Tesi etd-03182012-104241 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
CABERLIN, FRANCESCO
URN
etd-03182012-104241
Titolo
Storia e percezione della Lega Nord nella stampa italiana 1990-1999
Dipartimento
LETTERE E FILOSOFIA
Corso di studi
STORIA E CIVILTA'
Relatori
controrelatore Prof. Dei, Fabio
relatore Prof. Banti, Alberto Mario
relatore Prof. Banti, Alberto Mario
Parole chiave
- Lega nord
- partiti politici
- politica italiana
- stampa italiana
Data inizio appello
23/04/2012
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
23/04/2052
Riassunto
In questa tesi cercheremo di ricostruire l’immagine della Lega Nord nella stampa italiana negli anni ’90, in particolar modo durante il periodo secessionista (1995-1999).Quello che ci proponiamo di fare è quindi un primo sondaggio sul discorso sulla Lega, ossia su come la Lega, il leghismo e il padanismo siano stati visti nel corso degli anni ’90.
Sulla Lega Nord si è scritto molto e non solo in italiano: studiosi di lingua inglese e francese infatti si occupano del fenomeno fin dagli anni ’90. Nella letteratura non sono mancate le analisi del discorso della Lega, con particolare riguardo al suo tentativo di nation building . Questi lavori, per lo più in lingua inglese, hanno avuto il merito di andare oltre l’approccio più politologico, proprio degli studi di lingua italiana , che hanno avuto la tendenza ad ignorare o a sottovalutare l’aspetto della costruzione della Padania da parte della Lega, in virtù del fatto che “la Padania non esiste”, non prendendo quindi in considerazione la possibilità che la Padania potesse essere presa seriamente in discussione come nazione in fieri. Questa scelta ha molte ragioni, di ordine scientifico e metodologico oltre che politico. Tuttavia questo approccio non tiene conto di come tutte le identità nazionali non siano altro che costrutti sociali, entità immaginate, che spesso prescindono dagli elementi “oggettivi” presenti in una comunità nazionale. D’altro canto, alcuni dei lavori che hanno svolto un’analisi discorsiva del leghismo e del padanismo, hanno in qualche modo ignorato i risultati della mobilitazione, presentando sì un’efficace panoramica degli elementi distintivi del discorso della Lega, senza però giudicarne impatto e risultati.
A questa tendenza fanno eccezione due studiosi , i cui lavori sono molto diversi per approccio. Daniele Albertazzi, l’unico tra gli studiosi del nazionalismo padano a rifarsi alle teorie di Anthony Smith, insiste sul fatto che il tentativo di nation building ha fallito perché la Padania mancava di un vero legame con un gruppo etnico preesistente, sui cui miti e sulla cui cultura sviluppare un’identità nazionale. Il fallimento del “padanismo” sarebbe da ricondurre alla debolezza della ethnohistorie padana, priva di legami con miti condivisi preesistenti, e quindi poco convincente agli occhi dei potenziali padani. Questo approccio tuttavia appare insoddisfacente: se è vero che l’identità nazionale padana poggia su una base di miti condivisi molto debole, questo è vero di quasi ogni identità nazionale che abbia visto la luce nel XIX secolo .
Di altro genere è l’obiezione di Martina Avanza che, a differenza di Albertazzi, parte da un approccio costruttivista per mostrarne i limiti: il carattere “artificiale” delle costruzioni nazionali ha infatti portato a sopravvalutare le possibilità di creare una nazione, senza tener conto che un discorso nazionale necessita di un pubblico ricettivo. Lo schema della costruzione di una nazione è effettivamente replicabile all’infinito, ma ciò non vuol dire che ogni costruzione narrativa venga sempre accettata sic et simpliciter. Non basta, in altre parole, creare un discorso nazionale per creare una nazione: se una nazione è una comunità immaginata , la Padania è sì una comunità immaginata, ma è “immaginata” da pochissimi potenziali padani. Per Avanza il padanismo sconta un problema di deficit di capitale intellettuale e di credibilità: non è solo il discorso padano ad essere improbabile , ma lo sono i portatori stessi. Gli intellettuali che hanno fatto sì che i discorsi nazionali si affermassero nel corso del XIX secolo erano intellettuali affermati nei loro rispettivi campi: né la Lega né il padanismo possono vantare intellettuali o artisti affermati al di fuori del ristretto ambiente degli attivisti stessi .
