Tesi etd-03042014-143000 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica
Autore
GISFREDI, ARIANNA
URN
etd-03042014-143000
Titolo
Il finanziamento pubblico dei partiti politici
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Sperti, Angioletta
Parole chiave
- Nessuna parola chiave trovata
Data inizio appello
07/04/2014
Consultabilità
Completa
Riassunto
In un momento di crisi economica come quello attuale a livello nazionale è frequente la richiesta di una totale abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici, nell’ambito di un generale sentimento di delusione nei confronti di un sistema politico-partitico che troppo spesso si è dimostrato inefficiente, corrotto e inutilmente costoso. Tuttavia il tema del finanziamento dei partiti e della attività politica ha da sempre attratto l’attenzione di studiosi e commentatori per le ampie implicazioni che lo stesso riveste rispetto ai principi del pluralismo, dell’uguaglianza, di un trasparente esercizio democratico, dell’accesso alla rappresentanza e, in generale, rispetto al ruolo dei partiti.
La riflessione sul finanziamento della politica inizia ad essere oggetto di attenzione con l’estensione del suffragio universale e la nascita dei partiti di massa, dotati di un forte e costoso apparato organizzativo. Infatti, solo con il passaggio da partiti di èlite a partiti massa, il costo della politica aumenta enormemente, il denaro inizia a diventare un elemento fondamentale della lotta politica e nasce il problema di garantire l’uguaglianza delle opportunità nell’accesso alle cariche elettive e la genuinità del voto, per evitare che chi ha maggiori disponibilità finanziarie abbia più visibilità rispetto agli altri candidati.
Da allora ogni ordinamento giuridico ha cercato di disciplinare, con forme diverse, le modalità di finanziamento della politica, nel presupposto che queste siano strettamente connesse alla salvaguardia dei principi fondanti di ogni democrazia. Il finanziamento pubblico della politica rappresenta infatti l’effettiva e concreta garanzia che ogni cittadino possa “concorrere a determinare la politica nazionale” (come in particolare prescrive l’art. 49 della nostra Costituzione) in condizioni di parità. Una democrazia pluralista deve invero garantire uguali opportunità per tutti anche nell’accesso alla partecipazione politica e nell’esercizio di funzioni pubbliche. Inoltre, attraverso il finanziamento pubblico regolato normativamente, la competizione politica ubbidisce a principi e standards predeterminati, e quindi uguali, certi, misurabili, giustiziabili.
Da questo punto di vista i diversi modelli di finanziamento e di sostegno delle attività politiche riflettono l’idea che una comunità ha della democrazia e del rapporto che intercorre tra cittadini e istituzioni. Il finanziamento dei partiti è dunque, prima che una questione tecnica, giuridica e finanziaria, una questione ad alta intensità politica, che incide significativamente sulla qualità della vita democratica di un Paese. L’attività dei partiti, dei movimenti e dei gruppi politici organizzati in seno ai regimi democratici non può infatti prescindere dall’utilizzo delle risorse necessarie a sostenere più o meno ampie strutture organizzative, a svolgere attività di ricerca e formazione della classe politica e a finanziare le campagne elettorali. La democrazia, insomma, ha un costo che è condizione essenziale per l’esercizio delle insostituibili funzioni affidate ai partiti nel sistema costituzionale e che deve essere pertanto sostenuto e correttamente regolato affinché esso sia congruo e trasparente dinanzi all’opinione pubblica.
La tesi si propone come obiettivo di dimostrare l’importanza della tematica del finanziamento della politica nelle democrazie contemporanee e soprattutto in Italia.
Il primo capitolo tratta della disciplina del finanziamento della politica nelle principali democrazie europee, cercando di delineare un quadro generale e di individuare delle caratteristiche comuni. Tutti gli ordinamenti giuridici europei prevedono sistemi di finanziamento ai partiti politici nazionali di tipo misto basati sia sul finanziamento pubblico (diretto e indiretto), ripartito fra le diverse forze politiche in base all’esito elettorale e/o alla rappresentanza parlamentare, sia su quello privato. Tuttavia la previsione di un finanziamento ai partiti non significa che non debba essere posto un tetto massimo ai contributi pubblici erogati in favore delle forze politiche, né che tali risorse possano essere utilizzate senza alcun controllo.
