Tesi etd-02072016-230222 |
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Tipo di tesi
Tesi di laurea magistrale LM5
Autore
SIGNORINI, ANDREA
URN
etd-02072016-230222
Titolo
"L'amministrazione di sostegno e la responsabilita civile"
Dipartimento
GIURISPRUDENZA
Corso di studi
GIURISPRUDENZA
Relatori
relatore Prof.ssa Giardina, Francesca
Parole chiave
- amministrazione di sostegno
- responsabilità civile
Data inizio appello
22/02/2016
Consultabilità
Completa
Riassunto
L’amministrazione di sostegno, introdotta nel nostro ordinamento con la legge n. 6 del 2004, è un istituto che ha innovato fortemente la disciplina in materia d’incapacità legale.
La condizione sociale del malato di mente non è sempre stata la stessa, si è passati da una protezione della società civile dal malato ad una protezione del malato stesso all’interno della società, il tutto grazie alla legge n. 180 del 1978, che ha abolito l’istituto del manicomio e ha aperto anche al malato di mente la possibilità di compiere personalmente attività giuridica quotidiana.
Il cambio di prospettiva, realizzato con la legge n. 180, ha indotto psichiatri e giuristi ad un ripensamento dei trattamenti sanitari e degli istituti giuridici a protezione del soggetto infermo di mente.
Il soggetto infermo di mente, in passato, veniva escluso sia fisicamente - attraverso l’internamento in manicomio - sia giuridicamente - attraverso le pronunce di interdizione e inabilitazione - dalla vita di tutti i giorni: pertanto, la protezione che l’ordinamento stabiliva prescindeva completamente dai bisogni e dalle aspirazioni di questo.
L’amministrazione di sostegno realizza quindi una “rivoluzione copernicana” in materia di incapacità d’agire: al centro della misura di protezione si trova il malato con tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi bisogni, i suoi interessi.
L’esclusione cede il passo al sostegno nei confronti del malato, la condizione dell’infermo di mente si avvicina sempre di più alla condizione delle persone c.d. “normali”.
Il legislatore, nel ridisegnare con la legge del 2004 la nuova condizione del soggetto infermo, non ha però disciplinato alcuni aspetti fondamentali che interessano la sfera giuridica della persona malata di mente.
In materia di illecito extracontrattuale, infatti, è evidente un problema di coordinamento tra l’istituto dell’amministrazione di sostegno e gli artt. 2046 e 2047 del codice civile.
Le norme codicistiche disciplinano la responsabilità civile per il fatto dannoso commesso dall’incapace naturale nei confronti di terzi, prevedendo all’art. 2046 c.c. una irresponsabilità del soggetto incapace d’intendere e di volere ed individuando all’art. 2047, 1° comma, c.c. come responsabile del fatto dannoso colui che è addetto alla sorveglianza dell’incapace stesso, salvo che il sorvegliante fornisca in giudizio la prova liberatoria di “non aver potuto impedire il fatto”.
In quest’ultima situazione, o laddove non vi sia una persona addetta alla sorveglianza dell’incapace, l’art. 2047, 2° comma, c.c., prevede l’eventualità che il giudice condanni lo stesso incapace alla corresponsione di un’equa indennità in favore della vittima del danno, derogando di fatto all’art. 2046 c.c.
Nel dimostrare il possibile collegamento tra l’amministrazione di sostegno e la responsabilità civile, la prima questione da analizzare consiste dunque nello stabilire se il beneficiario dell’amministrazione di sostegno sia un soggetto capace o meno d’intendere e di volere, per poterlo ritenere o meno imputabile ai sensi dell’art. 2046 c.c.
La capacità d’intendere e di volere è un presupposto e un’eccezione della capacità legale d’agire; il nostro ordinamento ritiene che, ai fini dell’attività negoziale, rilevi essenzialmente la capacità d’agire, pur consentendo, ai sensi dell’art. 428, 1° comma, c.c. la possibilità di annullamento dell’atto unilaterale da parte dell’incapace stesso se questo ha provocato un <<grave pregiudizio economico>>, e, ai sensi dell’art. 428, 2° comma, c.c., la possibilità di annullamento di un atto bilaterale se oltre al <<grave pregiudizio economico>> vi è anche <<la mala fede>> dell’altro contraente nei confronti dell’incapace.