La nazione padana ha quindi fallito ad affermarsi, secondo Avanza, per mancanza di credibilità dei suoi promotori, privi di autorità sociale e culturale (se non all’interno di un ambiente molto ristretto). A questo si aggiunge il fatto che il padanismo si muove all’interno di una comunità già nazionalizzata, e muove contro un’identità nazionale che può contare su un apparato statale, laddove le risorse del “padanismo” sono deboli anche dal punto di vista materiale.
Tuttavia, per certi aspetti, l’essere poco credibili è stato per la Lega una strategia scientemente adottata. I leghisti della prima ora, Umberto Bossi in primis, allo scopo di guadagnare l’attenzione della stampa da loro definita “di regime”, hanno fatto della dichiarazione roboante e della seguente smentita una sorta di marchio di fabbrica, ammettendolo esplicitamente . Diversi studiosi hanno peraltro notato i limiti di questa strategia, che obbliga a una continua ricerca della dichiarazione sempre più sopra le righe e che sarebbe stata quindi in ultima analisi destinata a fallire. Va notato come questa previsione, espressa ormai una decina d’anni fa, si sia realizzata solo parzialmente: la Lega è infatti riuscita a trovare nuovi obiettivi polemici su cui esercitare la propria particolarissima strategia retorica, che non sembra essersi ancora esaurita.
Ma la strategia della “scarsa credibilità” può essere ampliata ad altri aspetti del leghismo. Uno studio di un’antropologa francese, Lynda Dematteo , uscito recentemente in italiano, si è spinto ad ipotizzare che tutto il leghismo possa essere compreso nella chiave interpretativa della buffoneria e dell’”idiotismo” politico, derivanti dalla tradizione culturale dell’ambiente stesso di nascita del fenomeno, ossia l’area pedemontana lombarda. Il leghismo trarrebbe quindi le proprie origini dalla tradizione autonomista (ed intransigentista) di queste aree e da quella della commedia dell’arte e del suo rovesciamento sarcastico dello stigma del discriminato contro i discriminanti .
Quest’analisi ha senza dubbio dei limiti, se non altro perché appiattisce un fenomeno complesso come il leghismo su una sola dimensione e ne individua una sola fonte d’origine. Il lavoro di Dematteo ha tuttavia il merito di porre l’attenzione su un elemento tanto evidente quanto trascurato negli studi sulla Lega, ossia il carattere ludico, strafottente, sopra le righe, folkloristico del messaggio leghista e del nazionalismo padano. Se è evidente che la produzione nazional-patriottica, soprattutto in tempi recenti, assume spesso una dimensione kitsch, nel caso del leghismo c’è una ricercata voglia di scandalizzare, spesso attraverso un registro comico.
Ma se spesso i leghisti scherzano o la “sparano grossa” per poi smentirsi, altrettanto spesso non scherzano, sono seri e credono in quel che dicono. Avanza e altri hanno notato come i militanti (per i dirigenti sarebbe necessario un altro discorso, così come per l’elettorato “pendolare”) molto spesso credono davvero in quel che fanno, anche se questo appare ridicolo agli occhi di un osservatore esterno, il che ci riporta al problema della mancanza di credibilità.
Ma non si dà neppure il caso che la Lega sia sempre stata vista da fuori come ridicola, e la strategia di smentire la dichiarazione roboante, di “dare un colpo all’acceleratore ed uno al freno” non ha impedito che più volte la Lega fosse vista come una minaccia. La Magistratura nel 1995-1997 e più in generale gli avversari politici a più riprese negli ultimi vent’anni hanno visto nella Lega un partito xenofobo, un pericolo per l’unità dello Stato ed una fonte di derive nazional-totalitarie (si pensi al caso recente della scuola comunale di Adro).
