Tesi etd-03302016-113253 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
CONCHIONE, MARTINA
URN
etd-03302016-113253
Titolo
Impatto socio-ambientale dei prodotti di origine animale
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
Relatori
relatore Prof. Brunori, Gianluca
Parole chiave
- allevamenti intensivi
- impatto ambientale
- prodotti di origine animale
Data inizio appello
18/04/2016
Consultabilità
Completa
Riassunto
Tra i maggiori sbagli compiuti dall'uomo vi è il modo in cui egli si è rapportato, e continua a rapportarsi, nei confronti del pianeta: secondo molte moderne filosofie, ed anche secondo diversi antichi, tra i quali Pitagora, l’uomo non è al vertice della piramide, né esiste una piramide che classifica gli individui in base alla loro importanza: l’uomo è parte della natura, esattamente come tutti gli altri esseri viventi. Il suo dovere è vivere utilizzando al meglio le risorse che gli sono realmente necessarie, tentando di avere un impatto su tutto ciò che è a lui esterno più basso possibile.
Arne Naess, uno dei principali teorici di tale pensiero, iniziò a diffondere le sue idee dopo il rapporto del Club di Roma circa i limiti dello sviluppo del 1972, che richiamava l’attenzione mondiale su problemi quali inquinamento, boom demografico ed esaurimento delle risorse non rinnovabili. Egli sosteneva che non è sufficiente modificare a livello economico e politico l’assetto mondiale relativo ai problemi ambientali, ma è in primis il comportamento e l’idea che l’uomo ha nei confronti dell’ambiente che devono essere modificati.
È necessario passare da un sistema di tipo antropocentrico, che vede l’uomo come centrale e predominante sulle altre specie e sull’ambiente, e giustifica di conseguenza il suo sfruttamento indiscriminato delle risorse in quanto presenti apposta per lui, ad uno biocentrico, che vede invece l’essere umano come una delle parti costituenti il sistema a pari con le altre, che è tenuto a rispettare e salvaguardare. L’uomo non ha “diritti speciali” rispetto alla natura, e non è superiore ad essa: ne è semplicemente parte.
Abbiamo creato una società in cui il 4% della popolazione gode di effettivo benessere. Lo sviluppo a cui siamo giunti, il livello di modernità a cui ora siamo abituati non solo sta distruggendo il pianeta, ma non sta servendo quasi a nessuno, essendo una tale percentuale veramente esigua.
Tra le principali cause, vi è indubbiamente il modo in cui l'uomo si alimenta. Il “progresso” ha portato ad un aumento smisurato del consumo di prodotti di origine animale, con conseguenze negative per l'ambiente e per l'uomo stesso.
In questo elaborato l'attenzione verrà focalizzata sui cambiamenti inerenti l'alimentazione degli individui, cambiamenti così profondi da influenzare ampiamente molti altri ambiti: quello sociale, quello relativo all'inquinamento, alla sostenibilità, all'economia, all'etica, e via dicendo. Il modo in cui mangiamo, a ben vedere, tocca ogni aspetto del vivere.
Al fine di poter capire una situazione, è necessario conoscere l'evoluzione storica che ha portato al suo raggiungimento: per tale motivo il testo va a descrivere innanzitutto le motivazioni per le quali sono nati e si sono sviluppati in maniera così imponente gli allevamenti intensivi, andando a ritroso fino alla loro nascita: l'uomo neolitico, che iniziò a coltivare e ad addomesticare gli animali divenendo così sedentario, pose le basi per gli allevamenti di oggi. Questi crebbero a dismisura grazie al boom economico del secondo dopoguerra e il conseguente aumento del benessere, che portò la popolazione occidentale ad alimentarsi sempre più con carne, latte e uova, fino a quel momento considerati “alimenti di lusso”. L'economia poi giocò un grande ruolo, ed in conseguenza ad un aumento spropositato della domanda trovò il modo per aumentare l'offerta ed abbattere i prezzi.
Saranno proprio i prezzi più bassi poi a far raggiungere agli allevamenti l'aspetto e le caratteristiche che hanno oggi: più si ingrandivano, più lo spazio per ogni animale si restringeva, gli antibiotici e gli ormoni aumentavano, e il benessere animale veniva messo da parte.
