Tesi etd-02272015-212052 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea specialistica LC6
Autore
RAMALLI, DALIA
URN
etd-02272015-212052
Titolo
Marcatori dinamici di funzione renale: nuove prospettive nel paziente critico
Dipartimento
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Dott. Forfori, Francesco
Parole chiave
- Acute Kidney Injury (AKI)
- danno renale acuto
- funzione renale
- GFR
- marcatori dinamici
- paziente critico
- UTI
Data inizio appello
17/03/2015
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
17/03/2085
Riassunto
Il danno renale acuto, Acute Kidney Injury (AKI) dall’inglese, è una sindrome clinica complessa che interessa il 35-70% dei pazienti nei reparti di terapia intensiva. Riconosce molteplici eziologie che includono l’ischemia, il danno da sostanze nefrotossiche e la sepsi; le singole componenti non sono sempre ben definibili e individuabili, pertanto una chiara valutazione eziologica non è sempre possibile.
Il danno renale acuto, indipendentemente dalla patologia sottostante, è considerato un fattore prognostico negativo indipendente: anche piccoli decrementi della funzione renale sono associati ad un aumentato rischio di mortalità. Evidenze recenti, inoltre, sottolineano un aumentato rischio a lungo termine per lo sviluppo di malattie cardiovascolari o di patologia renale cronica anche dopo un’apparente risoluzione del danno renale acuto.
Per quanto i recenti sforzi volti a standardizzare la definizione, l’approccio diagnostico e la terapia siano stati utili per una più uniforme comprensione di questa entità clinica e per una più facile comparazione dei risultati dei i vari studi, non è stato ancora raggiunto un sostanziale miglioramento nella precocità di diagnosi e nel monitoraggio dell’andamento della patologia.
Inevitabilmente un ritardo nella diagnosi significa un ritardo nel trattamento. Inoltre nel danno renale acuto le opzioni terapeutiche del medico sono limitate: si può minimizzare l’insulto tossico dovuto a farmaci e sostanze, aggiustare il bilancio idrico e i parametri emodinamici o, nei casi peggiori, iniziare la terapia renale sostitutiva. Ogni sforzo deve essere volto all’identificazione e alla risoluzione della causa di AKI, ma non sempre questo è possibile. In generale il miglior trattamento dell’AKI è la prevenzione: più il danno progredisce e più le possibilità terapeutiche si riducono.
La definizione corrente di AKI, indicata nelle linee guida KDIGO e originata dall’unificazione dei precedenti criteri RIFLE e AKIN, si basa sul dosaggio della creatinina plasmatica e sulla riduzione dell’urine output come indicatori della funzione renale e quindi del GFR. La relazione tra urine output e GFR è complessa e dipendente da numerosi fattori (ipovolemia, ipotensione, farmaci, livello di disfunzione tubulare) ed è pertanto un parametro poco accurato.
La creatinina, oltre a dipendere da numerosi fattori extrarenali (sesso, età, massa muscolare, farmaci, patologie), si innalza quando è andata persa la funzionalità del 50% dei nefroni, pertanto non è un marcatore di danno precoce. L’utilizzo della creatinina per la valutazione della funzione renale si basa, per altro, su un assunto non vero: la produzione e l’eliminazione di questa sostanza durante il danno renale acuto non sono costanti, configurando una condizione di non-steady-state; quando il GFR diminuisce, come conseguenza di un insulto, la creatinina aumenta molto lentamente raggiungendo un nuovo steady-state in un lasso di tempo variabile. Più la funzione renale diminuisce, maggiore è questo arco di tempo, in quanto l’emivita della creatinina dipende dal GFR (4 h nel normale, fino a 72h nella CKD end-stage). In pratica durante il danno renale acuto non si raggiunge e mantiene uno steady-state, piuttosto si hanno fluttuazioni della funzione renale che non sono identificabili con gli attuali metodi.
Risulta pertanto evidente la necessità di un nuovo approccio basato su una comprensione più profonda di questa complessa entità clinica. Il paradigma è piuttosto semplice: in seguito ad un insulto il rene rilascia biomarcatori in plasma e/o urine; questo evento precede la riduzione del GFR che dovrà essere valutata e monitorata con tecniche adatte per le misurazioni in non-steady-state.
In futuro l’inquadramento diagnostico dovrà basarsi sulla disponibilità di un panel di biomarcatori capace di indagare sul timing e sull’eziologia del danno con lo scopo di stratificare i pazienti ed intervenire in modo specifico nelle fasi più precoci, anche precedenti alla diminuzione di funzione. Le metodiche di valutazione renale si dovranno basare su tecniche dinamiche capaci di valutare il “real-time” GFR e dovranno essere:
• Specifiche, non dipendenti da fattori che possono variare in corso di altri stati patologici;
• sensibili, in quanto anche piccoli decrementi della funzione renale sono stati associati a aumento della mortalità;
• rapide, le misure dovranno avvenire in un lasso di tempo in cui si può approssimare lo steady-state;
• ripetibili e riproducibili, per poter seguire l’andamento nel tempo del danno e l’eventuale risposta alla terapia.