Il secondo e il terzo capitolo riguardano specificatamente la situazione italiana per quanto concerne rispettivamente i partiti politici e il loro finanziamento. «I partiti sono organismi essenziali per un efficace funzionamento dello Stato democratico, tanto più in uno Stato moderno, fondato sul suffragio universale, esteso a tutti i diciottenni». Come ha acutamente osservato il Presidente della Repubblica Napolitano nel suo discorso di insediamento il 22 aprile 2013 «non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del metodo democratico».
Alcuni Paesi europei hanno pienamente riconosciuto la specifica funzione dei partiti politici come un imprescindibile strumento di mediazione tra istituzioni pubbliche e cosiddetta società civile, attraverso una puntuale regolamentazione di rango sia costituzionale che legislativo. In Italia, al contrario, si è finora preferito privilegiare la massima libertà di espressione dei singoli nelle forme associative. L’art. 49 Cost., in combinato disposto con gli articoli 1, 2 e 18 della Costituzione, è stato quindi tradizionalmente visto come il punto finale di un percorso in cui il partito costituisce il luogo naturale per i cittadini, associati liberamente, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Tuttavia, anche se per l’ordinamento privatistico italiano il partito politico rileva alla stessa stregua di una qualsiasi associazione non riconosciuta (nonostante la semplice osservazione della vita politica quotidiana faccia ritenere non più rinviabile un aggiornamento del quadro normativo di riferimento), in diritto pubblico occorre registrare un diverso impegno del legislatore, attento soprattutto al tema del finanziamento della politica. Mentre nella concezione ottocentesca del “partito parlamentare” non era avvertita la necessità di predisporre strutture organizzative articolate e quindi economicamente onerose, in seguito si afferma infatti un modello partitico caratterizzato dall’esistenza di vasti apparati organizzativi, insostituibili strumenti di crescente “interventismo” nella gestione della cosa pubblica in generale e delle istituzioni dello stato sociale in particolare. Con l’allargamento del suffragio universale alle classi sociali deboli, inoltre, nascono e si sviluppano formazioni politiche il cui sostentamento non può garantirsi con il solo ricorso alle libere contribuzioni di iscritti e simpatizzanti. Si afferma pertanto un modello di finanziamento della politica non esclusivamente governato da regole di natura privatistica. L’erario contribuisce direttamente alla vita economica dei partiti, oppure li finanzia indirettamente, incentivando la contribuzione privata con il ricorso a misure fiscali.
Il terzo capitolo propone una ricostruzione dell’evoluzione storico-normativa avvenuta nel nostro Paese nel corso di quasi quarant’anni, che può essere distinta fondamentalmente in tre fasi.
La prima fase è caratterizzata dall’introduzione e dal consolidamento del finanziamento pubblico ai partiti. Il fatto che quest’ultimo non sia stato accompagnato da norme volte a regolare i partiti politici è stato determinato da ragioni che vanno ricercate nello specifico contesto storico-politico dei primi anni Settanta, quando ancora si temeva che controlli esterni sulla vita dei partiti potessero essere utilizzati dagli avversari politici.
Nella seconda fase, in coincidenza con la crisi e transizione del sistema politico-istituzionale degli inizi anni Novanta, gli interventi normativi in materia sono stati dettati da due spinte contrastanti. Da una parte, le condizioni di emergenza “economica” dei partiti stessi che, a fronte del calo degli iscritti e all’aumento dei costi delle campagne elettorali, non erano in grado si sopravvivere senza il finanziamento pubblico; dall’altra, un’opinione pubblica che periodicamente, nei momenti di massima sfiducia verso i partiti, ha dimostrato (soprattutto nel referendum del 1993) un’evidente contrarietà rispetto al finanziamento pubblico diretto ai partiti politici. Ciò ha prodotto una situazione paradossale: i partiti non hanno avuto la forza politica di far comprendere che la politica costa e che vi sono ragioni costituzionali (prime fra tutte, l’indipendenza dei partiti e la parità di opportunità) che possono giustificare un sostegno pubblico (diretto o indiretto); al contempo, hanno continuato ad alimentare il finanziamento statale a titolo di “rimborso elettorale” senza garantire maggiore trasparenza né sottostare a controlli da parte di organi esterni.