Viene poi descritta la realtà degli allevamenti intensivi andando ad esporre, in modo naturalmente sommario, alcune delle situazioni tipiche presenti nel nostro continente e alcune leggi a cui fanno riferimento. L'accento verrà posto su quelle caratteristiche generali che questo tipo di strutture condividono in tutto il mondo, per poi descrivere in maniera leggermente più dettagliata alcune delle principali realtà, come l'uso di mangimi atti a far crescere gli animali in maniera innaturalmente rapida, la costrizione in spazi ristretti, la selezione genetica che ha portato ad avere animali iper-produttivi ma deboli, e spesso non sani. La ricerca condotta a tale riguardo non pretende assolutamente di essere esaustiva, ma solamente di mettere in luce aspetti purtroppo tanto comuni quanto sconosciuti.
Le conseguenze di tali tipi di allevamenti spesso vengono ignorate dalla maggior parte della popolazione: solo una esigua percentuale di individui è realmente consapevole di quanto è grande l'impatto di questo tipo di industria, soprattutto per quel che riguarda lo spreco di risorse.
L'acqua utilizzata per alimentare gli animali, pulire gli allevamenti e produrre il foraggio a loro destinato è una quota impressionante: si stima che il 70% dell'acqua totale utilizzata dall'uomo sia impiegata nella zootecnia e nell'agricoltura. E quest'ultima serve per la maggior parte ad alimentare gli animali da allevamento. Basti pensare che per per produrre un chilo di carne di manzo sono necessari circa 100.000 litri di acqua; ne bastano invece 500 per un chilo di patate, o 2000 per un chilo di soia. È palese il netto risparmio che si avrebbe destinando tali colture direttamente all'uomo, utilizzando le risorse in maniera nettamente più efficiente e produttiva.
Un discorso analogo può essere fatto per quel che riguarda la terra, secondo due prospettive differenti: essa infatti da un lato viene occupata fisicamente per il pascolo e la produzione di cibo, e per creare sempre più spazio vengono abbattute vaste aree, sopratutto in America Latina: la FAO calcola che circa il 70% delle aree già disboscate della foresta amazzonica sia stato utilizzato per gli allevamenti, e il restante per la coltivazione di foraggio per il bestiame. Da un altro lato invece, la terra viene consumata nel vero senso della parola, a causa del grande numero di animali praticamente ammassati gli uni sugli altri e delle continue coltivazioni, che provocano una forte erosione del suolo.
Gli allevamenti intensivi non soltanto assorbono grandi quantità di risorse che potrebbero essere utilizzate in maniera più efficiente, ma sono anche la principale fonte di inquinamento del pianeta. Letteralmente infatti, secondo uno studio della FAO, “inquina più allevare mucche che guidare macchine”.
Il 18% del gas serra prodotto a livello globale infatti deriva dagli allevamenti di animali, contro il 13,5% dell'intero settore dei trasporti, aviazione compresa. Ed è in aumento.
Oltre al grande inquinamento dell'atmosfera terrestre questo tipo di industria incide negativamente anche su mari, falde acquifere, sulla terra, e sull'essere umano stesso.
La salute umana infatti viene messa a rischio dal consumo smodato che si ha di carne, latte e uova in occidente, abitudine che sta prendendo sempre più piede anche in tutti i Paesi in via di Sviluppo. Tali tipi di alimenti difficilmente possono essere considerati come un qualcosa di altamente salutare, tenendo presente che più del 90% degli allevamenti da cui derivano sono di tipo intensivo. Allevamenti dove gli animali vengono fatti crescere il più rapidamente possibile, nel minor spazio possibile e con la minore assistenza possibile, in modo da abbattere i costi di produzione ed avere al contempo la quantità maggiore di carne, latte o uova realizzabile. Animali sottoposti a pratiche crudeli, alimentati ad antibiotici ed alimenti ipercalorici, a ritmi veglia/sonno completamente alterati: quale tipo di alimento salutare potrebbe mai nascere da condizioni simili, dove l'unico obiettivo è raggiungere la massima efficienza economica al minor prezzo possibile?
