Tesi etd-03292011-142209 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
PALMADORI, ILARIA
URN
etd-03292011-142209
Titolo
Modelli ad elementi finiti subject-specific dell'osso vertebrale: validazione per confronto con misure sperimentali in vitro
Dipartimento
INGEGNERIA
Corso di studi
INGEGNERIA BIOMEDICA
Relatori
relatore Ing. Schileo, Enrico
relatore Ing. Taddei, Fulvia
relatore Ing. Viceconti, Marco
relatore Prof. Vozzi, Giovanni
relatore Ing. Taddei, Fulvia
relatore Ing. Viceconti, Marco
relatore Prof. Vozzi, Giovanni
Parole chiave
- deformazioni superficiali
- elementi finiti
- modelli
- ossa vertebrali
- predizione
- rischio di frattura
- subject-specific
- validazione
Data inizio appello
03/05/2011
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
03/05/2051
Riassunto
L’osteoporosi è una patologia del sistema scheletrico caratterizzata dalla perdita di massa ossea e dal deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo, che si manifesta con un incremento della fragilità dell’osso e della sua suscettibilità alla frattura (Harvey et al., 2010). Darne una definizione in termini clinici è stato un obiettivo raggiunto solo di recente. Tradizionalmente l’osteoporosi veniva rapportata al valore di densità minerale nell’osso (BMD) a cui si perviene attraverso la tecnica DEXA (Dual Energy X-Ray Absorptiometry) o quella QCT (Quantitative Computed Tomography): per confermare la diagnosi, il valore di BMD doveva scendere sotto 2.5s della distribuzione normale costruita su una popolazione di adulti giovani. Questa definizione è stata largamente accettata e proposta negli stessi termini anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO).
Le reali dimensioni del problema sono diventate evidenti solo dopo aver condotto un’indagine di tipo epidemiologico (Riggs et al., 1995). Oggi risulta essere il più grande problema pubblico di salute associato alle fratture fragili che perlopiù coinvolgono l’anca, le vertebre ed il polso. E’ stato dichiarato che ne soffrono 75 milioni di persone in Europa, USA e Giappone e che 1 donna over 50 su 3 ne diventa vittima, contro l’1 su 5 degli uomini (Kanis et al., 2007, Testi et al., 2002, Viceconti et al., 2004), con stime che portano a raddoppiare i valori già nei prossimi 50 anni. Nonostante le proporzioni degli ultimi decenni e le prospettive future tracciate, solo ora questo tipo di frattura sta cominciando a conquistare l’attenzione clinica, andando ad equiparare quella offerta ai problemi cardiovascolari (Kosmopoulos et al., 2007).
Comunque ancora solo un terzo delle fratture vertebrali (che riporta Riggs essere 700000 solo in USA, tre volte superiori a quelle all’anca) gode della giusta attenzione, mentre proprio la mancanza di diagnosi a riguardo, risulta un problema di scala mondiale (Kosmopoulos et al., 2007). Eppure tradizionalmente l’osteoporosi è stata riconosciuta a livello clinico come condizione di osteopenia proprio dall’occorrenza di fratture non traumatiche a livello spinale (Riggs et al., 1995).
Data l’elevata incidenza annua della frattura a compressione del corpo vertebrale (VCF) ed il ruolo fondamentale delle fratture vertebrali nella riduzione dell’aspettativa di vita, la ricerca è stata spinta a mettere a punto metodi non invasivi subject-specific per la predizione della resistenza delle vertebre (Mirzaei et al., 2009).
Oltre le cifre dell’impatto sociale della patologia dell’osso, la sanità non può tralasciare quelle dell’impatto economico, senza dubbio critico, note ormai le proporzioni del problema e tracciate le prospettive future. Infatti 4 milioni di fratture osteoporotiche costano all’Europa 30 miliardi di Euro l’anno, una spesa che duplicherà nel 2050.
Se questo è lo scenario che la società si trova di fronte, è evidente la necessità di un immediato intervento che sia volto a prevenire l’occorrenza di questo tipo di fratture.
