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Archivio digitale delle tesi discusse presso l’Università di Pisa

Tesi etd-03302021-115033


Tipo di tesi
Tesi di specializzazione (5 anni)
Autore
FERRUCCI, CHIARA
URN
etd-03302021-115033
Titolo
Polmonite da COVID-19 un anno dopo: dalla fisiopatologia alla terapia, una revisione critica della letteratura.
Dipartimento
PATOLOGIA CHIRURGICA, MEDICA, MOLECOLARE E DELL'AREA CRITICA
Corso di studi
ANESTESIA, RIANIMAZIONE, TERAPIA INTENSIVA E DEL DOLORE
Relatori
relatore Dott. Malacarne, Paolo
relatore Prof. Forfori, Francesco
Parole chiave
  • ECMO
  • pronazione
  • IMV
  • CPAP
  • NIV
  • HFNC
  • ventilazione
  • ARDS
  • AHRF
  • COVID-19
  • SARS-CoV2
Data inizio appello
22/04/2021
Consultabilità
Tesi non consultabile
Riassunto
Il lavoro proposto consiste in una revisione sistematica e critica della letteratura riguardo l’insufficienza respiratoria acuta sostenuta dall’infezione di un nuovo coronavisurus (SARS CoV-2); la patologia che ne deriva è riassunta nell’acronimo COVID (coronavirus disease)-19 (2019, anno in cui il patogeno è stato isolato). Il presente scritto si concentra prevalentemente sulle evidenze disponibili circa le diverse strategie di supporto ventilatorio ad oggi in essere, in particolare in pazienti con insufficienza respiratoria acuta ricoverati in reparti di Terapia Intensiva.
Emersa a Wuhan, in Cina, nel dicembre 2019, ha raggiunto rapidamente le dimensioni di pandemia (Dichiarazione OMS, febbraio 2020).
COVID-19 induce, nelle sue forme più gravi, una profonda ipossiemia, spesso non accompagnata da contestuale sintomatologia dispnoica (“ipossiemia silente”): i meccanismi fisiopatologici proposti includono la presenza di una compliance polmonare normale (o quasi) nelle prime fasi della malattia, che consentirebbe di aumentare i volumi correnti inspirati; l’ipossiemia in sé di rado induce dispnea se non accompagnata da ipercapnia, e l’aumento del volume inspirato è sufficiente a produrre un compenso meccanico, e ad evitare l’insorgere della sintomatologia, nonostante l’ipossiemia persista. Il progressivo incremento della negativizzazione della pressione pleurica, indotta da sforzi respiratori eccesivi e protratti, contribuisce al determinismo dell’edema polmonare (P-SILI); l’invasione virale in sé determina il rilascio di mediatori infiammatori, l’attivazione e down regolazione del recettore per l’angiotensina (ACE2), con aumento di quest’ultima; si verifica una diffusa attivazione della coagulazione, con macro e microtrombosi a livello dei vasi polmonari, e lesione endoteliale, condizione che determina edema, diffusa alterazione del rapporto V/Q, alterazione del meccanismo di vasocostrizione ipossica e shunt intrapolmonari. L’invasione virale diretta a livello delle cellule alveolari ne determina la distruzione, e, in associazione con lo stato di ipercoagulabilità, deposito di fibrina ed altro materiale prodotto dall’attivazione di mediatori infiammatori, con deposito di membrane ialine, ed alterazione della diffusione a livello dell’interfaccia alveolo-capillare. Il quadro che ne deriverà sarà del tutto simile all’ARDS.
Alcuni autori ritengono che l’ARDS sostenuta da COVID-19 sia “atipica” e che possano essere distinti due fenotipi: il tipo L (nelle fasi iniziali, infiltrati non consolidati con ampie aree di parenchima indenne; buona compliance, possibilità di utilizzare volumi tidalici più elevati, scarso potenziale di reclutamento, buona risposta alla pronazione) e il tipo H (ampie aree di parenchima consolidate, compliance ridotta, necessità di ventilazione protettiva, con bassi volumi tidalici e bassa pressione di plateau; buona risposta ad elevati livelli di PEEP, ampio margine di reclutamento). Questa distinzione sembra eccessivamente semplicistica; i due modelli andrebbero considerati come le estremità di uno spettro, che nella realtà clinica tendono a sovrapporsi, e le strategie di ventilazione andranno individualizzate, in mancanza di evidenze sufficientemente solide.