Un italiano medio consuma circa 87 kg di carne all'anno, escludendo i prodotti ittici. È stato calcolato che un uomo con tale quantità di carne ingerisce involontariamente quasi 9 grammi di antibiotici, equivalenti alla somministrazione di circa quattro terapie antibiotiche, ogni anno.
Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente per comprendere quanto grava l'industria di prodotti di origine animale sul nostro pianeta, e su noi stessi. Ma vi è ancora un aspetto che dovrebbe essere considerato, soprattutto in questa sede: quello etico.
Parlare di pace, di nonviolenza, ignorando volontariamente ciò che quotidianamente viene perpetrato lontano dagli occhi e dalle coscienze di ciascuno, risulta se non incoerente, quantomeno piuttosto arrogante: una bella frase recita che “la nonviolenza comincia a tavola”.
Decretare un limite, in questo caso stabilito dalla specie, per decidere chi merita di essere trattato con rispetto e chi no, chi può essere sfruttato e chi no, in passato ha mietuto non poche vittime e creato i più spietati fondamentalismi.
Glie esempi per concretizzare questo concetto sono numerosi: il DNA di un maiale è molto simile a quello di un uomo; è tra gli animali più intelligenti, con grandi abilità cognitive. Prova paura e gelosia, sa comunicare e può essere addestrato molto più di un cane. In base a cosa scegliamo chi merita di stare al nostro fianco, e chi di essere fatto nascere per essere ingrassato e ammazzato il prima possibile? Chi ce ne da il diritto? Non può non essere considerata una forma di violenza e di sfruttamento, per di più assolutamente non necessaria. Né sostenibile a tali livelli.
Se tutta l'umanità arrivasse ai consumi di carne occidentali sarebbe necessaria una superficie pari a due o tre volte quella di tutta la terra stessa, da adibire a pascolo ed agricoltura per il foraggio. Semplicemente, non è possibile.
Le alternative a questo problema sono diverse e tutte, volendo, praticabili. Probabilmente la meno attuabile dal punto di vista economico è l'internalizzazione dei costi, che sarebbe in grado di ridare il giusto peso in valore monetario ad un prodotto, inglobando al suo interno anche il costo dell'inquinamento che è stato prodotto per crearlo. Naturalmente i prezzi si alzerebbero moltissimo, riducendo i consumi di questo tipo di prodotti e, in un secondo momento, costringerebbe a cercare alternative più sostenibili per l'allevamento.
Una riduzione dei prodotti di origine animale invece è oltre che possibile veramente di facile attuazione, basterebbe davvero poco per fare la differenza. Nei Paesi Bassi è stato effettuato uno studio al fine di comprendere quanto una dieta senza prodotti animali sarebbe in grado di ridurre le emissioni di anidride carbonica: praticamente più di qualunque altro accorgimento volto a tal fine. Secondo tale studio, se la popolazione olandese non mangiasse carne soltanto per un giorno a settimana, si risparmierebbero 3,2 megatoni di anidride carbonica, pari al consumo di un milione di auto in meno nelle strade olandesi in un anno. Se invece la popolazione passasse in toto ad una dieta vegetariana, il risparmio energetico sarebbe pari alle emissioni totali di gas delle abitazioni olandesi, e quindi di riscaldamento, uso del gas in cucina e acqua calda. Ossia 22,4 megatoni in meno. Sarebbe irrealistico ipotizzare che tutto il mondo smetta dall'oggi al domani di consumare questi tipi di prodotti, ma nel concreto le alternative esistono, a prezzi ormai abbordabili e con una vastissima scelta di prodotti vegetali alternativi, da sostituire quantomeno ogni tanto a quelli classici.
Ciò che manca non è un'alternativa: ciò che più manca è la consapevolezza. E non solo a causa della società, che cerca di mettere in ombra aspetti che potrebbero economicamente danneggiarla.
