si discostano da quello per gli adulti proprio in virtù della specificità della condizione del minore al momento dell'instaurazione del processo penale: all'articolo 1 viene enunciato il principio di sussidiarietà: "Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale"21.
La norma quindi ci avverte che le disposizioni contenute nel presente decreto non sono del tutto autosufficienti e laddove siano presenti delle lacune si dovrà fare riferimento all'ordinario codice di procedura penale.
Il rinvio operato dall'articolo 1 ha posto dubbi interpretativi circa la sua natura: se si tratta di un rinvio materiale ogni modificazione (pronunce di incostituzionalità e abrogazioni) alle disposizioni del codice processuale ordinario non opererebbe per il d.p.r. n. 448 il quale, invece, continuerebbe a fare riferimento al testo originario del codice; se invece si accoglie l'impostazione di chi vi abbia ravvisato un rinvio formale, si consentirebbe al nuovo codice di adeguarsi all'evoluzione dell'ordinario codice processuale penale, applicando disposizioni concretamente vigenti, previa compatibilità delle norme alla luce delle modificazioni.
La dottrina maggioritaria ha adottato quest'ultima impostazione per non condannare i due sistemi a muoversi lungo linee inevitabilmente divaricate, in quanto il quadro di riferimento per il rito minorile rimarrebbe fermo nel tempo, mentre la giustizia penale per adulti seguirebbe propri itinerari evolutivi in grado di mutarne, anche in modo significativo, i caratteri connotativi22.
A sostegno di questa interpretazione anche la sentenza n. 323/2000 della Corte Costituzionale, che ha evidenziato come nel dubbio circa l'applicazione fra due norme si debba il principio del favor rei nei confronti dell'imputato minorenne.
Un altro problema che sorge nell'interpretazione dell'articolo 1 d.p.r.. n. 448/88 riguarda la scelta delle norme del c.p.p. cui si deve fare rinvio: esse devono essere applicate secondo un'interpretazione sistematica per escludere eventuali situazioni di incompatibilità con le norme o i principi del processo dei minori.
Contestualmente al principio di sussidiarietà, all'art. 1, è affermato il principio di adeguatezza: "Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne".
Si fa riferimento alla fase applicativa delle norme posta in essere dal giudice, quando vengono individuate le misure cautelari e definitive da applicare al minore: in accordo con questo principio il giudice non dovrà limitarsi a una mera applicazione automatica ma dovrà individuare le varie misure facendo riferimento alla situazione del minore: ambiente familiare, problemi personali e percorso educativo passato od eventualmente in atto. Solo tenendo conto di questi elementi il giudice potrà perseguire il fine rieducativo e di reinserimento sociale cui l'intero sistema tende.
Un altro dei principi fondanti del processo penale minorile è quello di minima offensività del processo in quanto esso concretizza il fine del recupero sociale del minore che ha commesso un reato.
Il contatto fra il minore e il processo penale può essere causa di notevoli sofferenze psicologiche che potrebbero arrecare grave pregiudizio al percorso educativo e di crescita del minore: espressione di questo principio in ambito cautelare è la facoltatività che caratterizza l'intervento del giudice, su cui ci soffermeremo meglio nel prossimo capitolo.
L'ultimo principio riguarda la residualità della detenzione che, in conformità alle pronunce della Corte Costituzionale, sottolinea che la pena detentiva nei confronti del minore deve rappresentare l'extrema ratio: per questo sono previste misure alternative alla custodia detentiva che riducano l'impatto sulla sfera psico-emotiva del minore.



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