La terza fase, infine, è caratterizzata da un finanziamento pubblico “mascherato” e moltiplicato e procede fino ai primi cambiamenti intervenuti nella seconda metà del primo decennio del nuovo secolo, come prime misure di contenimento dei costi della politica. La legge n. 96 del 2012, che ha riformato nuovamente la legislazione in materia, ha costituito per varie ragioni l’ennesima occasione perduta. Infatti, poiché per la ritrosia di molte forze politiche la riforma del sistema del finanziamento pubblico non è stata accompagnata dall’introduzione di una legislazione sui partiti capace di imporre il rispetto di “metodi democratici” nella vita interna degli stessi, è aumentata l’ambiguità della collocazione del sistema del finanziamento pubblico tra legislazione elettorale di contorno e legislazione sui partiti. Inoltre, è rimasta irrisolta la “causa” del finanziamento pubblico, concesso per “l’attività politica, elettorale e ordinaria” senza però pretendere che il partito dimostrasse di avere quell’organizzazione permanente capace di svolgere quotidianamente l’attività politica. Un notevole passo in avanti in tal senso sembra essere stato compiuto nel dicembre 2013, quando il Consiglio dei Ministri, su proposta dell’allora Presidente Enrico Letta, ha approvato un decreto legge che abolisce (gradualmente) il finanziamento pubblico ai partiti. Il Governo, nel Consiglio dei Ministri del 31 maggio scorso, aveva già dato il via libera a un disegno di legge che ne prevedeva l’abolizione e regolamentava la contribuzione volontaria ai partiti politici. Un testo ad oggi approvato solamente dalla Camera dei deputati e giacente da metà ottobre al Senato. Per questo, recependo le indicazioni arrivate dal Parlamento, il Consiglio dei Ministri ha voluto dare il via libera ad un testo che prevede, tra l’altro, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina la contribuzione volontaria e la contribuzione indiretta in loro favore.
Il quarto capitolo tratta della disciplina del finanziamento della politica nelle principali democrazie europee: un paragrafo è dedicato alla Francia, un paragrafo alla Germania, un paragrafo alla Spagna e un paragrafo al Regno Unito. Per ognuno dei quattro Paesi considerati è previsto uno schema di trattazione sintetico e schematico, con una parte introduttiva nella quale sono individuate le norme di riferimento e le principali tappe dell’evoluzione del sistema di finanziamento dei partiti, approfondendo poi in parti separate la disciplina che riguarda il finanziamento pubblico, la disciplina del finanziamento privato e il regime dei controlli.
Il capitolo finale è dedicato ai “partiti politici a livello europeo” e alla disciplina del loro finanziamento nel diritto dell’Unione europea. La normativa prodotta dall’UE a partire dal Regolamento (CE) n. 2004/2003 sui partiti politici europei assume infatti un notevole interesse soprattutto in relazione alla capacità che essa può avere di imporre anche a livello nazionale i suoi elementi costitutivi. Poiché i partiti politici europei consistono sostanzialmente in associazioni di partiti politici nazionali, è possibile che si avvii un processo teso ad uniformare le legislazioni nazionali in materia di partiti politici che ruoti intorno ai cardini della concorrenza fra contributi pubblici e privati, della piena pubblicità e assoluta trasparenza di ogni forma di finanziamento, del controllo accurato e di alcuni requisiti minimi di democraticità interna da imporre a tutte le formazioni politiche. La proposta avanzata dalla Commissione europea di modificare il vigente Regolamento (CE) n. 2004/2003 è ancora in discussione. Tuttavia sono evidenti le analogie fra tale proposta e il decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, intitolato “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”: obblighi puntuali di democrazia interna, contenuto minimo necessario degli statuti dei partiti, iscrizione dei partiti in un apposito registro, regole a garanzia della trasparenza, controlli sui bilanci e sui rendiconti e disciplina delle erogazioni liberali in favore dei partiti politici.
