Tesi etd-03242015-085046 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale
Autore
PUCCINELLI, ELISA
URN
etd-03242015-085046
Titolo
Seneca e la superstitio
Dipartimento
FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA
Corso di studi
FILOLOGIA E STORIA DELL'ANTICHITA'
Relatori
relatore Prof. Letta, Cesare
correlatore Prof.ssa Campanile, Maria Domitilla
correlatore Prof.ssa Campanile, Maria Domitilla
Parole chiave
- naturalis e civilis
- Seneca
- theologia fabulosa
Data inizio appello
13/04/2015
Consultabilità
Completa
Riassunto
La tesi ha lo scopo di chiarire attraverso i frammenti del De superstitione la posizione assunta da Seneca riguardo l’antropomorfizzazione degli dèi operata dalla theologia fabulosa, la sua predisposizione verso la theologia naturalis e soprattutto la sua critica verso il formalismo religioso esteriore e fine a se stesso riscontrato nella theologia civilis,
Non possiamo ricostruire sufficientemente il suo contenuto dal momento che disponiamo solo dei passi riportati da Agostino nel De civitate dei VI,10-11, il quale poteva usare i vari exempla offerti da quest’opera a sostegno della propria opposizione antipagana. Ci troviamo così privi di tutta la parte teorica e dell’indagine dottrinale ad essa connessa, come la definizione di superstitio e l’analisi delle cause che la generano. Ci è tuttavia possibile delineare il metodo critico adottato da Seneca, ossia lo schema prima paneziano e poi varroniano della teologia tripartita. La polemica non si limita al punto di vista del conservatore romano, intenzionato a difendere i mos maiorum dal dilagare delle religioni orientali, ma si spinge oltre, nell’unico campo in cui uno stoico poteva operare, ossia quello filosofico. La Stoa non sosteneva il rifiuto del politeismo tradizionale, bensì una sua interpretazione e esegesi filosofica in accordo con la propria visione panteistica. Si vedrà come anche Seneca non rifiuti gli dèi della religione romana, ma introduca tuttavia una nuova prospettiva, sempre in accordo con i principi stoici ma incentrata maggiormente sull’elaborazione personale dell’ io interiore. Si chiarirà infatti nel corso del mio lavoro come egli non sia ostile ai rituali stranieri in sé, ma all’erronea intenzione che motiva non solo quest’ultimi ma anche le pratiche del culto ufficiale romano: credere di placare l’ipotizzata ira degli dèi.
Si analizzeranno così i vari frammenti del De superstitione, tentando volta per volta di contestualizzarli anche nella produzione senecana. A differenza di Turcan (1967) ho preferito seguire una divisione non basata sulle varie religioni su cui polemizza il filosofo, bensì sui tre tipi di theologiae toccati dalla sua critica che probabilmente costituivano l’effettivo ordine dell’opera: theologia fabulosa, naturalis e civilis.
A questa tripartizione anteporrò una prima sezione riguardante la concezione della superstitio nel mondo antico e una seconda concernente l’epistula 108, che documenta il primo contatto, almeno a noi noto, di Seneca con la superstitio, e i vari problemi di datazione dell’opera. Ho ritenuto opportuno aggiungere al lavoro due appendici, concernenti rispettivamente il destino dell’anima dopo la morte secondo Seneca e il suo carteggio “apocrifo” con San Paolo; mentre quest’ultima questione doveva essere necessariamente affrontata (seppur brevemente) a causa dell’implicita allusione presente in F 65 fr. 31 Haase, sarebbe stato a mio parere poco compiuta un’analisi del De superstitione senza aver delineato per sommi capi il problema della sua concezione dell’aldilà, anch’esso usato spesso come prova della sua incoerenza.
Non possiamo ricostruire sufficientemente il suo contenuto dal momento che disponiamo solo dei passi riportati da Agostino nel De civitate dei VI,10-11, il quale poteva usare i vari exempla offerti da quest’opera a sostegno della propria opposizione antipagana. Ci troviamo così privi di tutta la parte teorica e dell’indagine dottrinale ad essa connessa, come la definizione di superstitio e l’analisi delle cause che la generano. Ci è tuttavia possibile delineare il metodo critico adottato da Seneca, ossia lo schema prima paneziano e poi varroniano della teologia tripartita. La polemica non si limita al punto di vista del conservatore romano, intenzionato a difendere i mos maiorum dal dilagare delle religioni orientali, ma si spinge oltre, nell’unico campo in cui uno stoico poteva operare, ossia quello filosofico. La Stoa non sosteneva il rifiuto del politeismo tradizionale, bensì una sua interpretazione e esegesi filosofica in accordo con la propria visione panteistica. Si vedrà come anche Seneca non rifiuti gli dèi della religione romana, ma introduca tuttavia una nuova prospettiva, sempre in accordo con i principi stoici ma incentrata maggiormente sull’elaborazione personale dell’ io interiore. Si chiarirà infatti nel corso del mio lavoro come egli non sia ostile ai rituali stranieri in sé, ma all’erronea intenzione che motiva non solo quest’ultimi ma anche le pratiche del culto ufficiale romano: credere di placare l’ipotizzata ira degli dèi.
Si analizzeranno così i vari frammenti del De superstitione, tentando volta per volta di contestualizzarli anche nella produzione senecana. A differenza di Turcan (1967) ho preferito seguire una divisione non basata sulle varie religioni su cui polemizza il filosofo, bensì sui tre tipi di theologiae toccati dalla sua critica che probabilmente costituivano l’effettivo ordine dell’opera: theologia fabulosa, naturalis e civilis.
A questa tripartizione anteporrò una prima sezione riguardante la concezione della superstitio nel mondo antico e una seconda concernente l’epistula 108, che documenta il primo contatto, almeno a noi noto, di Seneca con la superstitio, e i vari problemi di datazione dell’opera. Ho ritenuto opportuno aggiungere al lavoro due appendici, concernenti rispettivamente il destino dell’anima dopo la morte secondo Seneca e il suo carteggio “apocrifo” con San Paolo; mentre quest’ultima questione doveva essere necessariamente affrontata (seppur brevemente) a causa dell’implicita allusione presente in F 65 fr. 31 Haase, sarebbe stato a mio parere poco compiuta un’analisi del De superstitione senza aver delineato per sommi capi il problema della sua concezione dell’aldilà, anch’esso usato spesso come prova della sua incoerenza.
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