Manca sopratutto da parte dell'uomo, in grado oggi di giungere a una molteplicità di informazioni nel giro di qualche secondo e, se vuole, conoscere. Ma la conoscenza comporta una presa di posizione, una scelta fatta con la consapevolezza di sapere i pro e i contro della propria azione. E spesso è semplicemente più facile voltare lo sguardo che prendere attivamente parte ad un mutamento magari difficile, ma necessario.
I cambiamenti sono nelle nostre mani, nello specifico nei nostri piatti, e sta a noi scegliere la coerenza ed il cambiamento, od il continuare a fare finta di nulla ignorando la verità.
Arne Naess, uno dei principali teorici di tale pensiero, iniziò a diffondere le sue idee dopo il rapporto del Club di Roma circa i limiti dello sviluppo del 1972, che richiamava l’attenzione mondiale su problemi quali inquinamento, boom demografico ed esaurimento delle risorse non rinnovabili. Egli sosteneva che non è sufficiente modificare a livello economico e politico l’assetto mondiale relativo ai problemi ambientali, ma è in primis il comportamento e l’idea che l’uomo ha nei confronti dell’ambiente che devono essere modificati.
È necessario passare da un sistema di tipo antropocentrico, che vede l’uomo come centrale e predominante sulle altre specie e sull’ambiente, e giustifica di conseguenza il suo sfruttamento indiscriminato delle risorse in quanto presenti apposta per lui, ad uno biocentrico, che vede invece l’essere umano come una delle parti costituenti il sistema a pari con le altre, che è tenuto a rispettare e salvaguardare. L’uomo non ha “diritti speciali” rispetto alla natura, e non è superiore ad essa: ne è semplicemente parte.
Abbiamo creato una società in cui il 4% della popolazione gode di effettivo benessere. Lo sviluppo a cui siamo giunti, il livello di modernità a cui ora siamo abituati non solo sta distruggendo il pianeta, ma non sta servendo quasi a nessuno, essendo una tale percentuale veramente esigua.
Tra le principali cause, vi è indubbiamente il modo in cui l'uomo si alimenta. Il “progresso” ha portato ad un aumento smisurato del consumo di prodotti di origine animale, con conseguenze negative per l'ambiente e per l'uomo stesso.
In questo elaborato l'attenzione verrà focalizzata sui cambiamenti inerenti l'alimentazione degli individui, cambiamenti così profondi da influenzare ampiamente molti altri ambiti: quello sociale, quello relativo all'inquinamento, alla sostenibilità, all'economia, all'etica, e via dicendo. Il modo in cui mangiamo, a ben vedere, tocca ogni aspetto del vivere.
Al fine di poter capire una situazione, è necessario conoscere l'evoluzione storica che ha portato al suo raggiungimento: per tale motivo il testo va a descrivere innanzitutto le motivazioni per le quali sono nati e si sono sviluppati in maniera così imponente gli allevamenti intensivi, andando a ritroso fino alla loro nascita: l'uomo neolitico, che iniziò a coltivare e ad addomesticare gli animali divenendo così sedentario, pose le basi per gli allevamenti di oggi. Questi crebbero a dismisura grazie al boom economico del secondo dopoguerra e il conseguente aumento del benessere, che portò la popolazione occidentale ad alimentarsi sempre più con carne, latte e uova, fino a quel momento considerati “alimenti di lusso”. L'economia poi giocò un grande ruolo, ed in conseguenza ad un aumento spropositato della domanda trovò il modo per aumentare l'offerta ed abbattere i prezzi.
Saranno proprio i prezzi più bassi poi a far raggiungere agli allevamenti l'aspetto e le caratteristiche che hanno oggi: più si ingrandivano, più lo spazio per ogni animale si restringeva, gli antibiotici e gli ormoni aumentavano, e il benessere animale veniva messo da parte.