Non è un caso che già il vigente Regolamento (CE) n. 2004/2003, modificato nel 2007, si concentri soprattutto sugli aspetti legati al finanziamento dei partiti europei, nella convinzione che l’uguaglianza fra i vari soggetti politici rappresentativi della società civile possa essere ottenuta solo tramite sussidi pubblici concessi con modalità trasparenti. Per garantire un’equilibrata e democratica partecipazione dei partiti politici alla vita istituzionale dell’Unione europea, infatti, non sono sufficienti soltanto norme sul riconoscimento e il controllo di tali soggetti, ma è necessario tenere conto anche dei costi effettivi di tale coinvolgimento, introducendo disposizioni che affrontino e risolvano le questioni riguardanti il finanziamento dei partiti politici a livello europeo.
La riflessione sul finanziamento della politica inizia ad essere oggetto di attenzione con l’estensione del suffragio universale e la nascita dei partiti di massa, dotati di un forte e costoso apparato organizzativo. Infatti, solo con il passaggio da partiti di èlite a partiti massa, il costo della politica aumenta enormemente, il denaro inizia a diventare un elemento fondamentale della lotta politica e nasce il problema di garantire l’uguaglianza delle opportunità nell’accesso alle cariche elettive e la genuinità del voto, per evitare che chi ha maggiori disponibilità finanziarie abbia più visibilità rispetto agli altri candidati.
Da allora ogni ordinamento giuridico ha cercato di disciplinare, con forme diverse, le modalità di finanziamento della politica, nel presupposto che queste siano strettamente connesse alla salvaguardia dei principi fondanti di ogni democrazia. Il finanziamento pubblico della politica rappresenta infatti l’effettiva e concreta garanzia che ogni cittadino possa “concorrere a determinare la politica nazionale” (come in particolare prescrive l’art. 49 della nostra Costituzione) in condizioni di parità. Una democrazia pluralista deve invero garantire uguali opportunità per tutti anche nell’accesso alla partecipazione politica e nell’esercizio di funzioni pubbliche. Inoltre, attraverso il finanziamento pubblico regolato normativamente, la competizione politica ubbidisce a principi e standards predeterminati, e quindi uguali, certi, misurabili, giustiziabili.
Da questo punto di vista i diversi modelli di finanziamento e di sostegno delle attività politiche riflettono l’idea che una comunità ha della democrazia e del rapporto che intercorre tra cittadini e istituzioni. Il finanziamento dei partiti è dunque, prima che una questione tecnica, giuridica e finanziaria, una questione ad alta intensità politica, che incide significativamente sulla qualità della vita democratica di un Paese. L’attività dei partiti, dei movimenti e dei gruppi politici organizzati in seno ai regimi democratici non può infatti prescindere dall’utilizzo delle risorse necessarie a sostenere più o meno ampie strutture organizzative, a svolgere attività di ricerca e formazione della classe politica e a finanziare le campagne elettorali. La democrazia, insomma, ha un costo che è condizione essenziale per l’esercizio delle insostituibili funzioni affidate ai partiti nel sistema costituzionale e che deve essere pertanto sostenuto e correttamente regolato affinché esso sia congruo e trasparente dinanzi all’opinione pubblica.
La tesi si propone come obiettivo di dimostrare l’importanza della tematica del finanziamento della politica nelle democrazie contemporanee e soprattutto in Italia.
Il primo capitolo tratta della disciplina del finanziamento della politica nelle principali democrazie europee, cercando di delineare un quadro generale e di individuare delle caratteristiche comuni. Tutti gli ordinamenti giuridici europei prevedono sistemi di finanziamento ai partiti politici nazionali di tipo misto basati sia sul finanziamento pubblico (diretto e indiretto), ripartito fra le diverse forze politiche in base all’esito elettorale e/o alla rappresentanza parlamentare, sia su quello privato. Tuttavia la previsione di un finanziamento ai partiti non significa che non debba essere posto un tetto massimo ai contributi pubblici erogati in favore delle forze politiche, né che tali risorse possano essere utilizzate senza alcun controllo.
Il secondo e il terzo capitolo riguardano specificatamente la situazione italiana per quanto concerne rispettivamente i partiti politici e il loro finanziamento. «I partiti sono organismi essenziali per un efficace funzionamento dello Stato democratico, tanto più in uno Stato moderno, fondato sul suffragio universale, esteso a tutti i diciottenni». Come ha acutamente osservato il Presidente della Repubblica Napolitano nel suo discorso di insediamento il 22 aprile 2013 «non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del metodo democratico».