Ma si dà anche un terzo caso, in cui la Lega è stata vista come una vera risorsa per il paese, un partito che nonostante le sue stranezze aveva contribuito a far cadere la Prima Repubblica . Se questo sdoganamento si afferma nel 1993, anno in cui la Lega vince le amministrative a Milano, e tende a scomparire dopo l’arrivo di Forza Italia, anche opere più recenti hanno riproposto una lettura del partito per certi versi analoga . Ancor di più, a livello amministrativo, è oramai quasi un luogo comune vedere nei sindaci leghisti degli “amministratori efficienti”, onesti, vicini ai problemi della gente .
Sulla Lega Nord si è scritto molto e non solo in italiano: studiosi di lingua inglese e francese infatti si occupano del fenomeno fin dagli anni ’90. Nella letteratura non sono mancate le analisi del discorso della Lega, con particolare riguardo al suo tentativo di nation building . Questi lavori, per lo più in lingua inglese, hanno avuto il merito di andare oltre l’approccio più politologico, proprio degli studi di lingua italiana , che hanno avuto la tendenza ad ignorare o a sottovalutare l’aspetto della costruzione della Padania da parte della Lega, in virtù del fatto che “la Padania non esiste”, non prendendo quindi in considerazione la possibilità che la Padania potesse essere presa seriamente in discussione come nazione in fieri. Questa scelta ha molte ragioni, di ordine scientifico e metodologico oltre che politico. Tuttavia questo approccio non tiene conto di come tutte le identità nazionali non siano altro che costrutti sociali, entità immaginate, che spesso prescindono dagli elementi “oggettivi” presenti in una comunità nazionale. D’altro canto, alcuni dei lavori che hanno svolto un’analisi discorsiva del leghismo e del padanismo, hanno in qualche modo ignorato i risultati della mobilitazione, presentando sì un’efficace panoramica degli elementi distintivi del discorso della Lega, senza però giudicarne impatto e risultati.
A questa tendenza fanno eccezione due studiosi , i cui lavori sono molto diversi per approccio. Daniele Albertazzi, l’unico tra gli studiosi del nazionalismo padano a rifarsi alle teorie di Anthony Smith, insiste sul fatto che il tentativo di nation building ha fallito perché la Padania mancava di un vero legame con un gruppo etnico preesistente, sui cui miti e sulla cui cultura sviluppare un’identità nazionale. Il fallimento del “padanismo” sarebbe da ricondurre alla debolezza della ethnohistorie padana, priva di legami con miti condivisi preesistenti, e quindi poco convincente agli occhi dei potenziali padani. Questo approccio tuttavia appare insoddisfacente: se è vero che l’identità nazionale padana poggia su una base di miti condivisi molto debole, questo è vero di quasi ogni identità nazionale che abbia visto la luce nel XIX secolo .
Di altro genere è l’obiezione di Martina Avanza che, a differenza di Albertazzi, parte da un approccio costruttivista per mostrarne i limiti: il carattere “artificiale” delle costruzioni nazionali ha infatti portato a sopravvalutare le possibilità di creare una nazione, senza tener conto che un discorso nazionale necessita di un pubblico ricettivo. Lo schema della costruzione di una nazione è effettivamente replicabile all’infinito, ma ciò non vuol dire che ogni costruzione narrativa venga sempre accettata sic et simpliciter. Non basta, in altre parole, creare un discorso nazionale per creare una nazione: se una nazione è una comunità immaginata , la Padania è sì una comunità immaginata, ma è “immaginata” da pochissimi potenziali padani. Per Avanza il padanismo sconta un problema di deficit di capitale intellettuale e di credibilità: non è solo il discorso padano ad essere improbabile , ma lo sono i portatori stessi. Gli intellettuali che hanno fatto sì che i discorsi nazionali si affermassero nel corso del XIX secolo erano intellettuali affermati nei loro rispettivi campi: né la Lega né il padanismo possono vantare intellettuali o artisti affermati al di fuori del ristretto ambiente degli attivisti stessi .
La nazione padana ha quindi fallito ad affermarsi, secondo Avanza, per mancanza di credibilità dei suoi promotori, privi di autorità sociale e culturale (se non all’interno di un ambiente molto ristretto). A questo si aggiunge il fatto che il padanismo si muove all’interno di una comunità già nazionalizzata, e muove contro un’identità nazionale che può contare su un apparato statale, laddove le risorse del “padanismo” sono deboli anche dal punto di vista materiale.
