Tesi etd-02182020-221226 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM6
Autore
STEFANELLI, SILVIA
URN
etd-02182020-221226
Titolo
Le caratteristiche cliniche dei pazienti ipertesi con diversi valori di frequenza cardiaca
Dipartimento
RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di studi
MEDICINA E CHIRURGIA
Relatori
relatore Prof. Taddei, Stefano
correlatore Prof. Masi, Stefano
correlatore Prof. Masi, Stefano
Parole chiave
- ABPM
- frequenza cardiaca
- ipertensione arteriosa
Data inizio appello
10/03/2020
Consultabilità
Non consultabile
Data di rilascio
10/03/2090
Riassunto
L’ipertensione arteriosa rappresenta il principale fattore di rischio per malattie cardiovascolari, che attualmente sono la prima causa di morbilità e mortalità a livello mondiale. Negli anni la prevalenza dell’ipertensione arteriosa si è ridotta. Nonostante ciò, a causa dell'invecchiamento della popolazione, dell'adozione di stili di vita più sedentari e dell'aumento del peso corporeo, la prevalenza dell'ipertensione in tutto il mondo continuerà ad aumentare.
Sebbene l’ipertensione arteriosa rappresenti un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, le Linee Guida ESC/ESH 2018 raccomandano, nei pazienti ipertesi, la valutazione del rischio cardiovascolare globale, a causa del clustering ben documentato di fattori di rischio che si riscontra in questi pazienti. Il sistema di valutazione del rischio cardiovascolare raccomandato è rappresentato dal sistema SCORE, che permette di collocare i pazienti ipertesi in quattro categorie di rischio, consentendo una migliore gestione della patologia.
Un aspetto fondamentale nella stima del rischio cardiovascolare nei pazienti ipertesi è la valutazione del danno d’organo mediato dall’ipertensione (HMOD), che risulta essere in parte responsabile del rischio cardiovascolare residuo nei pazienti trattati. Attualmente, la prevenzione primaria del rischio cardiovascolare non prevede l’individuazione della malattia subclinica a causa degli elevati costi associati alla fenotipizzazione di tutti i pazienti ipertesi. Un’alternativa valida potrebbe essere rappresentata dallo screening 3P che consiste nella preselezione dei pazienti ipertesi trattati attraverso il dosaggio del BNP, seguita dall’esecuzione di esami più specifici per l’individuazione del danno d’organo subclinico e dal trattamento personalizzato in base al tipo di malattia subclinica.
Negli ultimi anni, inoltre, l’attenzione si è focalizzata sul ruolo della frequenza cardiaca come indicatore di iperattivazione simpatica, caratteristica dei pazienti con ipertensione essenziale, e quindi di maggior rischio di progressione di malattia subclinica. Ampie evidenze dimostrano che un aumento dei valori di frequenza cardiaca rappresenti un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, nonché un predittore di mortalità cardiovascolare e da tutte le cause nei pazienti con ipertensione.
Rimane comunque poco chiaro se i dati sulla frequenza cardiaca ottenuti mediante l’ABPM possano essere maggiormente attendibili nell’individuazione di soggetti ipertesi con maggior rischio di malattia subclinica mediata dall’ipertensione. Lo scopo di questa tesi è stato dunque quello di verificare se la misurazione della frequenza cardiaca per periodi di tempo più prolungati potesse fornire maggiori informazioni relative all’iperattivazione simpatica rispetto alla misurazione durante le visite ambulatoriali, che avrebbe significato una più stretta associazione tra frequenza cardiaca e alterazioni cardiometaboliche tipiche dei pazienti ipertesi.
Secondo un disegno di studio retrospettivo osservazionale sono stati raccolti dati clinici, dei principali fattori di rischio cardiovascolare e di danno d’organo subclinico (mediante ABPM, ecocardiogramma, ecodoppler dei tronchi sopraortici, ecografia addominale ed ecodoppler delle arterie renali) di 70 pazienti ipertesi che sono stati suddivisi sulla base di valori di frequenza cardiaca superiori od inferiori a 70 bpm per la frequenza cardiaca clinica e superiori od inferiori a 60 bpm per la frequenza cardiaca notturna nel tentativo di individuare un possibile cut-off oltre il quale la frequenza cardiaca clinica e quella notturna registrata all’ABPM potessero associarsi ad un maggior rischio di alterazioni cardiometaboliche e di danno d’organo subclinico.