Alcuni Paesi europei hanno pienamente riconosciuto la specifica funzione dei partiti politici come un imprescindibile strumento di mediazione tra istituzioni pubbliche e cosiddetta società civile, attraverso una puntuale regolamentazione di rango sia costituzionale che legislativo. In Italia, al contrario, si è finora preferito privilegiare la massima libertà di espressione dei singoli nelle forme associative. L’art. 49 Cost., in combinato disposto con gli articoli 1, 2 e 18 della Costituzione, è stato quindi tradizionalmente visto come il punto finale di un percorso in cui il partito costituisce il luogo naturale per i cittadini, associati liberamente, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Tuttavia, anche se per l’ordinamento privatistico italiano il partito politico rileva alla stessa stregua di una qualsiasi associazione non riconosciuta (nonostante la semplice osservazione della vita politica quotidiana faccia ritenere non più rinviabile un aggiornamento del quadro normativo di riferimento), in diritto pubblico occorre registrare un diverso impegno del legislatore, attento soprattutto al tema del finanziamento della politica. Mentre nella concezione ottocentesca del “partito parlamentare” non era avvertita la necessità di predisporre strutture organizzative articolate e quindi economicamente onerose, in seguito si afferma infatti un modello partitico caratterizzato dall’esistenza di vasti apparati organizzativi, insostituibili strumenti di crescente “interventismo” nella gestione della cosa pubblica in generale e delle istituzioni dello stato sociale in particolare. Con l’allargamento del suffragio universale alle classi sociali deboli, inoltre, nascono e si sviluppano formazioni politiche il cui sostentamento non può garantirsi con il solo ricorso alle libere contribuzioni di iscritti e simpatizzanti. Si afferma pertanto un modello di finanziamento della politica non esclusivamente governato da regole di natura privatistica. L’erario contribuisce direttamente alla vita economica dei partiti, oppure li finanzia indirettamente, incentivando la contribuzione privata con il ricorso a misure fiscali.
Il terzo capitolo propone una ricostruzione dell’evoluzione storico-normativa avvenuta nel nostro Paese nel corso di quasi quarant’anni, che può essere distinta fondamentalmente in tre fasi.
La prima fase è caratterizzata dall’introduzione e dal consolidamento del finanziamento pubblico ai partiti. Il fatto che quest’ultimo non sia stato accompagnato da norme volte a regolare i partiti politici è stato determinato da ragioni che vanno ricercate nello specifico contesto storico-politico dei primi anni Settanta, quando ancora si temeva che controlli esterni sulla vita dei partiti potessero essere utilizzati dagli avversari politici.
Nella seconda fase, in coincidenza con la crisi e transizione del sistema politico-istituzionale degli inizi anni Novanta, gli interventi normativi in materia sono stati dettati da due spinte contrastanti. Da una parte, le condizioni di emergenza “economica” dei partiti stessi che, a fronte del calo degli iscritti e all’aumento dei costi delle campagne elettorali, non erano in grado si sopravvivere senza il finanziamento pubblico; dall’altra, un’opinione pubblica che periodicamente, nei momenti di massima sfiducia verso i partiti, ha dimostrato (soprattutto nel referendum del 1993) un’evidente contrarietà rispetto al finanziamento pubblico diretto ai partiti politici. Ciò ha prodotto una situazione paradossale: i partiti non hanno avuto la forza politica di far comprendere che la politica costa e che vi sono ragioni costituzionali (prime fra tutte, l’indipendenza dei partiti e la parità di opportunità) che possono giustificare un sostegno pubblico (diretto o indiretto); al contempo, hanno continuato ad alimentare il finanziamento statale a titolo di “rimborso elettorale” senza garantire maggiore trasparenza né sottostare a controlli da parte di organi esterni.