Le evidenze circa l’uso di strategie non invasive sono state ampiamente analizzate. Le cannule nasali ad alto flusso (HFNC) riducono il lavoro respiratorio attraverso il wash out dello spazio morto anatomico, migliorano, grazie all’umidificazione, la clearance mucociliare, consentono l’erogazione di elevate FiO2 e forniscono un certo livello di PEEP. La ventilazione non invasiva (NIV) e la CPAP, prevedono un’interfaccia (maschere, casco) tra ventilatore ed un paziente che respira spontaneamente. La prima fornisce un supporto pressorio inspiratorio, una PEEP, una FiO2, e può farsi carico di parte o tutto il lavoro respiratorio; favorirà l’ossigenazione (aumento della frazione di ossigeno inspirato, del volume corrente, reclutamento di aree atelettasiche) e la clearance della CO2; le modalità disponibili sono diverse (PSV, BiPAP). La CPAP fornisce una pressione costante durante tutto il ciclo respiratorio (PEEP) e non prevede supporto. Migliora l’ossigenazione riequilibrando il rapporto V/Q, e riduce il precarico grazie all’aumento della pressione intratoracica. I vantaggi consistono nella possibilità di evitare l’intubazione tracheale e la ventilazione meccanica, con i rischi e le complicanze associate; è noto che questa correla con un maggior tasso di morbilità e mortalità. D’altra parte, l’uso di strategie non invasive espone al rischio di danno polmonare autoindotto, e a un’intubazione ritardata o d’urgenza; c’è timore circa la dispersione di aerosol, e la possibilità di trasmissione agli operatori sanitari. Nonostante le evidenze disponibili non siano ancora unanimemente concordi, si può concludere che le strategie non invasive siano una buona alternativa in pazienti relativamente stabili, che non richiedano intubazione immediata, a patto di uno stretto monitoraggio al fine di intercettare un eventuale fallimento e procedere all’escalation dell’ossigenoterapia. Sono disponibili degli score volti a predire il fallimento delle HFNC (ROX), o della NIV/CPAP (Hacor score).
La ventilazione meccanica invasiva a pressione positiva (IMV) è indicata in caso di grave ipossiemia/ipercapnia/acidosi non altrimenti responsiva, coma/agitazione, o incapacità di proteggere le vie aree, richiede una via aerea artificiale e spesso una sedazione/curarizzazione; il paziente può essere totalmente passivo (modalità assistite) o partecipare in diversa misura (modalità controllate). Nonostante il crescente numero di evidenze a supporto di strategie non invasive in COVID, vantaggiose anche in termini di risorse, l’IMV è ancora considerata il gold standard nell’ARDS grave. Sono state raccolte e analizzate un gran numero di evidenze relative alle indicazioni, ai rischi (VAP, VILI), ai predittori di esito e al timing ottimale. Riguardo le modalità d’impostazione della ventilazione, non c’è concordia: alcuni autori ritengono che la ventilazione protettiva (bassi volumi correnti, bassa Pplat, elevata PEEP) andrebbe sempre adottata; altri affermano che nel COVID-19, date le peculiarità sovraesposte (proprietà meccaniche conservate nelle prime fasi di malattia), in caso di compliance conservata, e ampie zone di parenchima indenne, si dovrebbero adottare volumi correnti più elevati e ridurre la PEEP. Si potrebbe concludere che, viste le evidenze non ancora conclusive, la strategia andrebbe individualizzata, tenendo presente la fisiopatologia respiratoria nell’ARDS, e i principi che regolano la IMV, ampiamente esposti.
La pronazione, in paziente sveglio o sedato, può migliorare l’ossigenazione, attraverso un aumento della porzione di parenchima ventilabile, una più omogenea distribuzione del rapporto V/Q e la riduzione della frazione di shunt.
L’ECMO (Extra Corporeal Membrane Oxygenation) è stato utilizzato in pazienti COVID selezionati, non responsivi ad altre strategie volte a migliorare l’ossigenazione, come trattamento di salvataggio. Le evidenze disponibili sono scarse; alcuni lavori suggeriscono che il VV-ECMO possa ridurre la mortalità, ma non sono disponibili dati sufficienti per trarre alcuna conclusione.
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