La predizione del rischio della frattura ossea è quanto, di fatto, si chiede alla scienza confidando nei mezzi tecnologici di cui dispone. Le ossa umane, come anche altri corpi solidi, possono tollerare solo una certa intensità di forze esterne prima di arrivare a rottura. Per un determinato osso, questo è determinato dalla sua resistenza e se si riesce a risalire ad essa (al suo valore attuale ed alla legge con cui varierà nel tempo) ed a come le forze agiscono sul segmento osseo, si potrà prevedere l’evento sia nell’immediato che nel futuro.
Nella pratica clinica, come già esposto, si procede di fatto andando a misurare il valore BMD e discriminando con il criterio sopra descritto, considerando questo metodo il gold standard per esprimersi sulla probabilità di frattura (Wolfran et al., 2009). Comunque il BMD determina solo parzialmente il rischio di frattura (Hordon et al., 2000). Infatti con la DEXA, non si considera la variabilità spaziale o la geometria (Mosekilde et al., 2000, Hulme et al., 2007); in più i trattamenti farmacologici, hanno mostrato una scarsa correlazione tra il BMD ed il rischio di frattura vertebrale (Eastell et al., 2003, Sarkar et al., 2004). Lo stesso, con i dati sperimentali (Singer et al., 1995). Alcuni ricercatori hanno provato a giustificarlo, ritenendo l’approccio di analisi empirico e troppo semplicistico (Crawford et al., 2003, Mirzaei et al., 2009).
Un’alternativa a questo indicatore densitometrico oltre che un approccio molto più robusto in termini di specificità ed accuratezza, è lo sviluppo di un modello ad elementi finiti (modello FE) subject-specific costruito a partire da dati CT (Computed Tomography), dal momento che con esso si può anche simulare i determinanti intrinseci (quantità di tessuto, distribuzione, struttura 3D) della resistenza (Diamant et al., 2006, Imai et al., 2006). E’ stato già assodato che i modelli FE sono più performanti rispetto a misure densitometriche, sia nel femore (Testi et al., 2002, Cody et al., 1999) che nelle vertebre (Crawford et al., 2003). La combinazione dell’imaging biomedico (QCT) e dei metodi ad elementi finiti (FEM) per l’analisi degli stress, mostrano grosse correlazioni con i dati sperimentali (Liebschner et al., 2003, Crawford et al., 2003, Buckley et al., 2007).
Comunque anche se questi metodi sono esplorati da 20 anni, mancano ancora di validazione, step necessario affinchè possano entrare di diritto nell’uso clinico. Ai modelli infatti è richiesta accuratezza nella predizione, ma anche applicabilità, affinchè possano essere ritenuti una effettiva soluzione non invasiva e personalizzata, quindi un mezzo eccezionale in grado di rispondere alle nuove tendenze ed aspettative della medicina.
Lo scopo del presente lavoro di Tesi, nato nell’ambito dell’attività di ricerca del Laboratorio di Tecnologia Medica dell'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, struttura di riferimento per gli studi di biomeccanica computazionale, è proprio quello di validare un modello FE subject-specific di ossa vertebrali a partire da dati sperimentali, che sia in grado di fornire predizioni personalizzate del rischio di frattura scheletrica con un’accuratezza soddisfacente.
Le reali dimensioni del problema sono diventate evidenti solo dopo aver condotto un’indagine di tipo epidemiologico (Riggs et al., 1995). Oggi risulta essere il più grande problema pubblico di salute associato alle fratture fragili che perlopiù coinvolgono l’anca, le vertebre ed il polso. E’ stato dichiarato che ne soffrono 75 milioni di persone in Europa, USA e Giappone e che 1 donna over 50 su 3 ne diventa vittima, contro l’1 su 5 degli uomini (Kanis et al., 2007, Testi et al., 2002, Viceconti et al., 2004), con stime che portano a raddoppiare i valori già nei prossimi 50 anni. Nonostante le proporzioni degli ultimi decenni e le prospettive future tracciate, solo ora questo tipo di frattura sta cominciando a conquistare l’attenzione clinica, andando ad equiparare quella offerta ai problemi cardiovascolari (Kosmopoulos et al., 2007).
Comunque ancora solo un terzo delle fratture vertebrali (che riporta Riggs essere 700000 solo in USA, tre volte superiori a quelle all’anca) gode della giusta attenzione, mentre proprio la mancanza di diagnosi a riguardo, risulta un problema di scala mondiale (Kosmopoulos et al., 2007). Eppure tradizionalmente l’osteoporosi è stata riconosciuta a livello clinico come condizione di osteopenia proprio dall’occorrenza di fratture non traumatiche a livello spinale (Riggs et al., 1995).