A questo proposito gli studi descritti in questo lavoro di tesi hanno lo scopo di indagare i possibili utilizzi di una molecola studiata decenni fa e poi dimenticata: il solfato inorganico. In particolare sono state studiate le concentrazioni plasmatiche di questo ione in condizioni statiche, su sieri di pazienti con malattia renale cronica, e in condizioni dinamiche, dopo bolo di sodio solfato in cavie animali. I risultati sono stati messi in relazione alla funzionalità renale misurata con metodiche gold standard.
Il danno renale acuto, indipendentemente dalla patologia sottostante, è considerato un fattore prognostico negativo indipendente: anche piccoli decrementi della funzione renale sono associati ad un aumentato rischio di mortalità. Evidenze recenti, inoltre, sottolineano un aumentato rischio a lungo termine per lo sviluppo di malattie cardiovascolari o di patologia renale cronica anche dopo un’apparente risoluzione del danno renale acuto.
Per quanto i recenti sforzi volti a standardizzare la definizione, l’approccio diagnostico e la terapia siano stati utili per una più uniforme comprensione di questa entità clinica e per una più facile comparazione dei risultati dei i vari studi, non è stato ancora raggiunto un sostanziale miglioramento nella precocità di diagnosi e nel monitoraggio dell’andamento della patologia.
Inevitabilmente un ritardo nella diagnosi significa un ritardo nel trattamento. Inoltre nel danno renale acuto le opzioni terapeutiche del medico sono limitate: si può minimizzare l’insulto tossico dovuto a farmaci e sostanze, aggiustare il bilancio idrico e i parametri emodinamici o, nei casi peggiori, iniziare la terapia renale sostitutiva. Ogni sforzo deve essere volto all’identificazione e alla risoluzione della causa di AKI, ma non sempre questo è possibile. In generale il miglior trattamento dell’AKI è la prevenzione: più il danno progredisce e più le possibilità terapeutiche si riducono.
La definizione corrente di AKI, indicata nelle linee guida KDIGO e originata dall’unificazione dei precedenti criteri RIFLE e AKIN, si basa sul dosaggio della creatinina plasmatica e sulla riduzione dell’urine output come indicatori della funzione renale e quindi del GFR. La relazione tra urine output e GFR è complessa e dipendente da numerosi fattori (ipovolemia, ipotensione, farmaci, livello di disfunzione tubulare) ed è pertanto un parametro poco accurato.
La creatinina, oltre a dipendere da numerosi fattori extrarenali (sesso, età, massa muscolare, farmaci, patologie), si innalza quando è andata persa la funzionalità del 50% dei nefroni, pertanto non è un marcatore di danno precoce. L’utilizzo della creatinina per la valutazione della funzione renale si basa, per altro, su un assunto non vero: la produzione e l’eliminazione di questa sostanza durante il danno renale acuto non sono costanti, configurando una condizione di non-steady-state; quando il GFR diminuisce, come conseguenza di un insulto, la creatinina aumenta molto lentamente raggiungendo un nuovo steady-state in un lasso di tempo variabile. Più la funzione renale diminuisce, maggiore è questo arco di tempo, in quanto l’emivita della creatinina dipende dal GFR (4 h nel normale, fino a 72h nella CKD end-stage). In pratica durante il danno renale acuto non si raggiunge e mantiene uno steady-state, piuttosto si hanno fluttuazioni della funzione renale che non sono identificabili con gli attuali metodi.
Risulta pertanto evidente la necessità di un nuovo approccio basato su una comprensione più profonda di questa complessa entità clinica. Il paradigma è piuttosto semplice: in seguito ad un insulto il rene rilascia biomarcatori in plasma e/o urine; questo evento precede la riduzione del GFR che dovrà essere valutata e monitorata con tecniche adatte per le misurazioni in non-steady-state.
In futuro l’inquadramento diagnostico dovrà basarsi sulla disponibilità di un panel di biomarcatori capace di indagare sul timing e sull’eziologia del danno con lo scopo di stratificare i pazienti ed intervenire in modo specifico nelle fasi più precoci, anche precedenti alla diminuzione di funzione. Le metodiche di valutazione renale si dovranno basare su tecniche dinamiche capaci di valutare il “real-time” GFR e dovranno essere:
• Specifiche, non dipendenti da fattori che possono variare in corso di altri stati patologici;
• sensibili, in quanto anche piccoli decrementi della funzione renale sono stati associati a aumento della mortalità;
• rapide, le misure dovranno avvenire in un lasso di tempo in cui si può approssimare lo steady-state;
• ripetibili e riproducibili, per poter seguire l’andamento nel tempo del danno e l’eventuale risposta alla terapia.
A questo proposito gli studi descritti in questo lavoro di tesi hanno lo scopo di indagare i possibili utilizzi di una molecola studiata decenni fa e poi dimenticata: il solfato inorganico. In particolare sono state studiate le concentrazioni plasmatiche di questo ione in condizioni statiche, su sieri di pazienti con malattia renale cronica, e in condizioni dinamiche, dopo bolo di sodio solfato in cavie animali. I risultati sono stati messi in relazione alla funzionalità renale misurata con metodiche gold standard.
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