I risultati del nostro studio dimostrano che la frequenza cardiaca registrata all’ABPM, come riportato in letteratura, risulta avere un maggior significato clinico rispetto a quella clinica, in particolare i valori di frequenza cardiaca notturni risultano maggiormente associati ad un aumento della pressione arteriosa diastolica e di danno d’organo subclinico, come l’ateromasia carotidea e l’aumento della massa ventricolare sinistra. Ciò conferma l’importanza dell’ABPM per una più accurata stratificazione del paziente iperteso e suggerisce l’utilità della valutazione della frequenza cardiaca, in particolare di quella notturna, nell’interpretazione dei dati registrati all’ABPM.
Sebbene l’ipertensione arteriosa rappresenti un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, le Linee Guida ESC/ESH 2018 raccomandano, nei pazienti ipertesi, la valutazione del rischio cardiovascolare globale, a causa del clustering ben documentato di fattori di rischio che si riscontra in questi pazienti. Il sistema di valutazione del rischio cardiovascolare raccomandato è rappresentato dal sistema SCORE, che permette di collocare i pazienti ipertesi in quattro categorie di rischio, consentendo una migliore gestione della patologia.
Un aspetto fondamentale nella stima del rischio cardiovascolare nei pazienti ipertesi è la valutazione del danno d’organo mediato dall’ipertensione (HMOD), che risulta essere in parte responsabile del rischio cardiovascolare residuo nei pazienti trattati. Attualmente, la prevenzione primaria del rischio cardiovascolare non prevede l’individuazione della malattia subclinica a causa degli elevati costi associati alla fenotipizzazione di tutti i pazienti ipertesi. Un’alternativa valida potrebbe essere rappresentata dallo screening 3P che consiste nella preselezione dei pazienti ipertesi trattati attraverso il dosaggio del BNP, seguita dall’esecuzione di esami più specifici per l’individuazione del danno d’organo subclinico e dal trattamento personalizzato in base al tipo di malattia subclinica.
Negli ultimi anni, inoltre, l’attenzione si è focalizzata sul ruolo della frequenza cardiaca come indicatore di iperattivazione simpatica, caratteristica dei pazienti con ipertensione essenziale, e quindi di maggior rischio di progressione di malattia subclinica. Ampie evidenze dimostrano che un aumento dei valori di frequenza cardiaca rappresenti un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, nonché un predittore di mortalità cardiovascolare e da tutte le cause nei pazienti con ipertensione.
Rimane comunque poco chiaro se i dati sulla frequenza cardiaca ottenuti mediante l’ABPM possano essere maggiormente attendibili nell’individuazione di soggetti ipertesi con maggior rischio di malattia subclinica mediata dall’ipertensione. Lo scopo di questa tesi è stato dunque quello di verificare se la misurazione della frequenza cardiaca per periodi di tempo più prolungati potesse fornire maggiori informazioni relative all’iperattivazione simpatica rispetto alla misurazione durante le visite ambulatoriali, che avrebbe significato una più stretta associazione tra frequenza cardiaca e alterazioni cardiometaboliche tipiche dei pazienti ipertesi.
Secondo un disegno di studio retrospettivo osservazionale sono stati raccolti dati clinici, dei principali fattori di rischio cardiovascolare e di danno d’organo subclinico (mediante ABPM, ecocardiogramma, ecodoppler dei tronchi sopraortici, ecografia addominale ed ecodoppler delle arterie renali) di 70 pazienti ipertesi che sono stati suddivisi sulla base di valori di frequenza cardiaca superiori od inferiori a 70 bpm per la frequenza cardiaca clinica e superiori od inferiori a 60 bpm per la frequenza cardiaca notturna nel tentativo di individuare un possibile cut-off oltre il quale la frequenza cardiaca clinica e quella notturna registrata all’ABPM potessero associarsi ad un maggior rischio di alterazioni cardiometaboliche e di danno d’organo subclinico.
I risultati del nostro studio dimostrano che la frequenza cardiaca registrata all’ABPM, come riportato in letteratura, risulta avere un maggior significato clinico rispetto a quella clinica, in particolare i valori di frequenza cardiaca notturni risultano maggiormente associati ad un aumento della pressione arteriosa diastolica e di danno d’organo subclinico, come l’ateromasia carotidea e l’aumento della massa ventricolare sinistra. Ciò conferma l’importanza dell’ABPM per una più accurata stratificazione del paziente iperteso e suggerisce l’utilità della valutazione della frequenza cardiaca, in particolare di quella notturna, nell’interpretazione dei dati registrati all’ABPM.
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