Data l’elevata incidenza annua della frattura a compressione del corpo vertebrale (VCF) ed il ruolo fondamentale delle fratture vertebrali nella riduzione dell’aspettativa di vita, la ricerca è stata spinta a mettere a punto metodi non invasivi subject-specific per la predizione della resistenza delle vertebre (Mirzaei et al., 2009).
Oltre le cifre dell’impatto sociale della patologia dell’osso, la sanità non può tralasciare quelle dell’impatto economico, senza dubbio critico, note ormai le proporzioni del problema e tracciate le prospettive future. Infatti 4 milioni di fratture osteoporotiche costano all’Europa 30 miliardi di Euro l’anno, una spesa che duplicherà nel 2050.
Se questo è lo scenario che la società si trova di fronte, è evidente la necessità di un immediato intervento che sia volto a prevenire l’occorrenza di questo tipo di fratture.
La predizione del rischio della frattura ossea è quanto, di fatto, si chiede alla scienza confidando nei mezzi tecnologici di cui dispone. Le ossa umane, come anche altri corpi solidi, possono tollerare solo una certa intensità di forze esterne prima di arrivare a rottura. Per un determinato osso, questo è determinato dalla sua resistenza e se si riesce a risalire ad essa (al suo valore attuale ed alla legge con cui varierà nel tempo) ed a come le forze agiscono sul segmento osseo, si potrà prevedere l’evento sia nell’immediato che nel futuro.
Nella pratica clinica, come già esposto, si procede di fatto andando a misurare il valore BMD e discriminando con il criterio sopra descritto, considerando questo metodo il gold standard per esprimersi sulla probabilità di frattura (Wolfran et al., 2009). Comunque il BMD determina solo parzialmente il rischio di frattura (Hordon et al., 2000). Infatti con la DEXA, non si considera la variabilità spaziale o la geometria (Mosekilde et al., 2000, Hulme et al., 2007); in più i trattamenti farmacologici, hanno mostrato una scarsa correlazione tra il BMD ed il rischio di frattura vertebrale (Eastell et al., 2003, Sarkar et al., 2004). Lo stesso, con i dati sperimentali (Singer et al., 1995). Alcuni ricercatori hanno provato a giustificarlo, ritenendo l’approccio di analisi empirico e troppo semplicistico (Crawford et al., 2003, Mirzaei et al., 2009).
Un’alternativa a questo indicatore densitometrico oltre che un approccio molto più robusto in termini di specificità ed accuratezza, è lo sviluppo di un modello ad elementi finiti (modello FE) subject-specific costruito a partire da dati CT (Computed Tomography), dal momento che con esso si può anche simulare i determinanti intrinseci (quantità di tessuto, distribuzione, struttura 3D) della resistenza (Diamant et al., 2006, Imai et al., 2006). E’ stato già assodato che i modelli FE sono più performanti rispetto a misure densitometriche, sia nel femore (Testi et al., 2002, Cody et al., 1999) che nelle vertebre (Crawford et al., 2003). La combinazione dell’imaging biomedico (QCT) e dei metodi ad elementi finiti (FEM) per l’analisi degli stress, mostrano grosse correlazioni con i dati sperimentali (Liebschner et al., 2003, Crawford et al., 2003, Buckley et al., 2007).
Comunque anche se questi metodi sono esplorati da 20 anni, mancano ancora di validazione, step necessario affinchè possano entrare di diritto nell’uso clinico. Ai modelli infatti è richiesta accuratezza nella predizione, ma anche applicabilità, affinchè possano essere ritenuti una effettiva soluzione non invasiva e personalizzata, quindi un mezzo eccezionale in grado di rispondere alle nuove tendenze ed aspettative della medicina.
Lo scopo del presente lavoro di Tesi, nato nell’ambito dell’attività di ricerca del Laboratorio di Tecnologia Medica dell'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, struttura di riferimento per gli studi di biomeccanica computazionale, è proprio quello di validare un modello FE subject-specific di ossa vertebrali a partire da dati sperimentali, che sia in grado di fornire predizioni personalizzate del rischio di frattura scheletrica con un’accuratezza soddisfacente.
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