Nella responsabilità ex art. 2047 c.c. rileva invece esclusivamente la capacità d’intendere e di volere, pertanto, anche se un soggetto è interdetto o inabilitato a niente rileva tale condizione: il giudice dovrà infatti procedere ad un accertamento caso per caso per verificare le condizioni in cui versava l’agente nel momento in cui ha commesso il fatto dannoso.
Una volta stabilita la capacità o meno d’intendere e di volere del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, la seconda questione da affrontare consiste quindi nello stabilire se l’amministratore di sostegno risponda a i sensi dell’art. 2047, 1° comma, c.c., in qualità di sorvegliante.
L’amministratore di sostegno tra i compiti che il giudice, attraverso il decreto di nomina gli attribuisce, ha anche il compito di sorvegliare il beneficiario nel compimento di atti che cagionano un danno a terzi?
È ancora corretto deresponsabilizzare l’incapace nel campo dell’illecito extracontrattuale, e lasciare il giudice libero nella sua discrezionalità di condannare o meno l’incapace a corrispondere un’equa indennità nei confronti della vittima del danno?
Una parte della dottrina1, richiamandosi ad alcuni ordinamenti stranieri, come quello francese e nord-americano, invoca il superamento degli art. 2046 e 2047 c.c., sostenendo una concezione oggettiva della responsabilità e di conseguenza la responsabilità diretta dell’incapace per il fatto illecito commesso.
Tale forma di responsabilità si collega ad una teoria oggettivistica della colpa, che nel valutare come colposa l’azione del danneggiante incapace ritiene sufficiente riscontrare la realizzazione erronea della condotta, senza indagare sulle condizioni psichiche del soggetto.
In conclusione, l’obiettivo di tale contributo è quello di dimostrare se in una società evoluta e moderna, come quella attuale, parlare d’incapacità d’intendere e di volere possa essere considerato ancora un privilegio per i soggetti infermi nella commissione di fatti dannosi, ovvero se l’introduzione di alcune norme dirette a responsabilizzare l’incapace - oltre a rappresentare un ribaltamento della concezione della responsabilità civile - possa essere considerata anche una sorta di trattamento terapeutico per il malato stesso in linea ai principi stabiliti dalla legge n. 180 del 19782.
Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono? Michel Foucault avrebbe dovuto porre questa domanda ai nostri attuali legislatori.
La condizione sociale del malato di mente non è sempre stata la stessa, si è passati da una protezione della società civile dal malato ad una protezione del malato stesso all’interno della società, il tutto grazie alla legge n. 180 del 1978, che ha abolito l’istituto del manicomio e ha aperto anche al malato di mente la possibilità di compiere personalmente attività giuridica quotidiana.
Il cambio di prospettiva, realizzato con la legge n. 180, ha indotto psichiatri e giuristi ad un ripensamento dei trattamenti sanitari e degli istituti giuridici a protezione del soggetto infermo di mente.
Il soggetto infermo di mente, in passato, veniva escluso sia fisicamente - attraverso l’internamento in manicomio - sia giuridicamente - attraverso le pronunce di interdizione e inabilitazione - dalla vita di tutti i giorni: pertanto, la protezione che l’ordinamento stabiliva prescindeva completamente dai bisogni e dalle aspirazioni di questo.
L’amministrazione di sostegno realizza quindi una “rivoluzione copernicana” in materia di incapacità d’agire: al centro della misura di protezione si trova il malato con tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi bisogni, i suoi interessi.
L’esclusione cede il passo al sostegno nei confronti del malato, la condizione dell’infermo di mente si avvicina sempre di più alla condizione delle persone c.d. “normali”.
Il legislatore, nel ridisegnare con la legge del 2004 la nuova condizione del soggetto infermo, non ha però disciplinato alcuni aspetti fondamentali che interessano la sfera giuridica della persona malata di mente.
In materia di illecito extracontrattuale, infatti, è evidente un problema di coordinamento tra l’istituto dell’amministrazione di sostegno e gli artt. 2046 e 2047 del codice civile.