La terza fase, infine, è caratterizzata da un finanziamento pubblico “mascherato” e moltiplicato e procede fino ai primi cambiamenti intervenuti nella seconda metà del primo decennio del nuovo secolo, come prime misure di contenimento dei costi della politica. La legge n. 96 del 2012, che ha riformato nuovamente la legislazione in materia, ha costituito per varie ragioni l’ennesima occasione perduta. Infatti, poiché per la ritrosia di molte forze politiche la riforma del sistema del finanziamento pubblico non è stata accompagnata dall’introduzione di una legislazione sui partiti capace di imporre il rispetto di “metodi democratici” nella vita interna degli stessi, è aumentata l’ambiguità della collocazione del sistema del finanziamento pubblico tra legislazione elettorale di contorno e legislazione sui partiti. Inoltre, è rimasta irrisolta la “causa” del finanziamento pubblico, concesso per “l’attività politica, elettorale e ordinaria” senza però pretendere che il partito dimostrasse di avere quell’organizzazione permanente capace di svolgere quotidianamente l’attività politica. Un notevole passo in avanti in tal senso sembra essere stato compiuto nel dicembre 2013, quando il Consiglio dei Ministri, su proposta dell’allora Presidente Enrico Letta, ha approvato un decreto legge che abolisce (gradualmente) il finanziamento pubblico ai partiti. Il Governo, nel Consiglio dei Ministri del 31 maggio scorso, aveva già dato il via libera a un disegno di legge che ne prevedeva l’abolizione e regolamentava la contribuzione volontaria ai partiti politici. Un testo ad oggi approvato solamente dalla Camera dei deputati e giacente da metà ottobre al Senato. Per questo, recependo le indicazioni arrivate dal Parlamento, il Consiglio dei Ministri ha voluto dare il via libera ad un testo che prevede, tra l’altro, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina la contribuzione volontaria e la contribuzione indiretta in loro favore.
Il quarto capitolo tratta della disciplina del finanziamento della politica nelle principali democrazie europee: un paragrafo è dedicato alla Francia, un paragrafo alla Germania, un paragrafo alla Spagna e un paragrafo al Regno Unito. Per ognuno dei quattro Paesi considerati è previsto uno schema di trattazione sintetico e schematico, con una parte introduttiva nella quale sono individuate le norme di riferimento e le principali tappe dell’evoluzione del sistema di finanziamento dei partiti, approfondendo poi in parti separate la disciplina che riguarda il finanziamento pubblico, la disciplina del finanziamento privato e il regime dei controlli.
Il capitolo finale è dedicato ai “partiti politici a livello europeo” e alla disciplina del loro finanziamento nel diritto dell’Unione europea. La normativa prodotta dall’UE a partire dal Regolamento (CE) n. 2004/2003 sui partiti politici europei assume infatti un notevole interesse soprattutto in relazione alla capacità che essa può avere di imporre anche a livello nazionale i suoi elementi costitutivi. Poiché i partiti politici europei consistono sostanzialmente in associazioni di partiti politici nazionali, è possibile che si avvii un processo teso ad uniformare le legislazioni nazionali in materia di partiti politici che ruoti intorno ai cardini della concorrenza fra contributi pubblici e privati, della piena pubblicità e assoluta trasparenza di ogni forma di finanziamento, del controllo accurato e di alcuni requisiti minimi di democraticità interna da imporre a tutte le formazioni politiche. La proposta avanzata dalla Commissione europea di modificare il vigente Regolamento (CE) n. 2004/2003 è ancora in discussione. Tuttavia sono evidenti le analogie fra tale proposta e il decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, intitolato “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”: obblighi puntuali di democrazia interna, contenuto minimo necessario degli statuti dei partiti, iscrizione dei partiti in un apposito registro, regole a garanzia della trasparenza, controlli sui bilanci e sui rendiconti e disciplina delle erogazioni liberali in favore dei partiti politici.
Non è un caso che già il vigente Regolamento (CE) n. 2004/2003, modificato nel 2007, si concentri soprattutto sugli aspetti legati al finanziamento dei partiti europei, nella convinzione che l’uguaglianza fra i vari soggetti politici rappresentativi della società civile possa essere ottenuta solo tramite sussidi pubblici concessi con modalità trasparenti. Per garantire un’equilibrata e democratica partecipazione dei partiti politici alla vita istituzionale dell’Unione europea, infatti, non sono sufficienti soltanto norme sul riconoscimento e il controllo di tali soggetti, ma è necessario tenere conto anche dei costi effettivi di tale coinvolgimento, introducendo disposizioni che affrontino e risolvano le questioni riguardanti il finanziamento dei partiti politici a livello europeo.
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