Viene poi descritta la realtà degli allevamenti intensivi andando ad esporre, in modo naturalmente sommario, alcune delle situazioni tipiche presenti nel nostro continente e alcune leggi a cui fanno riferimento. L'accento verrà posto su quelle caratteristiche generali che questo tipo di strutture condividono in tutto il mondo, per poi descrivere in maniera leggermente più dettagliata alcune delle principali realtà, come l'uso di mangimi atti a far crescere gli animali in maniera innaturalmente rapida, la costrizione in spazi ristretti, la selezione genetica che ha portato ad avere animali iper-produttivi ma deboli, e spesso non sani. La ricerca condotta a tale riguardo non pretende assolutamente di essere esaustiva, ma solamente di mettere in luce aspetti purtroppo tanto comuni quanto sconosciuti.
Le conseguenze di tali tipi di allevamenti spesso vengono ignorate dalla maggior parte della popolazione: solo una esigua percentuale di individui è realmente consapevole di quanto è grande l'impatto di questo tipo di industria, soprattutto per quel che riguarda lo spreco di risorse.
L'acqua utilizzata per alimentare gli animali, pulire gli allevamenti e produrre il foraggio a loro destinato è una quota impressionante: si stima che il 70% dell'acqua totale utilizzata dall'uomo sia impiegata nella zootecnia e nell'agricoltura. E quest'ultima serve per la maggior parte ad alimentare gli animali da allevamento. Basti pensare che per per produrre un chilo di carne di manzo sono necessari circa 100.000 litri di acqua; ne bastano invece 500 per un chilo di patate, o 2000 per un chilo di soia. È palese il netto risparmio che si avrebbe destinando tali colture direttamente all'uomo, utilizzando le risorse in maniera nettamente più efficiente e produttiva.
Un discorso analogo può essere fatto per quel che riguarda la terra, secondo due prospettive differenti: essa infatti da un lato viene occupata fisicamente per il pascolo e la produzione di cibo, e per creare sempre più spazio vengono abbattute vaste aree, sopratutto in America Latina: la FAO calcola che circa il 70% delle aree già disboscate della foresta amazzonica sia stato utilizzato per gli allevamenti, e il restante per la coltivazione di foraggio per il bestiame. Da un altro lato invece, la terra viene consumata nel vero senso della parola, a causa del grande numero di animali praticamente ammassati gli uni sugli altri e delle continue coltivazioni, che provocano una forte erosione del suolo.
Gli allevamenti intensivi non soltanto assorbono grandi quantità di risorse che potrebbero essere utilizzate in maniera più efficiente, ma sono anche la principale fonte di inquinamento del pianeta. Letteralmente infatti, secondo uno studio della FAO, “inquina più allevare mucche che guidare macchine”.
Il 18% del gas serra prodotto a livello globale infatti deriva dagli allevamenti di animali, contro il 13,5% dell'intero settore dei trasporti, aviazione compresa. Ed è in aumento.
Oltre al grande inquinamento dell'atmosfera terrestre questo tipo di industria incide negativamente anche su mari, falde acquifere, sulla terra, e sull'essere umano stesso.
La salute umana infatti viene messa a rischio dal consumo smodato che si ha di carne, latte e uova in occidente, abitudine che sta prendendo sempre più piede anche in tutti i Paesi in via di Sviluppo. Tali tipi di alimenti difficilmente possono essere considerati come un qualcosa di altamente salutare, tenendo presente che più del 90% degli allevamenti da cui derivano sono di tipo intensivo. Allevamenti dove gli animali vengono fatti crescere il più rapidamente possibile, nel minor spazio possibile e con la minore assistenza possibile, in modo da abbattere i costi di produzione ed avere al contempo la quantità maggiore di carne, latte o uova realizzabile. Animali sottoposti a pratiche crudeli, alimentati ad antibiotici ed alimenti ipercalorici, a ritmi veglia/sonno completamente alterati: quale tipo di alimento salutare potrebbe mai nascere da condizioni simili, dove l'unico obiettivo è raggiungere la massima efficienza economica al minor prezzo possibile?
Un italiano medio consuma circa 87 kg di carne all'anno, escludendo i prodotti ittici. È stato calcolato che un uomo con tale quantità di carne ingerisce involontariamente quasi 9 grammi di antibiotici, equivalenti alla somministrazione di circa quattro terapie antibiotiche, ogni anno.
Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente per comprendere quanto grava l'industria di prodotti di origine animale sul nostro pianeta, e su noi stessi. Ma vi è ancora un aspetto che dovrebbe essere considerato, soprattutto in questa sede: quello etico.
Parlare di pace, di nonviolenza, ignorando volontariamente ciò che quotidianamente viene perpetrato lontano dagli occhi e dalle coscienze di ciascuno, risulta se non incoerente, quantomeno piuttosto arrogante: una bella frase recita che “la nonviolenza comincia a tavola”.
Decretare un limite, in questo caso stabilito dalla specie, per decidere chi merita di essere trattato con rispetto e chi no, chi può essere sfruttato e chi no, in passato ha mietuto non poche vittime e creato i più spietati fondamentalismi.
Glie esempi per concretizzare questo concetto sono numerosi: il DNA di un maiale è molto simile a quello di un uomo; è tra gli animali più intelligenti, con grandi abilità cognitive. Prova paura e gelosia, sa comunicare e può essere addestrato molto più di un cane. In base a cosa scegliamo chi merita di stare al nostro fianco, e chi di essere fatto nascere per essere ingrassato e ammazzato il prima possibile? Chi ce ne da il diritto? Non può non essere considerata una forma di violenza e di sfruttamento, per di più assolutamente non necessaria. Né sostenibile a tali livelli.
Se tutta l'umanità arrivasse ai consumi di carne occidentali sarebbe necessaria una superficie pari a due o tre volte quella di tutta la terra stessa, da adibire a pascolo ed agricoltura per il foraggio. Semplicemente, non è possibile.
Le alternative a questo problema sono diverse e tutte, volendo, praticabili. Probabilmente la meno attuabile dal punto di vista economico è l'internalizzazione dei costi, che sarebbe in grado di ridare il giusto peso in valore monetario ad un prodotto, inglobando al suo interno anche il costo dell'inquinamento che è stato prodotto per crearlo. Naturalmente i prezzi si alzerebbero moltissimo, riducendo i consumi di questo tipo di prodotti e, in un secondo momento, costringerebbe a cercare alternative più sostenibili per l'allevamento.
Una riduzione dei prodotti di origine animale invece è oltre che possibile veramente di facile attuazione, basterebbe davvero poco per fare la differenza. Nei Paesi Bassi è stato effettuato uno studio al fine di comprendere quanto una dieta senza prodotti animali sarebbe in grado di ridurre le emissioni di anidride carbonica: praticamente più di qualunque altro accorgimento volto a tal fine. Secondo tale studio, se la popolazione olandese non mangiasse carne soltanto per un giorno a settimana, si risparmierebbero 3,2 megatoni di anidride carbonica, pari al consumo di un milione di auto in meno nelle strade olandesi in un anno. Se invece la popolazione passasse in toto ad una dieta vegetariana, il risparmio energetico sarebbe pari alle emissioni totali di gas delle abitazioni olandesi, e quindi di riscaldamento, uso del gas in cucina e acqua calda. Ossia 22,4 megatoni in meno. Sarebbe irrealistico ipotizzare che tutto il mondo smetta dall'oggi al domani di consumare questi tipi di prodotti, ma nel concreto le alternative esistono, a prezzi ormai abbordabili e con una vastissima scelta di prodotti vegetali alternativi, da sostituire quantomeno ogni tanto a quelli classici.
Ciò che manca non è un'alternativa: ciò che più manca è la consapevolezza. E non solo a causa della società, che cerca di mettere in ombra aspetti che potrebbero economicamente danneggiarla.
Manca sopratutto da parte dell'uomo, in grado oggi di giungere a una molteplicità di informazioni nel giro di qualche secondo e, se vuole, conoscere. Ma la conoscenza comporta una presa di posizione, una scelta fatta con la consapevolezza di sapere i pro e i contro della propria azione. E spesso è semplicemente più facile voltare lo sguardo che prendere attivamente parte ad un mutamento magari difficile, ma necessario.
I cambiamenti sono nelle nostre mani, nello specifico nei nostri piatti, e sta a noi scegliere la coerenza ed il cambiamento, od il continuare a fare finta di nulla ignorando la verità.
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