Le norme codicistiche disciplinano la responsabilità civile per il fatto dannoso commesso dall’incapace naturale nei confronti di terzi, prevedendo all’art. 2046 c.c. una irresponsabilità del soggetto incapace d’intendere e di volere ed individuando all’art. 2047, 1° comma, c.c. come responsabile del fatto dannoso colui che è addetto alla sorveglianza dell’incapace stesso, salvo che il sorvegliante fornisca in giudizio la prova liberatoria di “non aver potuto impedire il fatto”.
In quest’ultima situazione, o laddove non vi sia una persona addetta alla sorveglianza dell’incapace, l’art. 2047, 2° comma, c.c., prevede l’eventualità che il giudice condanni lo stesso incapace alla corresponsione di un’equa indennità in favore della vittima del danno, derogando di fatto all’art. 2046 c.c.
Nel dimostrare il possibile collegamento tra l’amministrazione di sostegno e la responsabilità civile, la prima questione da analizzare consiste dunque nello stabilire se il beneficiario dell’amministrazione di sostegno sia un soggetto capace o meno d’intendere e di volere, per poterlo ritenere o meno imputabile ai sensi dell’art. 2046 c.c.
La capacità d’intendere e di volere è un presupposto e un’eccezione della capacità legale d’agire; il nostro ordinamento ritiene che, ai fini dell’attività negoziale, rilevi essenzialmente la capacità d’agire, pur consentendo, ai sensi dell’art. 428, 1° comma, c.c. la possibilità di annullamento dell’atto unilaterale da parte dell’incapace stesso se questo ha provocato un <<grave pregiudizio economico>>, e, ai sensi dell’art. 428, 2° comma, c.c., la possibilità di annullamento di un atto bilaterale se oltre al <<grave pregiudizio economico>> vi è anche <<la mala fede>> dell’altro contraente nei confronti dell’incapace.
Nella responsabilità ex art. 2047 c.c. rileva invece esclusivamente la capacità d’intendere e di volere, pertanto, anche se un soggetto è interdetto o inabilitato a niente rileva tale condizione: il giudice dovrà infatti procedere ad un accertamento caso per caso per verificare le condizioni in cui versava l’agente nel momento in cui ha commesso il fatto dannoso.
Una volta stabilita la capacità o meno d’intendere e di volere del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, la seconda questione da affrontare consiste quindi nello stabilire se l’amministratore di sostegno risponda a i sensi dell’art. 2047, 1° comma, c.c., in qualità di sorvegliante.
L’amministratore di sostegno tra i compiti che il giudice, attraverso il decreto di nomina gli attribuisce, ha anche il compito di sorvegliare il beneficiario nel compimento di atti che cagionano un danno a terzi?
È ancora corretto deresponsabilizzare l’incapace nel campo dell’illecito extracontrattuale, e lasciare il giudice libero nella sua discrezionalità di condannare o meno l’incapace a corrispondere un’equa indennità nei confronti della vittima del danno?
Una parte della dottrina1, richiamandosi ad alcuni ordinamenti stranieri, come quello francese e nord-americano, invoca il superamento degli art. 2046 e 2047 c.c., sostenendo una concezione oggettiva della responsabilità e di conseguenza la responsabilità diretta dell’incapace per il fatto illecito commesso.
Tale forma di responsabilità si collega ad una teoria oggettivistica della colpa, che nel valutare come colposa l’azione del danneggiante incapace ritiene sufficiente riscontrare la realizzazione erronea della condotta, senza indagare sulle condizioni psichiche del soggetto.
In conclusione, l’obiettivo di tale contributo è quello di dimostrare se in una società evoluta e moderna, come quella attuale, parlare d’incapacità d’intendere e di volere possa essere considerato ancora un privilegio per i soggetti infermi nella commissione di fatti dannosi, ovvero se l’introduzione di alcune norme dirette a responsabilizzare l’incapace - oltre a rappresentare un ribaltamento della concezione della responsabilità civile - possa essere considerata anche una sorta di trattamento terapeutico per il malato stesso in linea ai principi stabiliti dalla legge n. 180 del 19782.
Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono? Michel Foucault avrebbe dovuto porre questa domanda ai nostri attuali legislatori.
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