Tuttavia, per certi aspetti, l’essere poco credibili è stato per la Lega una strategia scientemente adottata. I leghisti della prima ora, Umberto Bossi in primis, allo scopo di guadagnare l’attenzione della stampa da loro definita “di regime”, hanno fatto della dichiarazione roboante e della seguente smentita una sorta di marchio di fabbrica, ammettendolo esplicitamente . Diversi studiosi hanno peraltro notato i limiti di questa strategia, che obbliga a una continua ricerca della dichiarazione sempre più sopra le righe e che sarebbe stata quindi in ultima analisi destinata a fallire. Va notato come questa previsione, espressa ormai una decina d’anni fa, si sia realizzata solo parzialmente: la Lega è infatti riuscita a trovare nuovi obiettivi polemici su cui esercitare la propria particolarissima strategia retorica, che non sembra essersi ancora esaurita.
Ma la strategia della “scarsa credibilità” può essere ampliata ad altri aspetti del leghismo. Uno studio di un’antropologa francese, Lynda Dematteo , uscito recentemente in italiano, si è spinto ad ipotizzare che tutto il leghismo possa essere compreso nella chiave interpretativa della buffoneria e dell’”idiotismo” politico, derivanti dalla tradizione culturale dell’ambiente stesso di nascita del fenomeno, ossia l’area pedemontana lombarda. Il leghismo trarrebbe quindi le proprie origini dalla tradizione autonomista (ed intransigentista) di queste aree e da quella della commedia dell’arte e del suo rovesciamento sarcastico dello stigma del discriminato contro i discriminanti .
Quest’analisi ha senza dubbio dei limiti, se non altro perché appiattisce un fenomeno complesso come il leghismo su una sola dimensione e ne individua una sola fonte d’origine. Il lavoro di Dematteo ha tuttavia il merito di porre l’attenzione su un elemento tanto evidente quanto trascurato negli studi sulla Lega, ossia il carattere ludico, strafottente, sopra le righe, folkloristico del messaggio leghista e del nazionalismo padano. Se è evidente che la produzione nazional-patriottica, soprattutto in tempi recenti, assume spesso una dimensione kitsch, nel caso del leghismo c’è una ricercata voglia di scandalizzare, spesso attraverso un registro comico.
Ma se spesso i leghisti scherzano o la “sparano grossa” per poi smentirsi, altrettanto spesso non scherzano, sono seri e credono in quel che dicono. Avanza e altri hanno notato come i militanti (per i dirigenti sarebbe necessario un altro discorso, così come per l’elettorato “pendolare”) molto spesso credono davvero in quel che fanno, anche se questo appare ridicolo agli occhi di un osservatore esterno, il che ci riporta al problema della mancanza di credibilità.
Ma non si dà neppure il caso che la Lega sia sempre stata vista da fuori come ridicola, e la strategia di smentire la dichiarazione roboante, di “dare un colpo all’acceleratore ed uno al freno” non ha impedito che più volte la Lega fosse vista come una minaccia. La Magistratura nel 1995-1997 e più in generale gli avversari politici a più riprese negli ultimi vent’anni hanno visto nella Lega un partito xenofobo, un pericolo per l’unità dello Stato ed una fonte di derive nazional-totalitarie (si pensi al caso recente della scuola comunale di Adro).
Ma si dà anche un terzo caso, in cui la Lega è stata vista come una vera risorsa per il paese, un partito che nonostante le sue stranezze aveva contribuito a far cadere la Prima Repubblica . Se questo sdoganamento si afferma nel 1993, anno in cui la Lega vince le amministrative a Milano, e tende a scomparire dopo l’arrivo di Forza Italia, anche opere più recenti hanno riproposto una lettura del partito per certi versi analoga . Ancor di più, a livello amministrativo, è oramai quasi un luogo comune vedere nei sindaci leghisti degli “amministratori efficienti”, onesti, vicini ai problemi della gente .
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